L'iconoclasta
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L'iconoclasta

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Politica e giornalismo, due passioni che Maurizio Marchesi ha vissuto come autentica missione civile. Modernizzare la politica e la società italiana superando l'anomalia più invalidante della nostra democrazia: la mancanza di una sinistra e di una destra "normali", entrambe democratiche, liberali, europee, quindi pienamente legittimate a governare. L'Italia più civile, più liberale, più moderna, che Maurizio sognava, non si è (ancora) avverata. Con i suoi scritti non solo si tramanda la sua memoria, quella di un bravo giornalista impermeabile all'ipocrisia e ai conformismi, si trasmettono anche speranze e ideali coltivati dalla più consapevole generazione della seconda metà del Ventesimo secolo. La sua aspirazione a vivere in una democrazia matura, proprio perché a tutt'oggi irrealizzata, riesce a parlare "al presente" e "del presente".

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Introduzione

Due passioni, un’unica missione civile. Così Maurizio Marchesi viveva la politica e il giornalismo. E la storia delle sue passioni e della sua missione civile si intreccia per oltre quarant’anni con la storia dell’anomalia forse più grave del nostro Paese rispetto alle altre democrazie occidentali: la mancanza di una sinistra e di una destra “normali”, democratiche, liberali, europee, entrambe pienamente legittimate a governare. E, di conseguenza, di un bipolarismo maturo, una democrazia dell’alternanza.
Troverete in questo volume articoli di cronaca e analisi politica, interviste ad esponenti politici di primo piano, lungo un arco di tempo di circa quarant’anni: da alcuni scritti giovanili (fine anni ’60) fino agli anni 2000 inoltrati (il Giornale/il Velino), passando per gli anni ’70 (Bresciaoggi), gli anni ’80 (Epoca) e gli anni ’90 (Epoca/il Giornale). Articoli da cui emerge un Paese da decenni tragicamente avvitato sulle stesse grandi questioni irrisolte e legato agli stessi schemi e riti partitici. Una continuità di temi e prassi della lotta politica, una ricorrenza di vizi della classe dirigente tra Prima e Seconda Repubblica (e probabilmente anche Terza), tali da denunciare il peggiore dei difetti della nostra democrazia: l’immobilismo, l’incapacità di decidere. Più invalidante probabilmente persino della corruzione.
La sfida che fin dai suoi esordi nella vita pubblica Marchesi ha raccolto è una sfida di modernizzazione, sulla base di valori e di una collocazione internazionale dell’Italia condivisi. L’ha affrontata a viso aperto, da liberale, da giornalista impermeabile ai conformismi, insofferente verso ipocrisie e doroteismi, lontano dalle conventicole, dai salotti e da piccole o grandi parrocchie, allergico al movimentismo e agli odiosi tic dei mainstream media. Basti pensare che il primo giornale giovanile fondato a Brescia nel lontano 1968 da Marchesi insieme ad alcuni amici, tra cui Franco Locatelli, si chiamava l’Iconoclasta. Rompere gli schemi, liquidare il conformismo, andare controcorrente, non cadere nelle banalità, anche con un vero e proprio gusto nell’avere ragione pur essendo in minoranza. In minoranza nella stretta cerchia degli “addetti ai lavori”, ma sempre in totale sintonia con la maggioranza degli italiani sulle grandi scelte di sistema. Questi erano i tratti che lo avrebbero contraddistinto per tutta la vita.
Poteva apparire integralista, o ingenuo l’approccio di Marchesi alla politica. Alcuni tra i suoi amici e conoscenti si chiedono ancora oggi il perché del suo passaggio da una sinistra laica e democratica, che investiva nel dialogo con il Pci, al campo del centrodestra berlusconiano negli anni ’90. Eppure c’è una coerenza in questo suo percorso politico e professionale. Certamente ha giocato un ruolo il suo spirito anticonformista, il piacere per la sfida culturale. E ce ne volevano grandi dosi, sia per scommettere su un’alternativa di sinistra democratica da costruire con il Pci degli anni ’70, ancora lontanissimo dalla svolta dell’89, sia per continuare a difendere Berlusconi anche nei momenti peggiori, quando sembrava che proprio tutto e tutti fossero contro di lui. Ma le ragioni di Marchesi non sono mai state opportunistiche, interessate. Rileggendole oggi coincidono anzi con le ragioni di fondo per una sinistra e una destra ideali in Italia. Anche se la prima scommessa non poteva realizzarsi in quegli anni e il centrodestra berlusconiano avrebbe tradito le sue stesse premesse e la promessa di una “rivoluzione liberale”, le motivazioni che lo hanno spinto in quelle battaglie politiche e giornalistiche non erano certo infondate.
Da articoli e interviste trapelano le identità, le posizioni sui vari temi, dei partiti e dei leader che si sono succeduti sulla scena politica e insieme, di riflesso, le aspettative (per lo più disattese) che Marchesi e con lui molti italiani nutrivano su di essi. Raccontarle cercando di influenzare il corso degli eventi è stata per Maurizio Marchesi una missione civile. Insomma, la storia di un’aspirazione lunga decenni a vivere in una democrazia moderna, governata da una sinistra e una destra “normali”, pienamente legittimate. Non è poco, né banale, come visione, come filo rosso di una vita nella politica e nel giornalismo. Un’aspirazione che proprio perché a tutt’oggi irrealizzata riesce a parlare “al presente” e “del presente”.
Nel fermento che agita le nuove generazioni negli anni ’60 e nei primi ’70, Maurizio Marchesi, ventenne dalle radici liberali, non si fa sedurre dall’ideologia, dall’estremismo, dall’assemblearismo e dal velleitarismo del movimento studentesco. Mantiene salda un’impostazione istituzionale, democratica, laica, occidentale, europeista federalista. I valori su cui si fondano le istituzioni repubblicane e la collocazione internazionale dell’Italia, europea e atlantica, sono per lui riferimenti incrollabili. Fonda a Brescia, insieme a Pino Querenghi, un circolo dell’American Field Service, un’organizzazione americana su base volontaria dedita all’interscambio culturale tra studenti e giovani di diversi paesi. Si sente di appartenere pienamente alla sua generazione, alle istanze di cambiamento che esprime, ma mentre il movimento mostra i muscoli dei grandi numeri nelle piazze, Marchesi, già nel 1970 alla guida del movimento giovanile di un piccolo partito, il Pri, comincia a ragionare su come governare il Paese, come offrire uno sbocco politico concreto e realistico a quelle istanze. Aveva già la mentalità e la coscienza critica di una sinistra “di governo”, che al Paese mancava e sarebbe mancata ancora per parecchi decenni.
Per lui non si tratta di combattere “il sistema”, ma di trasformare la società agendo nelle istituzioni. Portando e incanalando al loro interno l’energia e le buone ragioni delle nuove generazioni. Non ha mai concepito la lotta politica come pura protesta, sterile opposizione. L’obiettivo è il governo del Paese: non fine a se stesso, e certo non per conservare lo status quo ma, al contrario, come strumento per modernizzare la società, l’economia, le istituzioni.
La forza innovatrice di questo approccio – che per decenni è mancato alla sinistra, che ancora oggi stenta ad affermarsi e sta affievolendosi a destra – sta nel ragionare in termini di governo, cioè con lo stesso pragmatismo e senso di responsabilità di una maggioranza, anche quando si è minoranza, quando si è all’opposizione. Un approccio “governativo” nel senso di una predisposizione ad assumersi la responsabilità di indicare soluzioni, ricette praticabili, che è alla base di ogni sistema basato sulla logica dell’alternanza.
Allo stesso modo Marchesi interpretava il lavoro giornalistico. Un giornalista con “l’infaticabile interesse e la dedizione di un allegro posseduto”, scrive di lui Ruggero Guarini. Fino ai suoi ultimi giorni di vita come direttore del Velino la sua è stata un’attività febbrile. Ad animarlo una passione viscerale unita al gusto del ragionamento. A capo della redazione romana di un piccolo quotidiano di provincia, Bresciaoggi, con i suoi collaboratori aveva l’ambizione di raccontare la giornata politica con l’accuratezza di una grande testata nazionale e un’attenta, mai omologata, lettura dei fatti. Un’idea di giornalismo lontana sia dal mito dell’obiettività che dalla faziosità e dal servilismo. Non un mestiere come un altro, ma una vera e propria missione civile: cercare di far emergere dall’informazione, dai fatti, dalle analisi, dai commenti, una visione e delle proposte di soluzione ai problemi. I suoi inizi professionali e politici, in una città come Brescia, governata da un compatto sistema di potere, hanno portato Maurizio a scontrarsi sempre con il pensiero politico-culturale dominante, ma anche con ogni settarismo, ogni pretesa superiorità antropologica, morale e culturale.
Da poco più che ragazzo Marchesi milita nel sindacalismo democratico, al fianco di Raffaele Vanni, segretario generale della Uil dal 1971 al 1976, e nel Pri, un partito delle istituzioni, “del sistema e nel sistema”, come usava dire Giovanni Spadolini1. Un partito che accetta la sfida del governo con la Dc ma che guarda a sinistra per costruire l’alternativa. “A sinistra, ma come?” era, naturalmente, l’oggetto del contendere di quegli anni.
Il tema, sia sul fronte sindacale che su quello prettamente politico, era come recuperare Pci-Cgil al sistema democratico e all’economia di mercato. Era quello dell’apertura al Pci, insomma, per costruire un’alternativa di sinistra socialdemocratica, che avrebbe rappresentato una modernizzazione di portata enorme per la politica italiana, avvicinandola alle grandi democrazie europee. In quegli anni Marchesi era tra quanti auspicavano una decisa apertura al Pci nella convinzione che ciò bastasse a mettere in moto un processo di evoluzione del partito comunista e, con esso, dell’intero sistema politico. Era una missione ideale alta, ambiziosa, quanto impervia. Era possibile per i piccoli partiti laici “governare” le contraddizioni del Pci, guidare con la loro “intelligenza” e consapevolezza un po’ elitarie i muscoli del più grande partito comunista dell’Europa occidentale? Oppure si rischiava semplicemente di soccombere all’egemonia comunista?
Una logica di puro schieramento non deve mai prevalere sui contenuti, spiegava Ugo La Malfa al giovane Marchesi in un’intervista per il mensile dei giovani repubblicani Oggi, come2. Era stata questa, per il leader repubblicano, la causa del fallimento dei primi governi di centrosinistra. Esperienza che nelle intenzioni della sinistra democratica avrebbe dovuto da una parte costringere la Dc sulla via di riforme di struttura, e dall’altra accelerare il travaglio ideologico del Pci verso una sinistra unitaria moderna. A maggior ragione, quindi, bisognava chiarire le basi programmatiche prima di dar vita a un’alternativa di centrosinistra con il Pci, che altrimenti avrebbe avuto un esito ancor più fallimentare. Il dialogo con il Pci doveva proseguire, sosteneva La Malfa, ma sui contenuti. Forse all’epoca Marchesi si sarebbe aspettato più coraggio, ma in anni più recenti avrebbe ricordato nei suoi articoli la saggezza di quell’approccio. A dimostrazione del suo spirito critico, anche nei confronti della prospettiva politica in cui credeva, gli amici lo chiamavano “la coscienza critica del centrosinistra”, lo stesso termine con il quale il Pri si autodefiniva.
Il successo del Pci alle elezioni amministrative del 1975 sembra segnare una svolta. Secondo Marchesi ripropone la “questione comunista”3. L’ipotesi centrista è ormai impensabile. L’esito del voto, si chiede retoricamente, suggerisce la necessità dello “steccato” a sinistra, o di impostare in termini nuovi i rapporti dei partiti di maggioranza con il Pci?
Marchesi aveva anticipato l’evoluzione a sinistra del Pri e l’apertura al Pci della metà degli anni ’70. Uno sbocco reso inevitabile dai successi elettorali dei comunisti alle amministrative del ’75 e alle politiche del ’76 e suggellato dall’apertura di credito che lo stesso Ugo La Malfa concesse al Pci dopo l’intervista al Corriere della Sera nella quale Enrico Berlinguer sembrò compiere una significativa svolta sul tema della collocazione internazionale dell’Italia. Il segretario del Pci dichiarava infatti di non volere che l’Italia uscisse dalla Nato, di “sentirsi più sicuro di qua”, cioè sotto l’ombrello dell’Alleanza atlantica. Un’intervista il cui testo, avrebbe poi rivelato l’autore dell’intervista, Giampaolo Pansa, fu inviato da Botteghe oscure all’ambasciata sovietica a Roma... E nel testo pubblicato l’indomani sull’Unità domande e risposte sulla Nato erano state sbianchettate. Che fosse strumentale o meno, quella svolta sarebbe stata comunque contraddetta dalle posizioni che il Pci, e persino il Pds, avrebbe preso in diverse occasioni, dagli euromissili fino alla I Guerra del Golfo. Lo slogan “Via l’Italia dalla Nato, via la Nato dall’Italia” si udirà ancora per molti anni.
L’uscita di Berlinguer era comunque coerente con la fase dell’Eurocomunismo. Un progetto il cui scopo nelle intenzioni dei promotori – il Pci insieme al partito comunista francese di Marchais e a quello spagnolo di Carrillo – era di marcare una distanza dall’Unione sovietica, affermare una propria autonomia e la possibilità di una “via nazionale” al comunismo. Meno stretti apparivano i rapporti con Mosca, più facilmente sarebbe caduta la pregiudiziale rispetto a una partecipazione comunista al governo. Ma anziché imboccare una “nuova via” si fermarono a metà strada, il che offrì il fianco alle accuse di strumentalità. Non fu mai una svolta antisovietica, ma che fosse o meno solo strumentale l’allontanamento da Mosca, in ogni caso non si placò l’antiamericanismo, anzi forse si accentuò durante la presidenza Reagan, e non ci furono novità sul piano teorico-politico.
Nella seconda metà degli anni ’70, dunque, sembrano maturi i tempi per un’apertura al Pci. Ma se da una parte è la Dc a prendere in mano le redini di quel passaggio, dall’altra è il Pci stesso a privilegiare il dialogo diretto con la Dc piuttosto che con gli altri partiti di sinistra. Saranno ricordati come gli anni del “compromesso storico”, in cui però il riavvicinamento tra i due grandi partiti avverrà secondo una logica spartitoria del potere e non di alternanza al governo. Ben diverso da quanto propugnavano i partiti della sinistra laica e democratica e ben lontano da un’evoluzione bipolare del sistema. Al Pci, in sostanza, viene permesso di entrare nel meccanismo del consociativismo parlamentare. Quella pagina si chiude tragicamente, com’è noto, con il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse.
Nel giugno del 1981, con Sandro Pertini al Quirinale, viene nominato per la prima volta un presidente del Consiglio non democristiano, esponente di un partito minoritario, di sinistra, ma che si è già assunto in passato la responsabilità di governare insieme alla Dc: si tratta del repubblicano Giovanni Spadolini, che apre la travagliata stagione dei governi di pentapartito.
È un passaggio che Marchesi racconta4 dando rilievo da un lato ad uno degli aspetti che è all’origine della cronica debolezza dei governi italiani, ovvero gli scarsi poteri del premier rispetto ai partiti, dall’altro alla preoccupazione di non isolare il Pci. Spadolini infatti tenta subito di affermare il diritto-dovere del presidente del Consiglio di nominare in piena autonomia i suoi ministri, senza subire i ricatti delle correnti dei partiti e delle cons...

Table of contents

  1. L’Iconoclasta
  2. Colophon
  3. Prefazione di Massimo Teodori
  4. Introduzione di Federico Punzi
  5. L’alternativa: la lunga marcia per una sinistra democratica, laica, moderna, europea. Una chimera?
  6. Bello e impossibile: il ventennio del centrodestra berlusconiano, lo “spirito del ’94” e l’antiberlusconismo
  7. Giustizia tradita: dal caso Tortora alla Repubblica delle Procure
  8. Presidenzialismo e riforme costituzionali, come la tela di Penelope: una democrazia rissosa e non decidente
  9. L’inferno fiscale: soffocati da tasse, spesa pubblica e debito pubblico
  10. La Casta, i costi della politica e la morsa della partitocrazia
  11. Social Network. Maurizio Marchesi su Facebook a cura di Francesca Bruni
  12. Ringraziamenti
  13. Indice