Il viaggio odissiaco di Vito Teti, tra partenze, attese e nuove identità
Tra i fotogrammi più nitidi della mia infanzia nel vecchio borgo di Brancaleone Superiore certamente il primo è il ritorno dall’America di nonno Ciccio, il padre di mia madre, nell’ottobre 1955, in un trasparente pomeriggio autunnale e con l’aria frizzante proveniente dalla sottostante Marina ionica, mescolata alle voci dei pescatori che preparavano le reti per l’uscita notturna.
Io e mia madre eravamo appiccicati al balcone, quasi sospesi nel vuoto, in attesa che mio padre comparisse sotto di noi, ai piedi della salita che portava al vecchio borgo dai muraglioni biancosporchi. Ogni volta era ben visibile la sua camicia bianca di puro cotone, acquistato nel negozio del «barese», cucita da mamma con la vecchia Singer, regalo di nozze, e lo sventolio del suo fazzoletto; erano due segni inequivocabili. La gioia era grande: mia madre piangeva perché avrebbe conosciuto dopo 32 anni suo padre, partito quando lei non aveva ancora un anno.
Com’era volato in fretta il tempo. Nonna Candida se n’era andata da due anni e non lo aveva più rivisto.
All’improvviso sentimmo disperdersi tra le querce e gli ulivi inerpicati sulla collina una voce che chiamava «Peppina». L’eco ripetette il nome e i pochi vicini e parenti ch’erano rimasti in un paese, ormai svuotato, presero posto sui muriccioli scrostati della piazzetta accanto alla nostra casa grande, ai piedi del castello diroccato.
Papà e nonno stavano arrivando, con il grosso baule blu americano, in groppa all’asino un po’ svogliato di compare Nino Patti.
L’abbraccio fu lungo, le lacrime si mescolavano a una gioia immensa. Io guardavo stordito insieme ai miei due fratelli di poco più grandi, Pancrazio e Mimmo. Andai subito sulle ginocchia di nonno Ciccio che continuava a osservare stranito e stanco il vecchio paese. Mi colpiva la sua eleganza, specie quel suo cappello antracite a falde larghe adagiato sul tavolo: un segno tangibile che nella vecchia America nonno si era trovato bene.
I cugini Mena e Ciccio chiesero notizie di zio Peppe e seppero che pure lui sarebbe ritornato per sempre.
A sera mangiammo il bollito di gallina e il vino di papà rese più allegro il nonno che prese la sua armonica e ci deliziò con le orecchiabili marcette di quand’era punto di forza della vecchia banda del paese. Andò poi a sedersi sui muriccioli della piazzetta, quasi a riprendere confidenza con il suo cielo stellato d’un tempo e non smetteva di parlare della sua America lasciata per sempre.
Devo a Vito Teti la riemersione di questi lampi memoriali, tornati alla luce grazie al suo pregnante libro, a metà tra saggistica e narrativa, Pietre di pane. Un’antropologia del restare.
Il lavoro di Teti parte da alcune domande pregnanti che danno forza e toni alti alla sua ricerca antropologica: «Restare è difendere un appaesamento o esiste anche una maniera spaesante di restare che, a volte, può risultare più scioccante del viaggiare? Il viaggio avrebbe significato senza qualcuno che attenda il ritorno?»1.
Una prima risposta la dà l’autore:
Ci viene in soccorso sull’argomento la letteratura calabrese con le pagine indimenticabili di Alvaro, La Cava, Perri e Strati.
Il canto dei nuovi emigrati di Franco Costabile è una poesia che conferma quanto fosse forte il cordone ombelicale che legava il poeta alla sua terra «nella quale egli trova la sua vera patria di sradicato»:
Ma da questa situazione di inferiorità si sprigionano energie vitali che se da un lato rendono forte la nostalgia dei luoghi di origine, dall’altro generano pure il desiderio di riconoscersi altrove. A Toronto, per esempio, dove, nonostante mancasse qualcosa, ognuno si sentiva più leggero. I nuovi luoghi, dopo vent’anni, facevano parte del paesaggio di un’altra vita.
Certo, c’era anche il rischio denunciato da Pasolini, fiero oppositore di quello che lui chiamava il vero olocausto, la distruzione della civiltà contadina, in nome di una modernizzazione, che – osserva l’autore – è «imposta dai ceti dominanti soltanto come assimilazione e omologazione».
Andava scomparendo la civiltà del pane, e tuttavia essa costituiva la base della costruzione del paese nuovo nel nuovo mondo.
È tra i capitoli più belli del lavoro di Teti, La casa dei trentatré pani, che si apre con un incipit narrativo di lirica bellezza:
Teti ricorda a noi tutti come il pane abbia i suoi paesaggi, le sue storie, le sue leggende, i suoi santi, i suoi miti e «tuttavia resta in larga parte da scrivere un grande romanzo del pane».
Illuminante, in tal senso, il libro di Enzo Bianchi, priore della comunità monastica di Bose, Il pane di ieri (Einaudi), nelle cui pagine la memoria personale sfuma nella storia universale, facendosi memoria collettiva. L’autore, originario del Monferrato, evidenzia come si sia perso il senso del pane e nota che proprio per questo non si è più capaci di «capire il pane». Che è nato nel III millennio a.C. in Egitto.
Con
Ha ragione Teti: il forno era il centro della casa, del paese, dell’universo contadino. Ma diventa anche il collante dei tanti emigranti nel nuovo mondo: un periodo duro, epico, tuttavia avvincente. E accettare un pane è ancora oggi, nei nostri paesi, un modo per ricordare persone care che non ci sono più.
L’autore va oltre e ammonisce con grande lungimiranza:
Teti compie numerosi viaggi oltreoceano per leggere dal di dentro la condizione dei nuovi emigrati, che partivano con i loro bagagli e andavano a fabbricare nuovi mondi, portandosi dietro tanti panieri di fichi, esibiti come un passaporto, fichi che dopo diciotto ore dalla raccolta rimanevano «belli e luccicanti, un po’ accaldati, ma integri e che pare dicessero “mangiami, mangiami”». Raccoglie poi una verità indiscutibile:
Corrado Alvaro compie con la sua densa e poetica prosa il suo viaggio nell’America del nord, nei bellissimi racconti Il rubino e Ventiquattrore, facenti parte di Gente in Aspromonte.
Sono pagine di emigrazione, dense di speranza e che sanno interpretare il senso del partire e del restare:
Al contrario in Mario La Cava manca quest’aria di speranza, serpeggia un pessimismo strisciante in tanti dei bellissimi racconti di Viaggio in Egitto e altre storie di emigranti.
Basta per tutti il sarto Paolo Armaldi al quale mancava «l’abilità a vivere e a trattare con la gente» e che nella grande città di Buenos Aires «vi rimase come impigliato, sempre smarrito e devoto».
Ritorna al paese d’origine e
È difficile la ricerca dell’identità. Ha ragione Carmine Abate: emigrare non è solo uno strappo, una ferita, ma è anche ricchezza. Si vive lacerati tra due mondi. Si vive «consapevolmente per addizione».
È una sensazione che rivive lo stesso Teti quando si reca verso Midland, a Toronto, ad assistere al rito della benedizione della statua del Crocifisso e dell’Addolorata, a conferma di un legame tra quelli che sono partiti e il paese d’origine,
L’autore rivede la festa della sua infanzia, caricandola di inebriante poesia: