1 - Storie di vecchi amici
Sergio
Jongbloed era il portiere dell’Olanda negli anni ’70-’80. La pronuncia era Gianblod, il mio nome è Gianluca. Così mi chiamava quando avevo 10 anni. In quei tempi io e Massimo, suo fratello, eravamo compagni di scuola, e spesso stavamo insieme, anche a casa sua. L’arte dei soprannomi per Sergio è stata da sempre una spiccata dote. A ogni persona riesce, in poco tempo, a dare l’appellativo che lui fa suo, come un senso di appartenenza, di vicinanza. Fu capace di rinominare anche il padre, purtroppo non più tra noi da una decina d’anni. Aveva una somiglianza incredibile con Miyagi, il maestro del film Karate kid. O come l’epiteto «Saddam» riferito a mio padre. Non ci sono dubbi anche su ciò.
Io e Sergio abbiamo sette anni di differenza, ma io questa differenza di età non l’ho mai percepita. Ha sempre amato questa terra, come me. È stato sempre disponibile alla causa comune sin dalla giovane età. C’era la banda musicale, e lui era lì, nonostante una sua non spiccata dote musicale (il solo sentirlo fischiare rischia di essere un fastidio per le orecchie). C’era Radio Alfa, e lui era lì. C’era la Pro-loco e lui era lì. Ha sempre sentito il dovere di dare il contributo generoso per la nostra comunità. Perché la banda, la radio, la Pro-loco significano comunità, indispensabile per creare i presupposti di collettività cittadina.
Poi la sua passione primaria, lo sport. Anche se tennista da sempre, un buon tennista, è il pallone che lo rende persona compiuta. Ed è il pallone che comincia ad accomunarci. Era il 1997, io ero il corrispondente di un quotidiano. Scrivevo parecchio, mi piaceva. Ma durante la settimana sognavo la domenica pomeriggio, e il successivo racconto che avrei pubblicato il lunedì mattina delle gesta della nostra squadra. E lui ne era il rappresentante, essendo allenatore e giocatore. Con la sua guida tecnica, l’Amatrice Calcio toccò apici fino ad allora insperati: due campionati vinti e doppio salto di categoria. Ma più di tutto, mia opinione, la certezza di aver veramente creato un gruppo composto di soli amatriciani, che avevano in testa il nome Amatrice. Il termine «collettività» è perfetto.
Dicevo, era il 1997, e Sergio mi chiamò: «Dammi una mano», disse. Ci riflettei, forse neanche troppo, il pallone era il pallone. Dissi sì. Mi accorsi subito della sua professionalità, della gestione dello spogliatoio come fosse una squadra di serie A. Era un piacere vederlo lavorare. Ricordo che una volta eravamo in emergenza a centrocampo, tra infortunati e squalificati. Una sera in macchina mi chiese: «Che problema, non so come fare. Tu che dici?». Risposi: «Piola centrocampista». Piola era l’attaccante. Ovviamente Piola è il soprannome, il suo vero nome è Roberto. Piola sapeva sacrificarsi, e lui lo sapeva. La domenica successiva Piola gioca a centrocampo. Non perdiamo. Anche questo è Sergio Pirozzi, l’uomo forte, ma umile, che sa chiedere anche consiglio.
E vederlo all’opera con i ragazzi della scuola calcio è qualcosa di straordinario. Ovviamente, tutti i ragazzi, e dico tutti, vengono chiamati per soprannome. C’è Bambas, Puzzone, i Torelli, due ragazzi gemelli, Maurizio e Pierfrancesco. E poi altri ancora. Gli vogliono bene. La scuola calcio è insegnamento allo sport, e lo sport è insegnamento alla vita. È alla base del convivere civile. E lui lo applica alla regola. Non credo dovesse concentrarsi, certe doti le detta il cuore.
Negli anni successivi spesso ci vediamo, ci raccontiamo quello che accade intorno a noi, ogni tanto partite di calcetto.
Il 2009 rappresenta un anno importante nel nostro rapporto. Siamo io, mio padre e lui. Mio padre parla con lui e gli dice: «Sergio, tu puoi essere un ottimo sindaco di Amatrice». Non è l’unico a pensarlo e dirglielo, anche altri compaesani sono della stessa idea. Sergio è pensieroso, gradisce quella stima, forse ne è orgoglioso. Non sa cosa fare. Lui è in serie B, è il secondo allenatore della prima squadra dell’Ascoli. Per uno che ama la propria terra, è la massima ambizione cercare di lasciare un segno indelebile. Per farlo però vuole una condizione… Vuole che io lo segua. Sa chi sono. E per me è orgoglio. In poche parole… ci siamo «incastrati» a vicenda. Viene eletto sindaco e io a seguire.
L’impegno più importante della nostra storia, rendersi utili alla comunità con una visione diversa dalle precedenti, diventa realtà. L’amore per la terra è tangibile in lui. In ogni progetto portato avanti c’è un ragionamento teso a migliorare di giorno in giorno lo stesso progetto. Amatrice diventa attrazione, entra tra «I borghi più belli d’Italia», si attesta ad alti livelli con la raccolta differenziata. La testardaggine dell’uomo non ha limiti. E differenziare rappresenta la nobiltà d’animo dell’essere, rappresenta l’educazione civica, rappresenta il rispetto verso se stessi e verso il prossimo. Ma poi…
È il 24 agosto. Ore 3.36. Il mio letto si muove, tremano le mura. Mano a mano aumenta fino a dare l’impressione di un’esplosione, un’esplosione che dura dai 3 ai 5 secondi. Passano due minuti, il tempo di andare dai miei figli, e lo chiamo. «Sergio, temo il peggio». Ci vediamo a Porta Carbonara.
Porta Carbonara era una delle porte d’accesso alla «Città dell’Amatrice», situata a nord-est della città. La porta è una testimonianza dell’antico sistema difensivo di Amatrice, costituito da una cinta di mura. E lì abbiamo la dimensione di ciò che è successo. Quel pezzo di storia non c’era più. Senza parole.
Ci incamminiamo per giungere all’ingresso di corso Umberto I, la nostra via principale. Il GR1 riesce a contattare Sergio. Le sue parole sono inequivocabili: «Amatrice non c’è più». Lo scenario è da apocalisse. Amici amatriciani disperati che cercano aiuto. E la disperazione è anche nostra. Raccontarlo è complicato. E d’ora in poi cambia la nostra vita, e con noi quella di tutti gli amatriciani. C’è confusione in noi. Non bastano gli abbracci tra i presenti per lenire il dolore per le vittime che, mano a mano, si cominciano a contare. E c’è Mario. È scalzo, chiede aiuto, suo figlio Filippo è sotto le macerie. Viene estratto vivo e portato via in ospedale, a Chieti. Passano sette giorni, Filippo non ce la fa. Era un bravo ragazzo, appassionato di musica. Come il padre. Entrambi membri di un gruppo musicale locale, Mario canta, Filippo suona la chitarra elettrica. E Mario, nello sconforto, riesce a trovare nella musica la maniera di far vivere Filippo. Il gruppo lo segue, si incontrano, provano, si esibiscono. E Filippo vive in quelle note.
Tornando a quelle prime ore, occorre superare la difficoltà emotiva. E c’è da allestire il Coc. Credo che nessuno di noi fino al giorno prima era a conoscenza di questo termine.
Il Coc è il Centro operativo comunale che si predispone nelle emergenze. Lo realizziamo al liceo scientifico. La struttura, prefabbricata, era stata edificata due anni prima, solo che per vederlo alla luce dovemmo denominarlo Modulo strategico per emergenza. Purtroppo da liceo si trasforma in Modulo strategico per emergenza. Chissà, il destino…
Sin da subito percepiamo quali siano le aree più colpite, e le comunichiamo all’unità di emergenza allestita prima in strada, poi, appunto, al Coc. E quella sensazione, purtroppo, è veritiera.
Per un paio di giorni non c’è equilibrio in ognuno di noi. Poi cerchi in qualche modo di reagire. La fortuna dell’impegno istituzionale mi ha aiutato, e credo anche a lui. Lavorare sull’emergenza ci impegnato a fondo, ma indiscutibilmente ci «ha impegnato la testa».
E Sergio c’è. Concentrato. L’uomo versa le lacrime per una valvola di sfogo. E le lacrime le abbiamo date. Di giorno in giorno aumenta la nostra voglia di comunicare e di avvicinarci ancor più di prima. Non ce lo siamo mai detti, ma è come se le teste avessero comunicato tra loro: andiamo avanti, siamo noi che abbiamo la responsabilità. E lui è cosciente di ciò che lo aspetta. Ma prima di tutto lascia la panchina del Trastevere Calcio: ma come fa a lavorare sapendo che la sua gente sta soffrendo? E non è da tutti riconoscere che non c’è lavoro che tenga di fronte alla tragedia. Deve guidare un popolo alla rinascita sociale. Allenatore perfetto. Non è un caso la Panchina d’oro attribuitagli, anche se mai nulla è dato per scontato.
Il 30 ottobre Sergio sta andando a Roma, ma prima di andar via, in macchina, va a verificare i lavori all’area food. È testardo. È il sito dove prenderanno corpo le attività ristorative annullate dal sisma. Sente una ruota sobbalzare. «Ho bucato», pensa. Poi quella posteriore. Si volta e vede un edificio fare qua e la. È la nuova scossa. D’improvviso tutto l’impegno dell’uomo per superare la paura si sgretola. Timori che cominciavano a essere un ricordo, tornano prepotentemente. La testa torna alle vittime. La scossa la vivo nel mio letto, con il rumore delle travi che battono sul muro. Quel rumore mi accompagnerà per parecchio tempo ogni volta che entro nella mia camera. Il trauma è forte. Durante tutto il giorno siamo increduli, tra noi non diciamo una parola, parliamo solo nelle riunioni con la Protezione civile. Poi alle 5 di pomeriggio ci prova lui a riportare un minimo di normalità, forse con la complicità mia e di chi c’era. È stato come un input. Proviamo a tornare quelli che siamo sempre stati. Difficile, ma ci proviamo. E poi Sergio dice: «Stasera ci vuole un’amatriciana», e io di getto: «Giusto, questo è il giorno dell’amatriciana». L’unione fa la forza, aiuta a superare l’ostacolo. E che ostacolo.
Spesso mi chiedo come possa essere sempre presente con la testa. Io, a volte, non ce la faccio. Forse quella folla di persone che, dall’Italia e dal mondo, arrivano ad Amatrice, contribuiscono fortemente. Ma è il pallone che è sempre il suo riferimento principale, e quando vede gli ultrà delle squadre di calcio contribuire per la nostra causa, avverte la vicinanza di un mondo che è il suo. E capita che lo invitano nelle partite. Va ad Ascoli, la curva omaggia Accumoli, Arquata del Tronto e Amatrice. Lui non sa resistere, e sotto quella curva da il meglio di sé. Quel mondo, in realtà, non lo ha mai abbandonato. Prende il megafono in mano, e da tifoso vero comincia a incitare la gente. Vederlo è uno spettacolo, la passione riesce a trasformare le persone. E quella passione lo aiuta, è il suo sfogo.
Continuiamo spediti nel nostro lavoro quotidiano, sono tanti i problemi da affrontare. Avverto ancora più di prima la vicinanza con Sergio. Ci vogliamo così bene che ogni giorno rischiamo di prenderci a cazzotti. Come marito e moglie.
È gennaio, arriva la neve. Non bastasse quello che è successo, Amatrice è ricoperta di neve. Ma non centimetri. Metri. È sera, forse le 11. Ci sentiamo, Sergio mi dice che sta andando al Coc. Non posso lasciarlo solo, vado anch’io. Capiamo come affrontare l’ulteriore emergenza. Ci guardiamo in faccia, l’espressione è la stessa: «Ormai il conto a Cristo lo abbiamo pagato».
Non è così. La mattina successiva dalle 10 e mezzo alle 11 e mezzo, quattro nuove scosse. Qualcuno è nella propria abitazione, ma la neve non permette di uscire. D’improvviso anche quella che è una sorta di abitudine, la neve, diventa un ostacolo per la testa. A tal punto che udire uno scansaneve passare, equivale a un colpo al cuore. Al peggio non c’è mai fine.
Arriva la notte. E la notte a volte fa paura. Per la prima volta ho una sensazione di terrore. Non voglio stare solo. Vado a dormire da Sergio, una maniera per stare in compagnia. Per entrare nella sua casa spaliamo per circa mezz’ora con turnazioni regolari. Sergio vuole dormire al piano terra, io insisto per dormire sopra. Sergio fa: «Ma sei sicuro?». Rispondo con un sì. Scosse non fanno, e ci mettiamo a letto. Non appena proviamo a dormire, nel giro di dieci minuti una raffica di scosse. Sento la voce di Sergio: «Stallò, andiamo sotto». Non ci penso due volte. In qualche maniera ci addormentiamo. Stallone e Toro sono i nomignoli con i quali chiama chi gli è vicino. A seconda di come mi nomina io gli rispondo. Se mi chiama Toro gli rispondo: «Sì, Stallone», se mi chiama Stallone gli rispondo: «Sì, Toro». Quella notte ci siamo aiutati vicendevolmente. In fondo, sono convinto che anche lui temeva la notte. Siamo esseri umani.
Poi, maledettamente, arriva il giorno delle mie dimissioni. È il 18 aprile 2017, entrando al Coc capisco che ho difficoltà ad affrontare quello che sarà il mio ultimo ingresso da amministratore...