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La narrativa alvariana degli anni Venti
La narrativa degli anni Venti mira, da un lato, al recupero, con intenti realistici ed espressionistici, di un mondo contadino che ha perso la strada del paradiso («la parabola adamitica della perdita dell’Eden», come giustamente scrive Paladino)1, e, dall’altro, alla rappresentazione, parimenti realistica ed espressionistica, di un’alienata società urbana, che mortifica ogni tratto di autenticità negli uomini e nelle donne che la sperimentano: nel paese, in Calabria, l’umanità viene schiacciata dai pregiudizi, dalla superstizione e dai ritardi culturali; in città, dai falsi miti del benessere e dalla progressiva spersonalizzazione o perdita di identità. Si tratta, in effetti, di una produzione di stampo chiaramente localistico-regionalistico.
Depositaria dei valori è per Alvaro, in questa prima fase, la letteratura, la scrittura salvifica. Laddove lo strumento espressivo privilegiato del narratore è quello realistico-analogico-espressionistico.
1 La perdita dell’Eden
La siepe e l’orto è fortemente emblematica di questa prima fase dell’attività letteraria di Corrado Alvaro2. Si tratta, invero, di una vera e propria opera prima, giacché costituisce la prima raccolta di novelle del sanluchese, quella in cui questi rivelò, di fatto, nel 1920, al mondo, le sue straordinarie doti di affabulatore moderno e originale (altre qualità aveva rivelato nel saggio liceale su Polsi nell’arte, nella leggenda e nella storia, edito a Gerace-Locri nel 1912, e nelle Poesie grigioverdi, pubblicate a Roma nel 1917).
E va subito detto che il meglio della raccolta è costituito non tanto dal mondo rappresentato – quello agro-pastorale della Calabria proto-novecentesca; quello piccolo-borghese della città moderna; quello straziato della guerra (tuttavia resi con fortissimi accenti di verità e di novità) – quanto dai modi della rappresentazione: vi si evidenziano, difatti, in maniera nitida, per la prima volta, i tratti inconfondibili della scrittura narrativa di Alvaro.
Il giovane novellatore, nel costruire i suoi racconti, predilige un chiaro procedimento analogico, che tende a stabilire rapporti di similitudine, se non d’identità, tra i pensieri, i sentimenti, le angosce dei personaggi e le cose concrete della natura e del mondo. Talché si direbbe che l’analogia costituisca il dato preminente dello stile narrativo della raccolta. La genesi di tale costrutto è probabilmente da ricondurre agli obiettivi di leggibilità e di chiarezza perseguiti, sulla scorta di Bontempelli, dall’autore implicito, che mira a conquistare il lettore, tenendosi sul terreno delle comuni esperienze di vita ed evitando di smarrirsi nella palude delle astrazioni o del déja vu: quasi a voler anticipare, sul terreno della prosa, il «correlativo oggettivo» di Montale. Bastino, a comprova, alcuni rapidi specimina desunti dalla prima novella, Figlioli: «Del resto ci sentivamo lo stesso come quando si capita di notte in una campagna e sembra di sentirla ancora piena del canto dei grilli che hanno taciuto da poco»; «Tutte queste cose […] mi davano molto dolore come chi abbia comprato un gioiello fino e aprendo la scatola per donarlo si accorga che è falso»; «C’erano, la sera, le finestre delle case illuminate, e aperte come cuori contenti»; «l’angoscia dei giorni che passano e ritornano come le piante e come gli uomini»; «sentivamo le ore correre invariabili come il torrente che scorreva presso la nostra casa»; «Lo spiraglio del sonno si apriva come nella stanza buia la luce dell’alba»; «pei campi restavano i festoni di verde come lasciati là dopo un’orgia sfrenata, che era durata tutta l’estate»; «E seguitavo a guardarmi dentro come riflesso in uno specchio». Ma l’elenco delle similitudini, presenti a vario titolo nella raccolta, è sterminato, tanto da sfiorare i limiti della saturazione.
In ciascuna novella della raccolta, la tensione narrativa, nonostante talune, accentuate, pause descrittive, è tenuta, invero, a livelli accettabili da un narratore scaltrito nelle tecniche dell’affabulazione, che sfrutta anche l’analessi (si pensi al recupero memoriale del trauma infantile, sofferto da Saverio Rimboli in Il pericolo) o dissemina la pagina di indizi (un «uscio serrato, costellato di borchie», cui tre ufficiali ventenni giungono dopo aver preso «la strada dei vicoli» prefigura l’ingresso di un bordello, in Uomini), per catturare l’attenzione del lettore, invogliandolo a inseguire il filo della trama nelle righe e nelle pagine successive: solo nel secondo dei tre asterischi di Casa nostra, Guido rivela il suo fallimento di meridionale malamente inurbato nonché la finzione cui è costretto per amore dei vecchi genitori; la stessa tecnica sospensiva presiede alla orchestrazione della novella La siepe e l’orto, dove giunge del tutto inattesa, nelle ultime righe, la catastrofe «ridicola» di Giambacua; capita addirittura che il costrutto indiziario e la conseguente volontà di sapere spingano la tensione narrativa oltre la pagina finale, volutamente «aperta», di alcune novelle (Figlioli, Il pericolo, Santa Venere).
La sintassi è perlopiù lineare, secca, preferibilmente paratattica; l’aggettivazione scarna, essenziale:
Il sapore alvariano, in passi come questo, è dato, oltre che dal periodare netto, spoglio di inutili contorsioni e belletti, dalla posposizione al nome di un aggettivo usurato («ombre grandi») e dall’alone magico acquisito, per effetto della sua collocazione finale, da un altro, comunissimo aggettivo («grotte misteriose»).
La lingua è quella media, standard, della comunicazione: molto vicina al parlato cittadino con qualche residuato libresco («gittavano la loro ombra») e con rari dialettismi («fanno a chi piscia più in alto» e «aveva scornate» in Santa Venere); non si registrano casi perspicui di discorso indiretto libero, né di mimesi dialettale: tuttavia, in Casa nostra, i dialoghi dei fratelli piccoli con Guido ricalcano, alla lontana, italianizzandole, come in altre novelle paesane, curvature caratteristiche della parlata calabrese: si pensi al voi familiare («– Che cosa mi avete portato, fratello Guido?») e alla vocale pleonastica con cui si apre la domanda («– O perché?»).
Alvaro mostra di badare più all’efficacia espressivo-comunicativa dei costrutti che alla scelta lessicale, ma la sintassi e il lessico muovono, di concerto, nella direzione dell’inedito, del non detto, con una particolare inclinazione, nelle novelle campagnole, all’idillio, alla tenerezza sentimentale, alla partecipazione emotiva, e, nelle novelle cittadine o belliche, alla descrizione realistica, con forti cromature espressionistiche.
Si direbbe che, sotto lo sguardo innamorato del narratore, gli oggetti, gli animali, i personaggi del mondo contadino invadano la pagina, muovendosi secondo prospettive tanto nuove quanto rapide, essenziali:
Si veda con quanto affettuosa indulgenza il narratore borghese segua i ragazzi di paese nell’incipit del terzo asterisco della stessa novella:
Due novelle della raccolta, come dicevamo, sono, in particolare, focalizzate sui modi di vita della gente di Calabria: Santa Venere e La siepe e l’orto.
Santa Venere appare, come si vede, in due distinti gruppi, essendo una novella paesana, da un lato, e di sesso (distruttivo), dall’altro: vi campeggia la figura di Cecia, figlia innocente «d’una donna di cattivi costumi», che una volta cresciuta («appena crebbe lasciava pensare dolcemente a tutte le cose ignote»), diventa preda prima di Serafino e poi di un «secondo uomo», finendo con l’essere emarginata e quindi massacrata, col «suo morticino appena nato tra le braccia […], come una santa», dai parenti – parrebbe – della fidanzata del suo ultimo amante: luminosa incarnazione novecentesca della Lupa di verghiana memoria.
Resta nei luoghi perenni della letteratura, e nell’immaginario collettivo, per il repentino, femminile gesto di sfida, opposto ai giovani e ai monelli che, dopo i suoi due primi «infortuni» amorosi, la seguivano fischiando e battendo i sassi «uno contro l’altro […], come un corteo grottesco»:
L’attenzione amorevole, tangibile, ai corpi, ai gesti, agli atti – anche inconsulti – della sessualità adolescenziale costituisce un tratto caratteristico (e mai dismesso, come vedremo) della narrativa alvariana: poté sembrare espressione di una personalità barbarica a Emilio Cecchi, ma va riconosciuto come uno degli acquisti più duraturi della letteratura italiana del Novecento.
Il personaggio che tuttavia s’imprime in maniera indelebile nella memoria, accanto a quello di Cecia, è Nicola Giambacua, il «sagrestano […], barbiere della domenica, salassatore, medico delle api, dentista, becchino e custode del camposanto», il quale riempie di sé e del suo dramma paesano la novella che dà il nome alla raccolta, La siepe e l’orto: probabilmente, il personaggio più «pieno» (di attitudini, di mestieri, di parole e di costrutti nuovi) della novellistica novecentesca e non solo novecentesca.
Anche Nicola Giambacua rientra, come Cecia, nella tipologia del-l’emarginato, del fool, di verghiana memoria (si pensi a Jeli il pastore o a Rosso Malpelo delle novelle omonime), ma quel che lo autentica come personaggio autonomo è la caratura novecentesca del racconto, che procede per accumulazione di eventi, inattesi e sovrapposti casualmente – non c’è nesso obiettivo tra l’omicidio di Tommaso Dugo e la crisi di coscienza di Giambacua –, senza alcun rispetto per la diacronia solida e perfettamente causale del racconto ottocentesco. Allo stesso modo, Cecia sfugge alla gabbia del modello verghiano, per la scomposizione ellittica, in quadri sintetici, della sua tragica vita. Quanto dire che la tecnica dell’accumulo, per associazioni indebite, in La siepe e l’orto, e la tecnica della riduzione, per ellissi radicali, del materiale narrativo, in Santa Venere, sono funzionali alla originale resa stilistica delle due novelle. Non dovrebbero più esserci dubbi: nel regno della grande letteratura, è la forma a organizzare la sostanza del contenuto.
Al filone agropastorale della prima stagione alvariana appartengono anche, come dicevamo, alcuni splendidi racconti di L’amata alla finestra (si vedano, in particolare, Ritratto di Melusina, La corona della sposa), di Misteri e avventure (si pensi a Le serve caste) e di La signora dell’isola (si veda Il ricco Garzia) cui la stessa poetica e la stessa visione del mondo è sottesa3. L’attività di novelliere, esercitata perlopiù sulle pagine dei giornali, scandisce, in effetti, lo sviluppo della personalità e della maturazione artistica di Alvaro, rispecchiandone perfettamente gli interessi nonché gli orientamenti stilistici e costituendo non di rado l’officina del suo intenso lavoro di narratore.
Lo spiazzamento e i pudori antichi delle donne di paese di fronte ai feticci della modernità mostra Melusina, la quale vive come una violazione del suo corpo il ritratto che un pittore forestiero, colpito dalla sua bellezza, le fa (Ritratto di Melusina)4. Laddove l’immatura Carmela (La corona della sposa), data in isposa a Giacomo Ardore, scappa di casa, dopo le nozze, per continuare a giocare con Andreuccio.
Ha i tratti di altre infelici contadine adolescenti, disseminate nei racconti del «primo tempo» di Alvaro, Melina (Il ricco Garzia)5 la figlia dell’Orsola che, in gioventù, era stata il primo amore di Garzia, quando costui era garzone di un ricco inglese. Ora Garzia è un ricchissimo vedovo sessantenne che apre la sua casa alla gente del paese, rivedendo, dopo molti anni, Orsola ormai invecchiata e incontrando, per la prima volta, Melina, di cui subito s’innamora. Sicché la chiede in isposa alla madre che prima rifiuta, sdegnata, ma poi accondiscende a patto «che le facciate un atto di donazione di tutto quello che avete»6. I figli di Garzia si oppongono risolutamente. Si chiama un notaio, per dividere i beni, ma durante il tafferuglio conseguente alla spartizione, scoppia un incendio e la casa viene inv...