Capitolo Terzo
Democrazia
Democrazia
Un aspetto presente con particolare ricorrenza nelle interpretazioni sul pensiero e sull’opera di Aldo Moro è quello relativo alla dinamica della democrazia, con riferimento alle sue strutture portanti, alle sue difficoltà, alle sue trasformazioni.
A questo riguardo, sono molti gli osservatori che segnalano l’esistenza di un vero e proprio “progetto” di lungo periodo dello statista, che aveva al suo centro l’espansione e il contemporaneo consolidamento del sistema democratico italiano. Il contesto di tale progetto è stato, dapprima, quello della modernità industriale e, successivamente (nella fase finale dell’esperienza umana e politica di Moro), quello della trasformazione delle società da moderne a postmoderne; quelle società, come afferma Mino Martinazzoli nel testo qui pubblicato, che hanno assunto la forma di «agglomerati multiculturali e incoerenti di gruppi caratterizzati da un’identità esclusiva ed escludente, sempre più difficilmente riconducibili a una norma certa e universale».
All’interno di questo quadro generale abbastanza condiviso – l’esistenza di un progetto di Moro sulla democrazia italiana – si possono individuare diversi schemi interpretativi ricorrenti, relativi all’approccio di Aldo Moro alla dinamica della democrazia.
Un primo schema interpretativo ha, al suo centro, una visione della “democrazia come processo”. Esso mette in luce la tendenza dello statista a non pensare alla democrazia primariamente in termini di regole del gioco, norme e architetture istituzionali, in qualche misura definibili una volta per tutte. Al contrario, secondo questo schema interpretativo, Moro vede nella democrazia un’entità vitale, in costante evoluzione e, come tale, soggetta ad avanzamenti e a continui miglioramenti, così come a pericoli e inaspettate possibilità di regresso.
Al riguardo, Ugo De Siervo ricorda come già, nella fase costituente, Moro si impegnasse affinché la democrazia italiana avesse una «tendenza progressiva» e le nuove norme costituzionali mirassero ad assicurare il «carattere dinamico che deve avere lo Stato democratico». In tal modo, secondo De Siervo, Moro cercava di costruire una democrazia che avesse un carattere sociale e non strettamente e «angustamente» politico. Anche Giovanni Guzzetta si muove nella stessa direzione, soprattutto quando sottolinea come, nella visione di Moro, la democrazia rappresentasse un «processo ininterrotto di continua apertura delle istituzioni alla società» che dovesse interessare «i soggetti primariamente abilitati dalla Costituzione a veicolare le domande politiche, e cioè i partiti», ma che dovesse coinvolgere tutte le istituzioni, in qualche modo chiamate ad aprirsi al pluralismo sociale.
Secondo Maria Serena Piretti, questa visione dinamica della democrazia trovava principale fondamento nell’attenzione di Moro a «portare le masse a essere parte attiva della Repubblica», attenzione che farà dello statista il «grande tessitore delle transizioni». Converge su questo punto Giancarlo Quaranta, quando riconosce allo statista il merito di aver saputo favorire l’integrazione della cultura di massa nel sistema delle istituzioni della democrazia parlamentare.
Anche la Carta costituzionale, nella visione di Moro, ha una natura in qualche modo plastica: certamente non sono modificabili i suoi principi, ma lo sono i mezzi che consentono a tali principi di incarnarsi nella realtà. Al modificarsi della realtà, possono cambiare i mezzi utilizzabili per la gestione della vita democratica. Come osservato da Mino Martinazzoli, lo statista, nel contesto dell’Assemblea costituente, dedicò la massima attenzione perché non fossero inclusi, nel testo della Carta costituzionale, «dati che possono essere aggrediti dalle contingenze della realtà e dal fluire della vita», come ad esempio la regola elettorale, che deve poter essere soggetta a negoziazione. Anche in questo si rispecchia, secondo Martinazzoli, l’idea di Moro secondo cui la Costituzione dovesse sempre rispecchiare «cose vive», senza mai cedere alla tentazione di ingessare la realtà politica e sociale del Paese entro modelli normativi rigidi e a maglie troppo strette.
Un secondo schema interpretativo, strettamente connesso al primo, ruota intorno alla visione di Moro di uno “Stato costituzionale”, uno Stato cioè che non si ponesse come mero garante delle regole del gioco e che non fosse neutro dal punto di vista dei contenuti.
È probabilmente Ugo De Siervo a dare maggiore consistenza a questo schema interpretativo, soprattutto quando nota come, sin dai tempi della Costituente, Moro puntasse a rendere possibile, per l’Italia, il passaggio dallo Stato liberale di diritto a un moderno Stato costituzionale, in grado di individuare «principi e valori comuni a tutte le componenti culturali e sociali […] che indirizzano e vincolano le stesse istituzioni». Tali principi sono poi quelli sintetizzati nei primi tre articoli della Costituzione che lo stesso statista si impegnò a porre, tutti insieme, all’inizio della Carta. Come sottolinea Maria Serena Piretti, è proprio facendo leva su questo approccio che Moro si impegnò, con successo, perché la Costituzione assumesse un carattere nettamente antifascista e non, come altri volevano, uno semplicemente afascista.
Da questo orientamento traspare anche l’importanza che Moro annetteva al collegamento tra democrazia e i grandi significati che tengono insieme e alimentano la società. Secondo Giancarlo Quaranta, questo legame consentiva allo statista di dare allo stesso concetto di cittadinanza contenuti potenti e legati alla più profonda dimensione antropologica del potere politico. È in questo quadro che può essere colto il senso della laicità in Moro: lo statista pensa, certamente, a uno Stato laico; ma a uno Stato che persegue la laicità, non attraverso l’annullamento, l’annacquamento o il depotenziamento dei grandi significati presenti nella società. Piuttosto, nella relazione tra Stato e società, sottolinea ancora Quaranta, tutte le visioni, le aspirazioni, le “religioni” (nel senso ampio del termine) devono avere, secondo lo statista, uno spazio consistente e reale. Se ciò è vero, il “popolo” cui si riferisce la Costituzione non può allora essere rappresentato come un’indeterminata molteplicità di individui, bensì come una struttura sociale articolata e ricca di significati sociali differenziati. Francesco D’Onofrio ricorda, a questo riguardo, l’affermazione di Moro secondo la quale «lo Stato è, nella sua essenza, società che si svolge nella storia, attuando il suo ideale di giustizia».
Il “ruolo dei partiti” all’interno di questa complessa dinamica è al centro di un terzo schema interpretativo, anch’esso abbastanza ricorrente nei testi qui presentati, così come in quelli contenuti in altre sezioni del libro (si veda, solo per fare un esempio, il contributo di Pietro Scoppola nel capitolo quarto).
Come sottolinea Maria Serena Piretti, nella visione di Moro i partiti ricoprono un ruolo essenziale. Essi non sono «soggetti altri rispetto al popolo», ma rappresentano i vettori delle istanze che vengono dalla base della società, e dunque strumenti che consentono al popolo di «farsi Stato» e di entrare nella dinamica della democrazia. In tal senso, i partiti sono garanti del pluralismo della società, anche se, come osserva Giovanni Guzzetta, Moro stesso era consapevole del fatto che esiste sempre un’eccedenza della domanda sociale rispetto alla capacità di rappresentanza dei partiti. Non solo: lo statista si è mostrato profondamente preoccupato del fatto che i partiti fossero sempre meno capaci di assicurare questa funzione di rappresentanza e, rileva Giuliano Amato, ha avuto un ruolo di sprone affinché la base sociale della democrazia non tornasse a restringersi, e l’«impolitico» della vita sociale (come dice Martinazzoli) fosse reimmesso nella politica.
Un quarto schema interpretativo che si può qui individuare è quello di un’“aspirazione verso una democrazia compiuta”.
Per Francesco D’Onofrio, l’aspirazione di Moro verso una democrazia compiuta si incardina nella sua concezione dello Stato. Per lo statista, lo Stato stesso è una «società in movimento»: è la stessa società che diventa Stato e diventa diritto, creando una congiunzione tra socialità dell’individuo e collettività nazionale. In questo senso, ogni evoluzione sociale impone una riconfigurazione dei meccanismi democratici su cui lo Stato si fonda. Del resto, notano Giovanni Guzzetta e Giuliano Amato, la missione di Moro è sempre stata quella di allargare costantemente le basi sociali delle istituzioni democratiche, cercando di risolvere (nei termini in cui si poneva nel secondo dopoguerra) l’antico problema italiano del radicamento delle istituzioni statali nel corpo della società. C’è dunque, alla base dell’idea di compimento della democrazia, anche la percezione del rischio che l’assetto democratico possa progressivamente indebolirsi, fino a rendersi inefficace, in assenza di un ampio supporto popolare che lo sostenga. In tal modo, viene a mancare l’elemento trainante della democrazia, vale a dire la sua base sociale, rendendo così la politica un’attività estemporanea e – secondo l’espressione di Mino Martinazzoli – «preterintenzionale».
Maria Serena Piretti osserva che la solidarietà nazionale, nella complessiva strategia di Moro, rappresentava la prima tappa verso una democrazia sempre più basata sull’«alternanza tra forze politiche pienamente legittimate ad assumere la guida dello Stato in una compiuta democrazia, competitiva e plurale», nella prospettiva di quella che Moro stesso, in un brano citato nel testo di Piretti, descriveva come la «piena immissione delle masse nella vita dello Stato». Giancarlo Quaranta, a sua volta, rileva come l’orientamento complessivo di Moro verso la costruzione di una democrazia compiuta rispondesse alla necessità, molto sentita dallo statista, di affrontare la complessa relazione tra democrazia e modernità favorendo un’espansione e un rafforzamento del sistema democratico, in modo che potesse reggere all’impatto della crescente soggettività che permeava la società.
Un ultimo schema interpretativo, strettamente interconnesso con quelli precedentemente citati, si riferisce al “progetto interrotto della Terza fase”. Tale schema interpretativo ha come oggetto il tentativo (diremmo estremo) di Moro di affrontare il problema della crescente divaricazione tra la dinamica sociale e la capacità della politica, di interpretarla e di governarla; tentativo che si sarebbe dovuto sostanziare in un percorso politico di medio/lungo termine che consentisse all’intero sistema democratico di recuperare un forte raccordo con la società.
Come osserva Giuseppe Vacca, questo problema, come è noto, si rese particolarmente acuto e drammatico in occasione del Sessantotto e, in generale, nel periodo a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, allorquando le più importanti forze politiche italiane dell’epoca, rappresentate da Moro e da Berlinguer, furono spinte a confrontarsi seriamente con una «domanda incoercibile e sempre più diffusa di compimento dei diritti di cittadinanza», a partire da una riflessione sul consolidamento della democrazia, da realizzarsi attraverso un’espansione della partecipazione delle diverse forze politiche e sociali. Secondo Aldo Tortorella, l’ipotesi delineata da Moro, attraverso la definizione di una “Terza fase” della democrazia, si muoveva lungo una prospettiva consociativa e non conflittuale, forse criticabile, ma che certamente non fu concepita (come molti hanno ritenuto) per fornire una base a mere operazioni di potere di corto respiro. Anche Giuliano Amato ritiene che la cosiddetta “Terza fase” preconizzata da Moro non vada interpretata come una sorta di cogoverno poligamico, ma come tentativo di adeguare la democrazia a una società già profondamente mutata, attraverso (lo ricorda anche Maria Serena Piretti) la costruzione di una vera democrazia dell’alternanza. Nell’interpretazione di Giovanni Guzzetta, l’idea della “Terza fase” aveva alla base una piena consapevolezza dei limiti e dei rischi della situazione in cui il Paese si trovava in quel momento, caratterizzata da uno «stato di necessità» e di «emergenza» apparentemente senza sbocchi. Attraverso la “Terza fase”, dunque, Moro cercava di delineare una via di uscita in modo da poter stabilizzare il sistema democratico su posizioni più avanzate.
Il percorso di riforma avviato da Moro, che riguardava la forma dello Stato più che la forma del governo, è stato purtroppo interrotto dalla sua morte, con l’effetto di lasciare numerose questioni irrisolte. Ne sono testimonianza, ad esempio, la tendenza – denunciata da Aldo Tortorella – a voler sempre trasformare le maggioranze di governo in maggioranze istituzionali, o la difficoltà, messa in luce da Giuseppe Vacca, di trovare una visione unitaria tra le forze politiche su come affrontare il «crescente dominio della tecnica e dell’economia sulla politica».
Gli schemi interpretativi qui presentati non consentono di dare conto dell’articolata visione della democrazia così come Moro l’ha sviluppata e consolidata nell’arco dei trent’anni che passano dalla sua partecipazione all’Assemblea costituente alla sua morte. Tuttavia, essi quanto meno tracciano, in modo abbastanza coerente, il perimetro entro il quale questa stessa visione ha preso forma e ha cercato di concretizzarsi nell’azione politica.
Il primo schema interpretativo, mettendo in luce il carattere processuale della democrazia, consente di cogliere la distanza che separa la visione di Moro della democrazia, intesa come entità aperta, plastica e vitale perché indissolubilmente legata, nel bene come nel male, alla società, da rappresentazioni che tendono a far coincidere la democrazia con le istituzioni che la dovrebbero incarnare. Certamente, anche per Moro, le norme e le architetture istituzionali sono essenziali, ma – sulla base delle interpretazioni che emergono dai testi – sembra di poter affermare che, per lui, esse non potevano mai essere poste al di sopra della primaria esigenza di consentire al sistema democratico di evolversi con l’evolvere della società nel suo complesso.
Anche il secondo schema interpretativo – quello incentrato sullo Stato costituzionale – sembra identificare uno spartiacque, quello, cioè, tra un’idea di Stato come entità neutrale, priva di valori propri e distintivi e mero arbitro del libero ...