Coraìsime
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Prefazione di Gioacchino CriacoIn un paese dominato da oscure presenze che si annidano in un reticolato di cunicoli e grotte sotterranee, Paolo porta agli estremi il senso di protezione nei confronti della figlia Marta finendo per recluderla in un casolare di campagna, chiusa al mondo e a sé stessa. Giuseppe, un ragazzo con alle spalle un'infanzia difficile, è vittima dell'amore malato di Paolo che lo rapisce per rinchiuderlo, a sua volta, in casa con Marta. Intorno, tra passato e presente, vivono luoghi e paesi spopolati dagli esodi invernali e presi dall'adrenalina dei ritorni estivi. Il filo sotteso al mistero degli "uomini senza testa" è fatto di magarie, riti esoterici e simbolismi. Il dramma dei protagonisti si consuma, tra fuochi divoranti e violenti temporali, con Marta che assume infine la veste di attrice principale della propria vita in una sorta di epilogo escatologico.

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Information

1. Il rapimento

Intorno solo i rumori del bosco. Qualcuno lo trascinava per un braccio. Non opponeva resistenza, si lasciava guidare dalla sua andatura decisa. Sentiva la vegetazione infittirsi mentre strattonato spezzava i rovi con le gambe. La benda premeva pesante sugli occhi. Un sottile rivolo di sangue gli gocciolava giù dalla fronte mentre l’aria diveniva più fresca. Stavano salendo. Il respiro rotto dal rumore della terra mossa dai passi. Temeva che da un momento all’altro quel trascinare mutasse in violenza. I corpi serrati dalla presa sicura tagliavano la fitta boscaglia che si richiudeva sulle loro teste come un tetto di sterpi e foglie. Il cuore gli esplodeva nel petto come una mela schiacciata da una pressa. Un mucchio di immagini gli affollò la mente. Una si affacciò prepotente. Il giorno in cui aveva iniziato la dieta di pomodori. Si rivide in cucina mentre si specchiava sul vetro del forno con gli occhi semichiusi per assottigliare quella figura che ormai non tollerava più.
Il passo deciso spingeva giù la terra arida e lasciava dietro uno scarto di polvere che entrava nell’umido della gola corrompendolo. Era terra bruciata. Quella attraversata d’estate da canadair impazziti, colmi di mare, per sedare il gioco di piromani che si dividono la mazzetta lungo i tornanti della strada subito fuori paese. Grigi di fumo e strappi di trinciato e sigarette, smadonnano per quattro spiccioli la loro terra. Il male ti offre il caffè nei bar, urla un saluto che risuona fra le dita e la tazzina, un «pagato!» che elemosina il rispetto. In quel cammino buio riconobbe tutte le paure, il deflagrare dei tuoni sulle rampe delle scale, il vento col sibilo strozzato fra gli infissi, l’uomo nero informe, la parata di mascherine con gli occhi bianchi, la vecchia con la voce da bambina che sferruzza sciarpe, un oboe sotto le coperte che suona fra le viscere un canto monotono e insistente.
Qualcuno aveva deciso di spezzare la sua collezione di giorni identici. Si era nascosto per anni e adesso la vita gli si era ripresentata regalandogli un brivido, nuovo e oscuro, disperato. Sfiorò i jeans appena sotto il ginocchio e percepì l’umido calore del sangue. Era vivo e si lasciò travolgere da una sana paura di morire.

Giuseppe

Una folla si era formata davanti al banco della frutta, al centro del mercato coperto. Come formiche le persone erano confluite per osservare. Un silenzio irreale era sceso sui meloni gialli e i cavoli verde scuro. Si udiva, sotto il grande neon pieno di mosche eccitate dal puzzo di pesce, una voce strascicata che raccontava. Biascicava qualcosa, la vecchia, mostrando la cassetta colma di cime di rapa. Le mancavano i denti e la voce era un leggero sibilo che moriva appena all’interno di quel gruppo di avventori. Diceva di aver trovato nel fondo della cassetta di cime di rapa qualcosa. Dal freezer, a lato del piccolo banco affollato, un fiato di gelo investì i corpi in ascolto. La vecchia aveva gli occhi iniettati di sangue, un sottile reticolo di capillari le colorava i bulbi oculari. Prese un fagotto e lo mise con cura sopra la cassetta. Un brivido attraversò, quell’istante pieno di attesa. Scoprì una larva gigante, una larva di mosca che si muoveva come un neonato privo di arti. Enorme e viscida, con gli occhi vuoti, si rigirava lentamente come in una danza antica e triste.
Quella mattina Giuseppe Delas aveva percorso la strada di sempre, osservando la vita dei vicoli, e lo scorrere del tempo. Le persone del paese invecchiano come le piante di basilico che – recise le foglie – continuamente si rigenerano e sembrano non mostrare la fine. Il loro è un tempo rigoglioso, sono rughe viventi che sfidano la condanna. Era passato sotto i panni stesi in maniera disordinata dalla signora Agata che abitualmente gli negava il saluto, accanto alla fila di persone ad attendere l’impiegato della Posta, davanti alle signorine Santoro che con lunghe pause si raccontavano gli ultimi ottant’anni. L’odore del pane appena sfornato gli mise fame, e costeggiando il belvedere varcò la piccola porta-vetrina del Bar Sport. D’estate faceva affari la Pasticceria Eden al centro della piazza, nessuno resisteva al richiamo delle ragazze russe che servivano ai tavoli. Era il regno della granita alle mandorle, degli occhi azzurri e del babà al fico d’india. Ma il vecchio Bar Sport manteneva il suo fascino non aveva bisogno di rinnovarsi, lo scintillio dei bicchieri colmi di ghiaccio zuccherato durava solo pochi mesi l’anno. Saverio, il padrone del locale, era intento a trovare la soluzione a un sudoku, le parole crociate erano roba antica, adesso i numeri davano più soddisfazione. «Un attimo e arrivo» aveva urlato a Giuseppe da dietro il frigo dei gelati confezionati. Saverio era un tipo particolare, faceva attendere chiunque, specie quando era intento a modificare le scadenze dei biscotti secchi e dei the in brik. «Da consumarsi preferibilmente... non dice andato a male, sarebbe uno spreco». Secondo il suo modo di pensare aiutava il mercato e l’ecosistema. «Non è giusto disperdere tanto ben di Dio». A testa bassa, con alcol e carta ruvida, tirava via delicatamente la morte della merce e regalava alla brioche una nuova vita. Quello che gli riusciva meglio era il lavoro sui brik, una piccola opera d’arte: sembravano fatti apposta per essere modificati. Il materiale rispondeva bene e non restavano sbavature, l’inchiostro si allargava senza mostrare segni incerti. Era il Dio dei the, poteva renderli immortali, qualsiasi the, purché in brik. In paese tutti lo sapevano quindi limitavano il consumo di prodotti confezionati e ordinavano quasi sempre solo un caffè. Quella mattina era di cattivo umore, quando si concedeva un sudoku non era buon segno. Di sicuro aveva litigato con la moglie. Fissò per l’ultima volta la griglia con i numeri e si alzò come disturbato dall’avventore. «Ti preparo un caffè?», accennò un risicato sorriso. «Sì, grazie Saverio» rispose Giuseppe guardando una vecchia lista di prezzi dove mancavano molte lettere. PUCNO stava per cappuccino, FF era quello che restava della parola caffè, poi SUCO DI FRUTA, MONATA, SCHOTCH WI, ONO LATO, CIOCC ALDA. Mentre Saverio cercava una tazzina in quel caos generalizzato, Giuseppe focalizzò l’attenzione sull’ultima parola, in fondo alla lista. CRNO, da anni ormai si soffermava su quelle quattro lettere per cercare di indovinare cosa celassero. Il tempo di un caffè per studiarle ancora una volta. Poggiata la tazzina sul bancone, Saverio era ritornato ai suoi numeri con la matita ormai ridotta a mezzo centimetro, il piccolo schema illuminato da un rettangolo di neon che filtrava da dietro una bottiglia magnum di Amaretto di Saronno. Era linfa del paese Saverio, liquido puro che ne irrorava i vasi, contribuiva al processo di identità. Saverio era tipico, pensò Giuseppe e uscì. Da lì a poco sarebbe iniziata la sua solita giornata di lavoro.
Il bicchiere riempito a tre quarti con poca schiuma. Così si congeda il bibitaro dalla sala ormai preda di spasmi tarantellati. Collane d’oro scintillano pesanti con i lampadari finto Swarovski, un mare di pance digerisce con le guance infuocate d’alcol e spaghetti alla corte d’assise.
Giuseppe versò lo spumante fino all’ultimo bicchiere anche se il tavolo era vuoto. Passando per la cucina si fece strada fra il cimitero di scampi e barchette d’ananas. Uscì e si sedette nel piccolo cortile sul retro del ristorante, aspirò con forza una sigaretta guardando verso le montagne il suo paesino ingoiato dal verde fitto della vegetazione. Sembrava distante, non si lasciava pensare, era lì, esisteva da tanto come le stelle e tutte le cose lontane. La piscina prese a suonare, migliaia di gocce dal cielo avevano rotto la pace. Fra le sedie a sdraio color pistacchio fuggivano due signori di mezza età con i bicchieri d’amaro in mano: ridevano come bambini saltando quello che restava di una composizione floreale e una scultura d’anguria. Un temporale estivo in piena regola, violento e breve. Raccolse le sue cose, mise da parte i trenta euro del servizio e attraversò la Statale. Sotto una pensilina colma di pubblicità di sagre e feste patronali andò ad attendere il pullman delle cinque e trenta. Udiva ancora voci e rumore di stoviglie, canzoni urlate cercando di emulare Claudio Villa, bambini invasati che a flotte si dileguano in piccoli varchi fra i tavoli. Gli rimbalzavano in testa occhi di vecchietti che sbavano su una timidissima rumena che sorride a giacche larghe tre misure in più, profumate d’acqua di colonia e sigarette nazionali. Sentì un colpo dietro la nuca, secco. La Statale divenne un serpente sinuoso, si voltò appena e la vista gli si spense su un piccolo cartello pubblicitario di un noto veterinario. Poi il buio, mentre un gallo si schiariva la voce.

Paolo

Gli balenò in testa un desiderio che aveva da bambino. Lo aveva chiesto a Gesù per tutti gli anni delle scuole elementari. Diventare un cowboy e attraversare il deserto come Tex, vivere soltanto per ritrovarsi a fine storia ad accendere un fuoco e scambiare poche battute d’effetto. Invece Gesù gli aveva regalato un grande dono, il potere di legare, di tenere a sé, di stringere corde e controllare i nodi. Paolo non poteva perdere tempo, doveva essere all’altezza del compito. Sì, perché il tuo scopo non lo scegli tu, è lui che si fa vivo. Riesce sempre a trovarti anche quando fingi di non riconoscerlo. Negli anni la vita ti può distrarre, mimetizzando ogni cosa, rendendola accettabile, a volte persino bella. Lui l’aveva visto negli occhi della figlia, nelle braccia magre che avevano smesso di ribellarsi, nel bianco dei denti, nel forzargli con le dita un sorriso, in tutti quei preziosi silenzi, così pregni di misericordiosa bontà. Lo aveva riconosciuto subito il disegno. Graffiato finemente in quella figura di ardesia, in cuor suo era tutto chiaro. Poteva vivere tutta la vita legato a lei. Non poteva lasciarla andare via come Adele. La sua morte era venuta di colpo, non c’era stato neanche il tempo di salutarla che già non c’era più. Questo non doveva più accadere. Quando ami qualcuno ti devi accorgere di quando andrà via. Devi sapere cosa farà fra un secondo. Perciò la cosa migliore è legarsi in un nodo inestricabile, un nodo perfetto che stringe quanto basta, e, se uno dei due prova a scioglierlo, si serra ancora di più. La sua bimba non avrebbe dovuto mai allontanarsi, sarebbero rimasti legati per sempre. Ma quella era una giornata diversa dalle altre.

La stanza

Qualcuno aveva deciso per lui quella mattina. Giuseppe sentiva ancora gli strascichi della notte seccargli gli occhi. Muoveva le palpebre a fatica. Tutto si era concentrato in quell’assenza improvvisa di luce. Si era lasciato cadere in fondo alla macchia nera che aveva annegato la fila di lampioni e l’alba tutta. Non si era opposto al suono sordo che si era propagato dalla testa fin dentro le ginocchia. Le rondini e il loro canto erano una lancia appuntita che premeva sulle tempie. Le ossa reclamavano antidolorifici. Le sue mani percorrevano il corpo cercando di rimetterlo assieme, le parestesie rendevano ogni parte simile.
La stanza era abbastanza grande. Le finestre oscurate da cartoni e fogli di truciolato. Piccole linee di sole attraversavano la copertura e disegnavano sul pavimento figure geometriche. Qualcuno cucinava qualcosa. Gli odori passavano da sotto la porta, filtravano una dietro l’altra le note di soffritto, la cipolla e l’aglio che si legavano al pomodoro. Una radio gracchiante trasmetteva musica classica intervallata da letture di pagine di narrativa e prosa teatrale, la voce della presentatrice era sempre la stessa. Fece attenzione alle consonanti, quel male alla testa aveva amplificato il suono delle r, le p, la cattiveria delle t. Quei suoni misti ai profumi erano l’unico appiglio alla realtà, erano la prova che qualcosa procedeva regolare a differenza del tempo confuso e dei dolori che gli spezzavano il corpo. La voce alla radio sceglieva dei brani da Senilità di Italo Svevo e ne tesseva le lodi inserendolo in una personale lista dei dieci libri da avere a ogni costo nella propria biblioteca. Sdraiato per terra, in una posizione che rendeva più sopportabili i dolori alla schiena, Giuseppe cercava di passare in rassegna le parole che dalla radio si facevano strada nella penombra. Non si voleva addormentare. Non lo preoccupava la morte ma il fatto che stesse subendo tutto ciò senza sapere perché. Non poteva sopportare che qualcuno lo mandasse al Creatore senza avere un viso da maledire chiudendo gli occhi. Adesso si parlava di Svevo come autore universale, la voce della speaker era lenta e perentoria finché non fu interrotta dalla telefonata di un radioascoltatore; si chiamava Mario e partì elencando i dieci libri preferiti. Un forte dolore alla testa anticipò lo sforzo di memorizzare. La voce di Mario era distante, chiamava da chissà quale posto sperduto. Giuseppe ripeté fra sé tutti e dieci i titoli in maniera veloce per non dimenticarne nessuno. Alcuni di quei libri li aveva letti d’estate a casa dei cugini, altri non li aveva neanche sentiti nominare. La stanchezza ebbe la meglio ma prima di addormentarsi snocciolò come una preghiera sot...

Table of contents

  1. Coraìsime
  2. Colophon
  3. Il buio di Coraìsime di Gioacchino Criaco
  4. 1. Il rapimento
  5. 2. L’età di schiuma
  6. 3. Cantieri
  7. 4. Via
  8. 5. Marta
  9. 6. Campane
  10. 7. L’inizio
  11. Ringraziamenti
  12. Indice