Montagne mediterranee
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In cammino sull'Appennino Meridionale

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Montagne mediterranee

In cammino sull'Appennino Meridionale

About this book

Ognuno può trovare la via per andare in montagna e ognuno deve trovare la sua via. Questo libro non ha la pretesa di indicare la via migliore, ma vuole solo invitare ciascuno a trovare la propria e a viverla secondo le sue capacità, la sua indole, i suoi desideri. Nella sua esperienza di escursionista e sci-escursionista (principalmente tra le montagne del Salernitano e dell'Irpinia) l'autore ha "scoperto" vie affatto modeste, ma le ha battute con intensità di emozioni e pienezza di sensazioni. Augura al lettore una simile e appagante ricerca, mostrandosi aperto ad una scoperta diversa del territorio, pronto a ritrovare la fanciullesca capacità di stupirsi.

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Information

INVERNO

Scontento

In “Inverno del nostro scontento” Steinbeck allude a uno scontento esistenziale. Nel piccolo orizzonte di questa cronaca, invece, lo scontento è solo quello dello sciatore caino che, disperando di trovarla, rinuncia alla neve, ma poi scopre che altri l’hanno conquistata.
“L’inverno del nostro scontento” è un famoso romanzo di Steinbeck che descrive l’infrangersi di mal coltivati sogni e il fallimento di una vita.
Fuori dalla letteratura e nel piccolo mondo di queste cronache (in cui, com’è ovvio, non hanno cittadinanza temi romanzeschi o esistenziali) lo scontento può essere solo quello, assolutamente contingente, di una giornata invernale che si è trovata a viaggiare in direzione parzialmente opposta al treno dei desideri.
In breve, il problema di fondo (!) è sempre quello che affligge lo sciatore: ci sarà o non ci sarà, la neve?
Il week end dell’Immacolata si presenta più che altro gravido di pioggia. Una coraggiosa pattuglia parte comunque per il Pollino; gli altri, in ordine sparso: chi per agrifoglio e pungitopo, chi per musei, chi per colline e ristoranti, chi a casa. Gli stessi fedeli del “circo bianco” decidono (a maggioranza) che la neve non c’è o che comunque è scarsa e a quota troppo elevata.
Si opta dunque per un’ascensione (a piedi) ripida e rapida al vicino Monte Monna, dal quale si farà presto a fuggire al paventato sopraggiungere della perturbazione pomeridiana. Detto fatto: poco dopo le otto siamo già a San Cipriano Picentino, linda ed elegante di palazzi signorili e giardini, come un’oasi dopo tanta periferia degradata.
Qualche rovina c’è anche qui, è la parrocchiale di Vignale, cinta di sospesi restauri. Affrontiamo da essa una strada erta e grigiastra, cementata fra i castagneti. La solcano profonde righe orizzontali, destinate a facilitare la presa di gomme e scarponi. La anneriscono tappeti di ricci bruciati di castagne, dai quali ancora occhieggia qualche frutto, sopravvissuto a un rogo destinato alla pulizia ma rivelatosi spurio genitore di inopinate caldarroste.
Dove il cemento cessa il fondo liscio e cretaceo ci fa scivolare incredibilmente all’indietro. Ripariamo sui tratti di prato e, varcato un canalone, intraprendiamo un articolato zig-zag fra innumeri terrazzi coltivi.
La sterrata si disperde in una pluralità di sentieri, tutti percorribili e tutti crocchianti di foglie. Tra di esse residuano ancora castagne, talora notevolmente paffute, sfuggite alla raccolta o rimaste oltre tempo sui rami. Non ci distraggono più di tanto, ma qualche tasca si gonfia.
Cerchiamo di tenere una rotta utile a scansare verticalità indigeribili. Quando tuttavia cessano i castagneti, sarà giocoforza affrontare l’erta prativa “dritto per dritto” appena spezzandola con improvvisati tornanti pedonali.
Puntiamo a un cimetta rocciosa (ad Est della vetta) che appare e scompare a seconda del capriccio della pendenza. Niente e nessuno può toglierci, invece, una visione sempre più ampia e panoramica. Sotto di noi, a picco, i tetti rossi di San Cipriano e poco oltre la piana e il mare. Il sole, che sinora non ci ha abbandonato, esalta l’azzurro e illumina radente il seno pestano in fondo al quale si stagliano nitide le penisolette di Licosa e Tresino. Perdoniamo la plastica delle serre, anche perché possiamo confonderla con un riflesso argenteo di acque o con una striscia di nebbia che si allunga pigra e fantastica lungo il corso del Sele.
A monte, la poca neve che disegna le creste dell’Accellica si presenta invece bianchissima e compatta sulle pareti del Terminio. Sentenziamo trattarsi comunque di una spruzzata, per non avere dubbi e rimpianti.
Quando la cimetta (quota 983) è finalmente raggiunta, il sole ha ceduto il posto a un grigiore diffuso e ad un venticello maligno; proseguiamo allora in direzione Ovest lungo la cresta che, dopo una mezzaluna verde, si presenta come una gradinata puntuta di sassi bianchi. Su, con attenzione, specie nell’affrontare la pendenza di un liscio lastrone ove è opportuno tenersi alla roccia, industriandosi di non farsi impedire da zaino e bastoncini.
Un piccolo slargo sotto le ultime roccette induce il meno ardito ad accomodarsi e a desistere. Qualcuno gli fa compagnia, altri proseguono sino alla cima che è appena più sopra (1195 m). Tutti insieme consumeremo però un rapido e frugalissimo pasto.
E qui viene lo scontento: mentre, sostanzialmente paghi, adempiamo al rito di un anticipato mezzogiorno risuona un grazioso e inatteso squillo. È la voce festante di Diana la quale ha raggiunto comunque il Polveracchio e ci descrive euforica lo splendore e l’abbondanza della sua neve. La minoranza che s’era ormai rassegnata è colpita al cuore. Abbozza appena un timido “Io l’avevo detto” ma non può che restare silenziosa e rimuginare improbabili programmi di recupero e rivincita infrasettimanali.
Coerentemente con il momento, il cielo si fa sempre più grigio, appesantito da cospicue coltri nuvolose che avanzano dal fronte dei Lattari.

A corrente alternata

La corrente è quella delle meteo-perturbazioni che si alternano ad illusori spazi di sereno. Ma l’escursione, in quanto traversata, è senza ritorno. Avanti, dunque, tra gragnuole di grandine e raggi di sole, tra più agevoli tracce e scivolosi rivoli fangosi. La giornata sarà comunque priva di black-out e luminosa nel suo risultato finale.
Le previsioni del fine settimana non lasciavano spazio all’ottimismo. Eppure la speranza è l’ultima a morire e d’altronde la domenica mattina squilla, ancor prima di quella elettronica, la sveglia biologica. Al suo segnale, almeno i più tenaci sono comunque coi piedi fuori dal letto e con il capo fuori dalla finestra. E fuori dalla finestra è scomparsa la pioggia che aveva imperversato tutta la notte, anzi qualche striscia chiara vince le tenebre del primo mattino. Le strisce, con il progredire dell’orario, si trasformano in un continuo di azzurro, almeno verso la marina.
Partiamo gioiosi e increduli, fiduciosi in una giornata addirittura splendida, incuranti della coltre grigia che ancora riposa dietro e sopra i monti.
Ci crogioliamo al sole nella piazza di Montecorvino, in attesa dei ritardatari, appena sfiorati dalla curiosità di qualche indigeno. Assieme ai ritardatari si ripresentano però le nuvole. Naturalmente ignorandole, ci inoltriamo in quel dedalo di vicoletti che ogni paese che si rispetti cela dietro i palazzoni che il “progresso” gli ha regalato.
Quando ci sembra di esserci cacciati in un “cul de sac”, il percorso finalmente si rivela: siamo in una sorta di gola tra pareti grigie ed un fondo cosparso di minuta ghiaia. Spiegano i geologi che trattasi di calcare magnesiaco del quaternario, più o meno gradualmente eroso dallo scorrimento delle acque, scorrimento che ha depositato la rena che calpestiamo.
La gola si stringe e attraversa suggestive pareti, ora nude, ora pittorescamente inerbite, da cui gemono piccoli rivi. Non osiamo immaginare quel che potrebbe succedere a trovarsi in questa forra sotto un improvviso nubifragio. Pertanto siamo quasi lieti di uscirne. Uscirne, ma come?
L’apice del canalone è sbarrato da un semicerchio di rocce e pietrisco, non molto alto, ma verticale e franoso, che impone una qualche arrampicata. Si tentano diverse vie, ma l’inquietante scroscio dei detriti che si sfasciano sotto gli scarponi ne respinge diversi. Finalmente i più esperti individuano una via più abbordabile e, superatala, spingono e tirano su i più deboli, aggrovigliati negli zaini e nel timore di cadere.
La guadagnata libertà ci fa percepire come affatto inatteso il panorama che percepiamo dal bordo superiore delle rocce. Spazia la vista sul mare fino a Licosa, si affacciano le gobbe innevate del Polveracchio, verdeggia la campagna tra Montecorvino e Olevano. Su tutto, un cielo che va chiudendosi, ma che ancora alterna alle fasce grigie qualche striatura di luce.
L’alternanza riguarda anche il suolo: dalla fatica e dall’ostilità delle rocce e dai detriti passiamo all’accogliente e rilassante abbraccio dei prati e dei castagneti, reso ancora più piacevole e morbido dal tappeto delle foglie che frusciano sotto i nostri passi.
L’escursione ormai sembra tutta in discesa, e non solo dal punto di vista altimetrico; qualcuno già sentenzia che è andata proprio bene e che abbiamo scansato la temuta pioggia. La pioggia sì, ma cos’è questo crepitio sulle foglie e sulle nostre teste?
È solamente grandine. La sua gragnuola ci coglie all’improvviso e ci costringe a riparare nel fabbricato di Sorgente Canale, opportunamente incontrato al momento giusto. Ma bisognerà pure abbandonarlo e proseguire. Fuori gli ombrelli e le mantelle, dunque, e via.
Il sole del mattino è ormai un ricordo: evidentemente eravamo nell’occhio del ciclone, o meglio nella pupilla, che si sa è sempre chiara, laddove è l’iride ad essere nera. Iride, pupilla o retina, ormai siamo nell’oscurità. Ci rallegrano peraltro le perline della grandine distese come una spolverata di zucchero vanigliato sul cioccolato delle foglie cadute.
Il bosco si allarga e si stringe, fino a confluire al piccolo corridoio di rocce che precede il Varco della Noce, crocevia fra i bacini del Tusciano, del Cornea e del Picentino. Il raggiungimento di questa meta, la constatazione che la precipitazione è frattanto cessata, il rinnovato distendersi del paesaggio, ci dispongono alle migliori prospettive e vanamente taluno propone di tirare diritto verso Acerno per riparare in un ristorante. L’idea è bocciata a maggioranza, tanto più che le panche e i tavoli di una recente area di picnic votano essi pure per la sosta. Non importa che i sedili siano bagnati: li asciughiamo alla meglio o li copriamo con buste di plastica e ci accomodiamo.
Un inopinato raggio di sole completa l’opera e ci fa cantare di nuovo vittoria, ad onta delle telefonate che giungono dalla città descrivendo nubifragi. Pensiamo di esserne immuni, ma sperimenteremo di lì a poco l’alternanza, sotto una rinnovata e più cospicua sventagliata di grandine. Per giunta, invece di calare diritti giù ad Acerno, la nostra guida ha scelto un aggiramento che impone un reiterato su e giù di mezza costa, sino all’imbocco del Sentiero dei Pellegrini.
Siamo alle falde dell’Accellica che incombe con il suo timpone Sud-Occidentale, chiaroscuro di nubi e di nevi. Acerno scompare piano piano nel fitto della precipitazione.
Quando finalmente caliamo diritto verso di essa, alle scariche della mitraglia della grandine si accompagna il rombo del cannone dei tuoni. Gli ombrelli tascabili ci riparano in qualche modo, ma si impigliano nelle frasche e, con i loro puntali metallici, potrebbero essere un invito per le saette.
Rotoliamo giù per gli ampi declivi divenuti ormai tutti bianchi per l’abbondante grandinata. Sfioriamo il suggestivo e abbandonato casamento rosa della Vella. Speriamo in un’altra alternanza, ma invano. Anzi un’alternativa c’è, ma non tra sole e pioggia, bensì tra neve e fango. Quando infatti guadagniamo le quote più basse e ci inoltriamo negli stradoncelli campestri incavati dall’acqua che scorre, affondiamo nella mota a tutto scarpone. Ogni passo pesa e talvolta rischiamo di lasciare lo scarpone stesso nel fondo.
Una volta tanto agogniamo all’asfalto e quando raggiungiamo quello del Viale San Donato scuotiamo ripetutamente i nostri calzari nel tentativo di sgravarli dall’indesiderato corredo. Solo uno scarponiluvio integrale sotto una pubblica fontana riuscirà ad ottenere qualche risultato. È praticamente sera, ma non è ancora l’ora dell’appuntamento con il bus che deve riportarci a Montecorvino, dove abbiamo lasciato le nostre auto.
Bagnati e intirizziti ripariamo tra bar e pasticcerie, rimpiangendo il nostro Zì Vito, cui l’età ormai avanzata impedisce di accoglierci come per il passato presso il suo camino. Qualcuno ripara addirittura in chiesa: le vie del Signore sono infinite! Ci fa visita Diana e ci invita a casa sua, ma è ormai tardi e non vale la pena di invaderla. Ancora sotto la pioggia ci volgiamo al bus che si fa attendere.
Ma non è una mesta ritirata. Quando finalmente siamo nel veicolo dei desideri, che inanella le tormentate curve di una strada che nel buio ci appare incognita, possiamo chiudere gli occhi e beneficiare del contributo energetico di una giornata, percorsa da una corrente alternata sì, ma senza nessun black-out, anzi luminosa comunque nel suo risultato finale.

Vita sociale

Tempo di Natale e della nostra cena di fine anno. Prima però un tuffo nei Picentini, sotto i Mai già imbiancati, affacciata panoramica sulla valle di Giffoni, visita speleo alle miniere. Il raduno finale si svolge nella tradizione dei canti, ma è intristito dalla recente scomparsa di Carlo.
Natale prossimo: scambio di auguri, incontri, feste. Non si sottrae il nostro sodalizio alla tradizione e appronta il suo pranzo o la sua cena sociale. Ogni anno, e ogni anno con la solita dialettica: cena sociale in città con abiti eleganti o pranzo in montagna con scarponi ai piedi?
Quest’anno, per la verità un interrogativo ben più grave e angoscioso si è posto, prospettandosi il dubbio della eliminazione stessa dell’appuntamento a causa del lutto che in questi giorni ha colpito la Sezione in uno dei suoi più brillanti e amati amici, Carlo.
Prevale alla fine la decisione di incontrarci ugualmente e di cantare la sua canzone, come se lui fosse presente, come lui, se avesse potuto, ci avrebbe probabilmente suggerito.
La giornata è di quelle che la retorica mediatica inscrive al calendario polare. In realtà, solo temperature prossime allo zero. La meta, del resto, è vicina e riparata dai venti balcanici, siccome collocata nei primi contrafforti meridionali dei Monti Picentini: le miniere di ittiolo in quel di Giffoni. Le giacche rosse del Gruppo speleologico ci fanno da guida, ma non riescono a evitare che gli autisti meno esperti si impuntino sull’unica curva del percorso ornata da labili tracce di ghiaccio. L’escursione comincerà pertanto da quota più bassa del previsto, ma senza altri inconvenienti.
Le torri dei Mai sfumate di bianco e di blu si stagliano in un cielo appena grigio ma non uggioso. Il sentiero si apre comodo e il suo esile tappeto di neve non oppone ostacolo. Del resto, generose striature di foglie danno sicuro appoggio nei rari tratti complicati dalle pietre affioranti e plasmate dal gelo. Si allarga il panorama, consueto, ma sempre diverso nelle sue sfumature e nei suoi aspetti. Spiccano stavolta le bande orizzontali dei tratti di mare illuminati dal sole, righe musicali dorate in una carta d’argento. Brevi, ma fascinose e profonde sono le piccole valli che convergono su Giffoni; segnano il verde i tetti rosei di Curti.
Incombe la mole del Pizzautolo, ma non è questa la nostra meta; del pari trascuriamo, con qualche curiosità, di ricercare la successiva Porta di Monte Diavolo. Ci affacciamo appena sul poggio del Casone ovvero di un vecchio rifugio ora quasi del tutto ristrutturato, augurandoci di potercene servire come base per future escursioni; ci volgiamo al più prosaico Varco del Patanaro o di Cerasole, per calarci nella retrostante Valle del Sabato. La nostra meta infatti è costituita dalle miniere dalle quali sino alla metà del secolo scorso si estraevano scisti contenenti residui di pesci e animali marini fossili. Tutta l’Italia, infatti, milioni di ...

Table of contents

  1. MONTAGNE MEDITERRANEE
  2. COLOPHON
  3. PREFAZIONE DI TERESIO VALSESIA
  4. MONTAGNE MEDITERRANEE
  5. PROLOGO
  6. AUTUNNO
  7. INVERNO
  8. PRIMAVERA
  9. ESTATE
  10. EPILOGO
  11. INDICE