La Selva
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La Selva

Un tentativo di serenità nel mezzo della tempesta

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La Selva

Un tentativo di serenità nel mezzo della tempesta

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La Selva è un testo contro il proprio tempo che smaschera l'idea più cretina di tutte diffusa dagli intellettali e dai giornali, dalla scuola e dai politici: che ci sia un rifugio per ripararsi dalla Tempesta. Il rifugio che si invoca è inesistente, fino a quando lo cerchiamo in un luogo "che non sia la nostra anima".

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Parte prima

La padronanza

1. Se qualcuno – anche tu – mi chiedesse qual è il concetto centrale della storia della filosofia, risponderei così: la padronanza. Fin dalla notte dei tempi i mortali desiderano essere padroni di sé e del mondo. Ma come – la replica – il concetto fondamentale della filosofia non è la verità? Certo, ma lo è perché la verità è ϑεωρὶα – che significa vedere dio – e il suo scopo o il suo effetto è la pacificazione dell’essere-uomo con se stesso per avere la padronanza dell’essere e della vita.
La ricerca della verità – φιλοσοφια – nasce dalla paura e dal dolore – ϑαῦμα. La verità in quanto ϑεωρὶα non è scalfibile né dal niente né dal dio – da nessuno – e l’essere-uomo grazie alla conoscenza controlla le forze oscure e negative dalle quali nascono il dolore, la paura, lo spaesamento, il pericolo. La verità salva l’uomo e gli offre la possibilità di essere padrone di sé e di governarsi. Il governo di sé e degli altri è sempre in gioco nella filosofia che non è un sapere accademico ma un pensiero vitale in cui si pensa per vivere. Il carattere salvifico della filosofia si manifesta subito, fin dall’alba del pensiero e rimane costante nella sua storia. L’ἀρχη – il principio di Tutto – è inizio, principio, forza, governo.
La filosofia, dunque, in quanto verità dell’essere, è non solo uno dei rimedi ai mali della vita ma il Rimedio. Però, non sempre il rimedio è stato migliore del male. Nella storia moderna il rimedio è stato peggiore del male. La padronanza diventando assoluta ha annientato quell’essere che voleva salvare: l’uomo. Questo ancora oggi è il nostro problema.
2. Il pensiero è figlio del mito e dal padre eredita il carattere: la nostalgia dell’assoluto. Gli uomini, nella stagione mitica della loro storia, sono protetti dai mali della vita dalle stesse forze oscure e negative che li generano: gli dèi. Uomini (mortali) e dèi (immortali) vivono in un rapporto in cui i primi sanno di dover offrire doni e sacrifici ai secondi ricevendo in cambio quella protezione che consente ai mortali di governare il pericolo per eccellenza: il divenire. Nella stagione del mito – quando il mondo è fanciullo – il divenire, ossia la relazione tra essere e nulla, esiste nel fatto ma non ancora nel pensiero. Il senso del divenire ancora non è.
La stagione del mito termina quando viene alla luce (del pensiero) non solo il divenire ma anche il suo senso tragico in cui le cose naturali (φύσις) e umane sono e non sono. Gli dèi sono potenti fino a quando il senso tragico del divenire è ancora in ombra; allorquando, però, il rapporto tra essere e nulla si manifesta per intero, anche gli dèi potenti e immortali diventano impotenti e mortali e così gli uomini per difendersi dai mali della loro condizione e governare il divenire comprendono di non dover praticare sacrifici agli dèi falsi e bugiardi ma pensare la verità dell’essere che respingendo l’assalto del nulla rivela l’eternità. L’eternità non è la vita eterna ma la possibile promessa del governo di questa vita.
3. Il pensiero dell’eterno esprime la razionalità della realtà dove la parola realtà significa l’insieme delle cose che sono. Infatti, il pensiero ha la capacità di abbracciare l’Intero senza lasciare nulla fuori se non il nulla che in quanto tale va respinto. Per pensare la razionalità della realtà o dell’essere – e quindi non avere ragione di temerlo e così possederlo e padroneggiarlo – non bisogna cadere in contraddizione e la contraddizione madre è quella di credere che il nulla è. L’essere va pensato nella sua non contraddittorietà. Solo se è pensato così l’essere si lascia com-prendere senza timore, senza paura giacché la verità non trema. L’αλήϑεια di Parmenide – il pensiero dell’essere che non può non essere – fornisce alla storia della filosofia fino a Hegel e oltre Hegel il modello con cui l’essere è pensato.
4. Tuttavia, pensare l’essere alla maniera degli eleati significa allontanare la contraddizione per paura di contraddirsi. In questo modo si taglia fuori dal pensiero proprio ciò che è decisivo controllare: l’esistenza. La verità non trema, la vita sì.
L’essere è uno ma la vita è molteplice. L’essere è fermo ma la vita è inquieta. L’essere è in pace ma la vita è in conflitto. L’essere è vero ma la vita è opinione e per governarla non basta tagliarla, isolarla, proclamarla illusoria, metterla in fuorigioco o sostenere che è il mondo dei dormienti. È necessario affrontarla e fare proprio ciò che il padre venerando e terribile vieta di fare: pensare la contraddizione, l’essere che non è: il nulla.
5. L’eleatismo pensa l’essere ma non la vita. Avveniva ieri ma avviene anche oggi e avviene ogni volta che il principio di ragione prevale sull’esperienza. Non a caso con Parmenide emerge da subito questo problema capitale della filosofia che si ritrova in tutta la sua storia: da una parte il pensiero e la verità in splendida solitudine, dall’altra l’esperienza e la vita nella loro ingovernabilità.
Una volta posta la verità di Parmenide – l’essere è – se ne ricava come conseguenza la posizione opposta che sarà interpretata magistralmente dai sofisti: al diavolo l’essere, che non sappiamo cosa sia, e viva l’esperienza che consente almeno un po’ di intenderci e di campare alla meno peggio. I sofisti fanno anche di più perché mostrano quanto l’essere di Parmenide, che crede di salvarsi, sia contraddittorio in sé, quanto sia spinoso, selvatico e inaffidabile.
6. Se, infatti, solo l’essere è, allora, sarà vero anche il falso che non è nulla. Il sofista si va a nascondere proprio nell’ombra del nulla che incalza l’essere e fino a quando quell’ombra non sarà illuminata – pensata – il sofista avrà partita vinta usando proprio l’essere. Non a caso Gorgia ne farà la parodia mostrando la verità uguale e contraria a quella di Parmenide: l’essere non è, non è conoscibile, non è comunicabile. La verità dell’essere, nato per dare scacco alle forze oscure e incontrollabili, si capovolge nel suo opposto e le forze oscure e incontrollabili – fatali – si rivelano essere le vere signore della natura, della notte e dell’uomo che è in completa loro balia. Una volta, infatti, scisso il rapporto tra il pensiero e l’essere/vita non c’è difesa che tenga e regna solo la suggestione della parola e del mito. Accadeva ieri, accade oggi.
7. Saranno questi i motivi che indurranno Platone al parricidio. Per salvare i fenomeni – le cose che sono e non sono, che nascondo e che muoiono, la vita che trema e che soffre e che cade vittima dei sofismi, l’essere-determinato – non c’è altra strada che quella sbarrata da Parmenide: è necessario pensare il nulla e farlo essere in qualche modo. Per pensare la vita nelle sue manifestazioni non ci si può affidare solo all’essere di Parmenide che è uno e nel suo isolamento rende impredicabile e impraticabile la vita. Per predicare la vita, cioè conoscerla e fare in modo che non cada vittima delle cattive mitologie, l’essere non può essere uno: se è uno l’uomo non può fare altro che ripetere all’infinito solo uno, uno, uno e sottostare alla sua sacerdotale tirannia.
Ma l’essere non può essere nemmeno Molti altrimenti tutto va con tutto e si cade nell’arbitrio, nei sofismi e nell’anarchia. È necessario che l’essere sia uno-molti – che sia insieme essere/vita, che sia essere ed essere-determinato – che sia essere, identico a sé ma diverso, in quiete e in movimento. Solo così l’essere sarà predicabile e la vita si farà qualificare nella sua diversità e praticare. L’essere è relazione.
8. Il nulla non è pensato da Platone nella sua assoluta contraddittorietà ma nella sua alterità: come ciò che è diverso rispetto all’essere. La contraddittorietà è già essa stessa il frutto della diversità. La contraddizione – il nulla è – è secondaria rispetto ai contrari, all’opposizione che per essere tale ha da essere diverso. Il pensiero dell’essere è tale solo nel tempo della vita in cui proprio le opinioni, le illusioni, le ombre, le passioni vanno illuminate e non spazzate via con l’astratta identità eterna dell’essere che è essa stessa parte della relazione. La luce sta con l’ombra ed è se stessa solo insieme con l’ombra. Pensiero ed esperienza sono ri-composti e l’uomo – sia o no filosofo – può aspirare a essere padrone della sua vita nella consapevolezza che la padronanza assoluta è un bene peggiore del male: la tempesta o della tragicità della vita.
9. Nel pensiero greco è assente la dimensione storica. Il pensiero greco è naturalistico e metafisico: questo suo carattere è per noi allo stesso tempo una risorsa e un limite. È una risorsa perché nel pensiero greco non si realizza l’illusione fatale della padronanza assoluta. È un limite perché non possiamo più accettare la metafisica. La storia è il nostro destino: noi siamo esseri storici.
La dimensione storica acquista rilievo nella filosofia moderna quando muta il ruolo svolto dal pensiero: nella filosofia greca il pensiero riceve la verità e l’idea (εἴδος) è propriamente l’essere-vero che diventa contenuto del pensiero (νοὔς) e mostra la verità dell’essere-determinato che diviene. Nella filosofia moderna il pensiero non riceve più la verità ma è esso stesso la verità e ha per suo contenuto la storia che è allo stesso tempo il contenuto e la forma del pensiero: il momento in cui la storia si rivela nella sua qualità. Il pensiero è il momento razionale dell’essere o dello spirito o della storia (scegliete il nome che vi aggrada). L’essere che è relazione e che si fa e si fa conoscere dal pensiero è insieme eterno e temporale: e che sia eterno o tempo è per noi indifferente dal momento che sia l’eterno sia il tempo non sono in nostro possesso e per vivere ci uccidono. Invece, il problema è un altro.
Quando la filosofia diventa storia e quando si stringe maggiormente il rapporto tra pensiero ed esperienza nasce anche la tentazione demoniaca di fare dell’uomo il padrone assoluto della storia e di se stesso. Sembra quasi che tutte le domande trovino finalmente risposta e che si possa superare una volta per sempre il conflitto insito nel rapporto tra pensiero e vita e nella vita come creazione di sé. Sembra che la tragicità della vita possa essere superata. Ma è una tentazione diabolica che trasformando l’uomo in un dio ed il filosofo in un Bugiardo Metafisico genera l’inferno sulla terra con l’alibi della conoscenza del paradiso. È la stagione dei totalitarismi.
10. Nel pensiero moderno in cui la storia e la scienza sperimentale – che in quanto sperimentale ha anch’essa una dimensione storica – hanno un ruolo preponderante va recuperata l’idea più importante della cultura greca: il senso del limite. L’uomo per vivere degnamente e liberamente ha necessità di essere padrone di sé e di governarsi ma deve insieme conquistare il senso del limite giacché una padronanza assoluta non lo rende padrone ma schiavo delle sue stesse passioni, illusioni, paure. Il governo migliore non è quello di uno, né quello di molti, né quello dei filosofi o degli intellettuali o degli scienziati o di quello che volete. Il governo migliore è quello limitato che non interviene su tutto perché non esiste una conoscenza che lo legittimi a farlo. La libertà dei mortali ha qui la sua radice e la salvezza di ogni uomo libero consiste solo nella conquista della propria insanabile condizione. Questo equilibrio tra padronanza e vita, controllo e abbandono, pensiero e vita o – per usare le categorie di Carlo Michelstaedter – persuasione e rettorica si realizza nella filosofia storicista più matura e avveduta in cui proprio il limite tiene a bada i deliri di onnipotenza del pensiero e del potere tagliando la strada a ogni forma di totalitarismo e di teologia politica.

La selva

1. Nel pensiero greco la φύσις è ciò che cresce spontaneamente. L’ἀρχη conserva il medesimo significato ma l’ἀρχη è l’origine della φύσις: il principio, l’elemento, la forza che la governa. L’ἀρχη è ed è la produzione eterna della φύσις, la sua generazione e la sua corruzione, l’origine e il fine, il destino, la necessità. Con un’altra parola greca: ἀνάγκη.
L’essere di Parmenide è la perfezione dell’ἀρχη che è sempre. Ma a essere sempre è la stessa φύσις che riguarda il cosmo e l’uomo. La φύσις è la natura, la selva, il bosco. È, con linguaggio spinoziano, insieme natura naturans e natura naturata. L’essere di Parmenide e il λογος di Eraclito, l’εἴδος di Platone e il dio di Aristotele sono la stessa φύσις nella sua unità che eternamente diviene se stessa. La φύσις è la selva eterna che l’essere-uomo conosce interamente nell’essere, nel λογος, nell’εἴδος, nel dio. L’uomo nasce nella selva e la selva non lo abbandona mai fino a quando camperà e perfino oltre. La celebre Caverna platonica ha tanti significati – gnoseologico, ontologico, etico – ma è prima di tutto la selva e gli uomini, anche quando alzano lo sguardo al sole, rimangono cavernicoli, selvatici. Gli uomini, che per vivere degnamente hanno bisogno di luce, vengono dal mondo delle ombre e ritornano nel mondo delle ombre. Prima di nascere l’essere umano è un’ombra e dopo morto ritorna a essere un’ombra. Ma è un hombre anche nel cammino sulla Terra proprio perché viene dalla selva e ritorna alla selva che durante il giorno e la notte non lo lascia mai e lo rende vivo uccidendolo. L’essere propriamente è ciò che consente al divenire – la selva – di essere e di passare, di non dileguarsi.
2. Nel pensiero moderno la φύσις diventa res extensa solo per consentire la sperimentazione ma rimane ciò che è sempre: la selva. La φύσις pensata come fisica è la dimenticanza della φύσις: è ciò che Heidegger chiama l’oblio dell’essere che può perfino diventare oblio dell’oblio dell’essere, la dimenticanza di aver dimenticato (che è una sorta di allontanamento dalla verità proprio come avviene in Platone in cui l’arte è la copia di una copia). La scienza moderna, che aspira a dominare la selva e a vederla come un mondo fisico organizzato, è una manipolazione della selva a fini pratici e, in fondo, altro non è che una modalità della stessa selva nella quale sempre siamo. Infatti, senza selva non c’è vita morale né pensiero. La selva è la vitalità e il pensiero in quanto luce necessaria per vivere è sempre pensiero vitale o pensiero selvatico oppure non è.
La selva è il nostro essere-sensibile senza il quale non esisterebbe la nostra spiritualità che è attività o necessità di lavorare la selva. La vita umana è in larga parte lavorazione della selva e lavorazione selvatica. Il pensiero a volte ha la tentazione di trasformare la selva in un negativo assoluto per ricacciarlo indietro e trasferire verità e bene in un mondo ulteriore o in un mondo dietro il mondo non toccato dall’immondo. Altra volta ha una tentazione inversa ossia di dichiarare verità e bene, favole e fole e tutto lasciare nel dominio della selva essa stessa sottoposta al giogo fatale del dileguarsi, dell’irrelato. Entrambe le tentazioni – il dualismo e il fatalismo – sono da respingere.
3. La prima perché facendo della selva il Male da scacciare fino a separarlo dal bene e dalla verità crea due mondi o due ordini di realtà che una volta separati non si riesce più ad unire e, quindi, a pensare. La seconda perché negando la verità trasforma la selva in un fato cieco e senza possibilità alcuna di lavoro e governo. La selva, invece, se non è il bene non è neanche il male e senz’altro è la possibilità dell’uno e dell’altro perché la selva vista nella sua natura vitale che chiede di essere sollevata e lavorata è la continua redenzione dell’umana condizione che essendo insieme desiderio e passione, immagine e intuizione, giudizio ed azione cresce su se stessa ferendosi e dilaniandosi per liberarsi da sé tramite la conoscenza per ritornare a ferirsi e a dilaniarsi nella vita selvatica e libera che chiede luce, ombra e vita.
4. La selva ci attrae e ci respinge. Ci attrae perché in essa avvertiamo la forza e il vigore della vita e il suo nutrimento. Ci respinge perché la nostra condizione non è quella della beatitudine dell’animale che gode del suo stato beato attimo per attimo – ammesso che lo stato animale sia effettivamente la beatitudine immemore – invece la nostra condizione è inquieta e la selva stessa per esserci umanamente tollerabile e per essere assaporata diventa già un frutto non spontaneo ma un frutto lavorato, coltivato. E, tuttavia, da essa dipendiamo più di quanto la selva non dipenda da noi, come se fosse causa sui.
La vitalità cruda e verde va addomesticata e addolcita e in questo addomesticamento e addolcimento consiste il segreto della nostra esistenza e della più ampia storia della civiltà. Il rapporto tra le generazioni, tra i vecchi e i giovani, altro non è che la presenza costante della selva nella storia che senza selva non avrebbe di cosa alimentarsi e morirebbe di stenti. La selva è la fornace della storia, il suo interno laborioso regno delle Madri in cui l’umanità selvaggia insieme nutre e assedia l’umanità civile. Il lavoro di addolcimento non è fatto una sola volta e non è fatto una sola volta né per il singolo né per la civiltà che è insieme arricchita e impoverita dalla selva delle generazioni, dei giovani e dei vecchi, che passano e si scontrano, si amano e si odiano, si perdonano e si maledicono.
5. La selva è una forza terribile, divina e diabolica, che fa sentire l’uomo ora un dio, ora un miserabile. È una forza generatrice e distruttiva, liberatrice e tirannica. Crea l’uomo e lo divora, lo rende felice e lo avvilisce, lo esalta e lo dilania. È una forza tragica, tempestosa, tumultuosa, indomabile o domabile solo per metà perché l’altra metà, quella che sfugge al dominio umano è una sorta di risorsa mineraria inesauribile della storia e della natura. Certo che gli uomini, tramite sofferenza e lotta, riescono a lavorare questa forza terribile e la esprimono nel linguaggio, nella poesia, nell’arte, la conoscono con il pensiero che la distingue da cosa a cosa e da cosa e illusione, la disciplinano con la volontà fino a renderla addirittura santa e fare della sua forza selvaggia stimolo di verità e bontà ma essa – la selva, così vitale e forte, indipendente e involontaria – riprende il suo corso e si rivela indomita e mai paga e fa valere la sua natura ben oltre le volontà singole e collettive degli uomini che con i suoi assalti e impeti devono fare i conti ora cadendo e ora rialzandosi per continuare la lotta e il lavoro. Si può negare la vitale forza della selva? Giammai ed altro da fare non c’è che accettarla. La ribellione contro la selva, la ribellione che denuncia il male, la tempesta, il negativo, la sofferenza e giunge per questo a respingere la vita stessa è insensata perché senza questa avversione, questo contrasto, questa forza che chiamiamo male ed è stimolo di bene non ci sarebbe punto la realtà.
6. Senza la selva, la storia umana non sarebbe. In fondo, noi altro non siamo che selva addolcita. Senza la selva le nostre stesse migliori espressioni, quelle più nobili e alte – l’arte, il pensiero, la volontà – non esisterebbero perché non avrebbero occasione di essere. La storia umana ha un che di occasionale: la selva le fornisce l’occasione di poter essere. Perché la selva non è ferma, statica, immota, marmorea ma è irrequieta, sempre insoddisfatta e sempre pronta a soddisfarsi. La irrequietezza della selva è la inquietudine della storia umana: l’una rimanda all’altra. L’uomo che vive nel paradiso terrestre è un uomo astorico, senza storia e senza libertà. Perché ci possa essere storia e libertà è necessario uscire o essere cacciati dal paradiso terrestre e ritrovarsi nella selva che è, appunto, la possibilità di essere noi stessi. La nobiltà umana è in questa cacciata edenica. La irrequi...

Table of contents

  1. La Selva
  2. Colophon
  3. La ricerca del rifugio inesistente
  4. Parte prima
  5. Parte seconda
  6. Parte terza
  7. Parte quarta
  8. Parte quinta
  9. Parte sesta
  10. Parte settima
  11. Indice