Nostro Signore del deserto
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Meditazioni sulla preghiera

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Nostro Signore del deserto

Meditazioni sulla preghiera

About this book

L'intensa meditazione intorno alla realtà della preghiera al centro di questo volume non viene, come sarebbe pure lecito attendersi, dalla testa e dalle mani di un qualche chierico, maschio ovviamente. Nasce piuttosto dalla testa, dalle mani, e in misura non minore dal cuore di una donna, Adriana Zarri, che è stata scrittrice, teologa, eremita e voce profetica nel nostro tempo. E sopratutto donna di preghiera. La differenza per questo balza subito agli occhi e alle orecchie. Per Adriana Zarri la preghiera non è questione di formule o di linguaggi, di riti o di pratiche, di richieste petulanti o di obblighi da assolvere. La preghiera è piuttosto una questione ontologica: cioè del nostro essere, del nostro stare al mondo, del nostro modo di vivere; e nello stesso tempo è una questione di amore: dell'amore che portiamo al mistero dell'essere che da ogni parte si affaccia all'orizzonte della nostra esistenza e che nella religione ha il nome di Dio. Accogliere e lasciarsi accogliere da questo mistero dell'essere è in verità l'ultimo e intimo segreto di ciò che chiamiamo preghiera.

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Information

Nostro Signore del deserto

Meditazioni sulla preghiera

PARTE PRIMA

Teologia della preghiera

Crisi della preghiera

È noto che, quando all’inizio del Concilio, contrariamente al calendario previsto, si diede la precedenza alla discussione sulla liturgia, tutti ne furono lieti, e subito trovarono argomenti (a posteriori si trovano sempre; e tanto più quando ci sono) per asserire la provvidenzialità di quella precedenza casuale: perché era opportuno – giustamente si disse – dare inizio ai lavori con un dibattito sulla preghiera che è alla base della conversione e della vita cristiana, il cui rinnovamento (l’«aggiornamento» come fu detto, con un termine fortunato, anche se non molto interiore) non è che un aspetto esterno e storico. Sennonché il discorso sulla preghiera rimase piuttosto sullo sfondo, alquanto generico e sfumato, quasi che si desse per ovvio (e sa invece il cielo come non lo sia) e quasi che si considerasse la decadenza liturgica all’origine della decadenza contemplativa e non, invece, pur con gli incroci che sempre si verificano, fondamentalmente il contrario: una decadenza contemplativa – che ha cause più remote, in una decadenza culturale – e che, a sua volta, genera uno svilirsi del culto.
Non avendo affrontato il deterioramento nella sua vera radice, il discorso sulla preghiera e la riforma liturgica sembra ancor fatto, prevalentemente, secondo vecchi modelli: vale a dire su un piano di convinzione logica e di preoccupazione didattica, più che di abbandono lirico e di gratuità.
Concepita in tal modo, la riforma liturgica non ha contribuito che marginalmente a risolvere la crisi della preghiera (se mai ne ha risolte altre: l’incomprensione dei testi, la scarsa consuetudine alla parola di Dio…). Programmata dal tipo d’uomo scarsamente contemplativo che aveva messo la liturgia vecchia sotto vetro, sottraendola al nostro intervento, alla nostra creatività, alla nostra vita, anche la liturgia nuova rischiava un nuovo rubricismo; e i mutamenti – il più vistoso quello della lingua – d’esser rimessi in vetrina, come un vestito, nuovo sì, ma sempre confezionato da altri, secondo un taglio arcaico, da mettere indosso docilmente, senza apporvi varianti: nemmeno (e forse tanto meno) quella variante essenziale costituita da un nuovo spirito, da una nuova cultura, da un nuovo modo di sentire e di essere.
In effetti molti uomini impegnati in quella riforma confessavano, o lasciavano chiaramente comprendere, di non avere particolari interessi per la mistica; forse invischiati nell’equivoco che la confonde coi «fenomeni» più o meno straordinari (il che, a quel livello di competenza, parrebbe davvero troppo strano) oppure, più presumibilmente, anch’essi integrati in una civiltà che non ha mai avuto grandi slanci contemplativi. Né del resto si poteva pretendere – benché il Concilio sia stato un importante catalizzatore – che nascesse una nuova cultura e un nuovo modello antropologico solo perché si era fatta evidente la necessità di una riforma; soprattutto se quell’evidenza era avvertita più a livello immediatamente pastorale che remotamente culturale.

Crisi di una cultura

In effetti quella che andava riformata non era tanto la liturgia, espressa da una certa civiltà e cristallizzata dalla sua decadenza, quanto la civiltà stessa che l’aveva costruita.
Non è un processo che s’intenda fare alla nostra cultura, anche se è lecito supporre che la valenza contemplativa non sia mai stata in essa preminente e che altri climi storici e geografici risultino più disposti all’esperienza religiosa. Ma è un dato che la modesta disposizione degli inizi sia divenuta, col tempo, quasi del tutto irrilevante. Le civiltà, difatti, esprimono il meglio di sé alle loro origini e il peggio allo scadere dell’arco storico che è loro concesso. Così la nostra – che pure ha, al suo attivo, la ricchezza di una grande lucidità intellettuale e la capacità architettonica della sintesi – oggi sta decadendo nell’incasellamento della sistematica e nel dissanguamento dell’intellettualismo. Il risultato è un mondo esasperatamente razionale, illuminista, capitalista, che tende a ricondurre tutto al logico, al legale, all’efficiente, al produttivo, con la perdita o la grave attenuazione di quei valori di gratuità, di intuizione e di passione esistenziale che non rientrano nel suo quadro preciso e programmato. Lo stesso deterioramento di taluni vocaboli – quali sapienza, conoscenza, esperienza (vedremo poi di un loro nuovo recupero) – un tempo ricchi di densità sapienziali e oggi ridotti a livello puramente intellettualistico, è uno dei segni dell’impoverimento di una cultura che era nata dall’innesto del sapienziale sul razionale e che poi si era sviluppata più nel senso del ceppo portante, lasciando sempre più decadere il virgulto ebraico-cristiano.
Quando, alle origini, quel deposito sapienziale era più denso, il legame con le culture bibliche più stretto, il rapporto tra Oriente e Occidente ancora fluido, la preghiera latina andò gradualmente modellandosi sulla cultura nata dal confluire del cristianesimo e delle sue valenze semitiche nel mondo classico, cui aveva conferito una densità, un turgore, un adombramento di mistero, tali da costituirsi in un tipo di civiltà omogenea e ben compaginata e da formare la grandezza di un’epoca. Ma poi la tranquillità in cui si erano stabilizzate talune carenze di supporto (e che solo oggi, sul crinale di altre culture, si stanno rivelando) era andata erodendo quell’armonia, facendola piegare verso sponde esasperatamente intellettualistiche e giuridiche, ponendo le premesse di una decadenza di cui noi ora stiamo misurando l’ampiezza.

La decadenza degli «oremus» latini

Lo schema degli «oremus» latini esprime la pienezza ma anche il tarlo segreto che quella cultura portava in sé fin dalle origini. Non v’è in essi un abbandono folle ma un lucido discorso razionale, dove però, la razionalità è ancora un intelligere (intus legere), denso di succhi esistenziali. La trama è bilanciata e geometrica: un’architettura fredda ma sapiente (e sapiente significava ancora sapienziale; e ciò ne attenuava la frigidità). Ma, via via che quei tarli compivano la loro erosione, la ripresa di quei medesimi schemi diveniva sapiente ma fredda, dove il «sapiente» non era più sapienziale ma puramente intellettuale e la frigidità prendeva il sopravvento su quel «sàpere» antico (che era un gustare, un gioire, un estasiarsi nell’armonia di un contrappasso profondamente radicato nel mistero) e che noi abbiamo sciaguratamente tradotto in un «sapére» illuminista.
Col trascorrer del tempo si formava la scuola: le preghiere si facevano man mano più meccaniche, come spinte da un automatismo logico-dialettico; e il mistero regrediva a primo membro di un paragone, a semplice supporto dell’innesto petitivo: da forza motrice a poco più che pretesto. Quel geometrismo astratto – che era una pura tecnica (forma paratattica, parallelismo, antitesi, ecc.) – veniva usato in modo sempre più schematico, paradigmatico e legnoso, senza duttilità, senza calore esistenziale, fino a giungere a formule globali, generiche, vaste, magari cosmiche ma rigide, prive del movimento vario e mutevole della pluralità: vi si prega per l’uomo più che per gli uomini; ci si sente la dimensione vasta dell’umanità ma non l’accento vivo della singolarità, col nome proprio di ciascuno. Vi si parla del creato, ma quasi sempre su misure oceaniche; ci si sente il cielo e la terra, il mare e i cedri del Libano, non la soglia di casa e i vasi di basilico (molto meglio nei brani biblici dove, vicino ai cedri, troviamo il balsamo e il cinnamomo; e gli animali, ciascuno con la propria vita e con la propria tana. Vedi, ad esempio, lo splendido salmo 103 che si recita – meglio sarebbe cantarlo – nell’ora media del sabato). Difetti, questi, collegati anche al virilismo che è tratto tipico di questa civiltà e il cui superamento, connesso con la promozione della donna, non sarà privo di recuperi contemplativi.
Così il ramo dei grandi «oremus» latini si è seccato, non nel senso che non produce più frutti ma nel senso che non produce più frutti gustosi, del gusto primitivo del «sàpere» ma solo in quello successivo del «sapère»: produce schemi su cui si possono ingegnosamente impostare e ricamare, con volute di varianti e di incisi, tutte le nostre possibili domande. E sono sempre domande, mai offerte, mai oblii e abbandoni; sempre ragionevolezze, mai follie. Gli «oremus», al pari di altre cristallizzazioni liturgiche, non sono che un esempio dell’involuzione delle forme nell’ambito dell’involuzione della civiltà che le ha espresse. Così questo tipo di preghiera, entrato in crisi con la nostra civiltà, non sarà forse superato che all’affacciarsi di una svolta culturale capace di nuove e più liriche espressioni.

Novità e limiti di una riforma

La riforma liturgica si pone sul crinale di questo trapasso. Non evidentemente in grado di promuovere un salto, che ha motivi più vasti e meno programmabili, e tuttavia nemmeno in grado di promuovere forme di preghiera senza una mediazione culturale, essa, per certi aspetti, recepisce fermenti innovatori forieri di altre sensibilità, per altri invece permane ancora tributaria di una vecchia cultura, non totalmente superata. Concepita, sì, in forme più vastamente comunitarie e bibliche resta però ancorata a modi tuttora intellettualistici e didattici. Valga, ad esempio, la sostituzione – infelicissima – della preghiera che si recita all’infusione dell’acqua nel vino nella messa, dove la splendida formulazione antica è andata persa, a vantaggio del freddo e piatto didascalismo odierno, messo lì per spiegare un simbolo non più immediatamente percepibile e che, perciò, tanto valeva sopprimere o crearne uno nuovo, se se ne avesse avuto fantasia e… permesso da Roma.
Del pari il senso del mistero appare un po’ recuperato, ma non ancora assaporato e vissuto, non avendo, alle spalle, un adeguato contesto di supporto. Si invita più a meditarlo che a contemplarlo, suggerlo, goderlo. E allora anche il silenzio reintrodotto rischia di diventare un «non dir nulla» un attender paziente (o infastidito o imbarazzato) che si riprenda la preghiera e l’azione liturgica; quasi che il silenzio non fosse, esso pure, preghiera e l’azione fosse qualcosa di attivistico, più prossimo al «facere» che all’«agere», che è insieme un condurre e un essere condotti. Per ricreare il silenzio non basta certo tacere. Il silenzio va ricreato all’interno della parola stessa, come il suo vertice e la sua dimensione più profonda. Ma creare il silenzio significa creare appunto la preghiera: quello spazio, quell’ascolto, quella contemplazione assorta e stupefatta in cui si dilata il dialogo con Dio. Se questo manca, del tutto inutile è tacere: non si fa silenzio: si fa soltanto assenza di parole e di Parola.
Operando in modo prevalentemente didattico – anche se al suo più alto livello – la riforma ha operato una traduzione lessicale più che una traduzione culturale: ha trasposto parole più che reinterpretare la Parola e inventare nuovi climi in grado di rendere percepibile, oggi, l’incarnazione perenne del Verbo.

Le ragioni di chi aveva torto

A questo punto possiamo anche recuperare quanto poteva esserci di valido in talune obiezioni (a dire il vero molto banalizzate) degli avversari della riforma liturgica e dei sostenitori del latino.
Si disse, da parte di qualcuno, che la lingua incomprensibile avrebbe meglio custodito il mistero e difeso la contemplazione. Argomento maldestro, in quanto il mistero non è qualcosa di subrazionale (come accade nel diaframma linguistico) bensì di sovrarazionale, il che è evidentemente ben altro. Il mistero è la divina trascendenza; e sarebbe ridicolo che la si potesse sconfiggere con un po’ di grammatica latina! Senza dir poi delle letture bibliche, totalmente frustrate da un tramite linguistico incomprensibile e incapace di mediare e trasmettere il Verbo, in parole accessibili. Tuttavia, al di là delle obiezioni goffe, possiamo cogliere un loro possibile senso: che, cioè, non si esaurisce tutto nell’intelligibile e nel didascalico, che la pedagogia non si attua solo a livello logico e che una ricerca esasperata di razionalità può talora violare alcune soglie di silenzio in cui abita, più direttamente, il mistero. Soltanto che il rimedio non è quello puerile e formalistico di regredire verso l’incomprensibilità di lingue arcane (rimedio, tra l’altro, inefficace per chiunque le conosca; per cui gli indotti sarebbero privilegiati sui sacerdoti e sugli uomini colti), ma di camminare in avanti, verso il mistero autentico, in forme d’approccio da inventare ma che lascino uno spazio più vasto al silenzio (quello vero), all’ascolto, alla poesia, con quel suo tanto di ineffabile e pur detto che varca i segni del puro razionale.
Non va neanche negata a priori l’ipotesi che, in rari casi, l’incomprensibilità di una lingua sconosciuta possa tenere il posto del silenzio e reggere una contemplazione atematica, difendendola da quell’invadenza, da quel turbamento razionale che può rompere la quiete calmissima di certi stati di preghiera. Ma, in questo caso, il latino non vale più del greco o del sanscrito o di una filastrocca da bambini.
Entriamo qui nella tecnica della contemplazione: un discorso che è stato del tutto eluso dalla nuova liturgia come, del resto, appariva lontano dalla vecchia.

Possibili supporti di una preghiera atematica

Lontano, non forse del tutto assente, alle origini. Pensiamo alle parole «in lingua» di Paolo e ai Verba mystica di Pacomio. E possiamo anche supporre che certe ripetizioni litaniche si valessero un tempo di un’altalena ritmica, concepita come supporto di una preghiera acategoriale. Forse qualcosa di questo clima e di questa tecnica è in ciò che gli specialisti della materia chiamano «attenzione diffusa»: un’attenzione, cioè, che non verte direttamente sulla parola e sui concetti espressi, ma spazia liberamente su un mistero (come può essere il caso del rosario) o si fissa su un contatto con Dio che oramai sfugge ad ogni maglia razionale (e tuttavia va rilevato che nella misura in cui la preghiera si fa meno tematica e più contemplativa, il supporto si fa più accidentale e meno vincolante). È certo, comunque, che se indizi e inizi di queste tecniche ci furono, i loro relitti sono andati quasi completamente persi; e l’onda di quelle reiterazioni ritmiche, trasposta in un clima razionale, è del tutto scaduta, quantificandosi, a livello ripetitivo; non è più un mezzo per il raggiungimento di un’atmosfera contemplativa, ma solo un’addizione di domande (e il clima così esasperatamente petitivo della nostra preghiera non ne aveva proprio bisogno!). Come tale sortisce un effetto contrario. Perché, se la preghiera atematica può valersi di basi ritmiche e di reiterazioni verbali, non più razionalmente utilizzate, una preghiera razionale – qual è, quasi sempre, la nostra – non può reggere a lungo alla ripetizione.
Il rosario, ad esempio, se proprio vogliamo «salvarlo» (ma è poi così indispensabile?) dobbiamo derazionalizzarlo, facendone il supporto litanico di una contemplazione non più intellettuale. Ma a questo punto, vale come ogni altro supporto; magari col vantaggio di un certo riflesso condizionato che vi si è deposto sopra, e che costituisce un richiamo psicologico. Lo stesso «strumento esecutivo» – la corona – con il suo scorrere di grani, accompagnati o meno dalle ave, può costituire una tecnica, non più né meno di certi analoghi oggetti musulmani o dell’estremo Oriente che servono a richiamare un clima e a fissare un’attenzione senz’oggetto1. Anche qui i sedimenti psicologici di emozioni e memorie che vi si sono depositati sopra potranno favorire l’atteggiamento di preghiera; sempre però a livello di mezzi accidentali e ricambiabili da non perseguire in sé.
La puntigliosità, invece, con cui si resta vincolati a questi tipi di preghiera, e se ne teme la scomparsa, come una iattura, fa temere che li si assuma nella maniera più sbagliata: a livello, cioè, di recitazione ripetuta, sommata, prolungata, quantificata.
1. Tuttavia va rilevato come anche queste pratiche orientali siano andate soggette a quel processo di quantificazione che dovremo denunc...

Table of contents

  1. Nostro Signore del deserto
  2. Colophon
  3. Indice
  4. Nota dell’editore
  5. Prefazione
  6. PARTE PRIMA Teologia della preghiera
  7. PARTE SECONDA Psicologia della preghiera
  8. PARTE TERZA Linguaggi e situazioni di preghiera