1.
Già mille anni fa
ERA L’ANNO 1051 QUANDO ERA APPARSO QUEL LIBRO, straordinario ma anche terribile, Liber Gomorrhianus. L’autore era un monaco camaldolese, Pier Damiani, grande riformatore e grande moralizzatore; poi creato cardinale, e, dopo morto, proclamato santo. Per la prima volta, in quel trattato di morale, si faceva esplicito riferimento – con la più dura delle condanne – ai sacerdoti che avevano abusato di fanciulli, e alle gravissime conseguenze psico-morali che quelle violenze avrebbero poi avuto sui piccoli per tutta la vita.
Non c’era esattamente la parola “pedofilia”. Comunque, era chiarissimo il senso di quella denuncia; così com’era sconvolgente, se non raccapricciante, la realistica descrizione di quegli amori “efebici”.
L’umanità stava vivendo un momento di estrema effervescenza. Passato l’anno Mille, erano passate anche le paure. Dimenticate le previsioni allarmistiche (fondate sulle pretese parole di Gesù: «Mille e non più mille») su una catastrofe universale. Adesso, tutti avevano una gran voglia di vivere, di cambiare, di inventare il futuro. Al posto delle vecchie strutture del mondo feudale-imperiale, si stava imponendo la società mercantile, caratterizzata da una economia monetaria, dall’urbanizzazione, e quindi, per lo spostamento verso le città, dalla progressiva formazione dei Comuni in Italia. Sbocciava una nuova cultura, nasceva un nuovo umanesimo, un nuovo popolo, una nuova borghesia. Anche se per contro, inevitabilmente, crescevano le povertà, le ingiustizie, le violenze.
A restare fuori, da questo generale processo di rinnovamento, era soltanto la Chiesa cattolica. Corrotta, retriva, lontana mille miglia dal modello evangelico. Gli alti prelati erano presi un po’ tutti dagli interessi economici. “Il Dio non è Trino ma Quattrino”, sussurravano nella Curia romana. Il basso clero, poco acculturato, teneva una condotta moralmente scandalosa. E poi, le eresie, gli scismi, di lì a poco si sarebbe consumato quello d’Oriente. E le ribellioni di intere città contro Roma. I vescovi tedeschi in contrasto tra di loro.
Ma, il problema dei problemi, proveniva dalle continue e sempre più pesanti ingerenze laiche nella sfera ecclesiastica. Ingerenze che sarebbero infine sfociate nella tanto tristemente famosa “lotta per le investiture”.
Mercato del sacro
Sembrerà assurdo, ma tutto era partito dalla vicenda antichissima di Simon Mago, l’ebreo samaritano che aveva tentato di comprare dagli Apostoli il potere di trasmettere i doni dello Spirito Santo. E, per quanto dissacrante, quella vicenda aveva finito con il “contagiare” molti ambienti cristiani. Così, era cominciata una indecente compravendita del sacro e del simil-sacro. Si vendevano e si acquistavano sacramenti, indulgenze, consacrazioni, ma anche giurisdizioni, anche benefici ecclesiastici. Un vero e proprio mercato, ovviamente illecito e, prima ancora, blasfemo; eppure, sempre più fiorente, sempre più diffuso.
Ma gli effetti negativi della simonia, come venne appunto chiamata, non si erano fermati qui. L’Imperatore e molti signorotti locali pretendevano di nominare i propri vescovi, i propri abati. Anche perché, nella società feudale, all’acquisto di dignità ecclesiastiche erano legati sia il possesso o quanto meno l’usufrutto di grandi possedimenti fondiari, sia il diritto giurisdizionale nelle campagne e nelle città. Ed era un intreccio talmente stretto, quello tra potere politicoeconomico e potere ecclesiastico, che ne era rimasta infetta anche la Curia romana, anche i vertici vaticani.
Era stata una delle due battaglie più drammatiche, e difficili, tra quelle condotte dai Papi di quel tempo, in particolare da Leone IX e Gregorio VII. L’altra battaglia, anch’essa pesantissima, era stata quella per il celibato ecclesiastico, la cui osservanza nel clero era inversamente proporzionale al moltiplicarsi delle disposizioni pontificie per imporlo definitivamente. Ma anche qui, per capire come fossero andate le cose, bisogna tornare indietro.
Dal III secolo, con il diffondersi del Vangelo nelle regioni più lontane dell’impero romano, e, nello stesso tempo, per la scomparsa di coloro i quali erano stati i testimoni diretti dell’età apostolica, la comunità cristiana aveva ritenuto opportuno operare una migliore distinzione di ruoli: così, con il termine “clero” erano stati indicati gli addetti al servizio del culto. Alla testa delle diverse Chiese c’erano gli episcopi, coadiuvati dai presbiteri. Ai quali, se sposati, al momento dell’ordinazione veniva chiesto – e poi, via via, imposto – di non avere relazioni sessuali con le mogli.
Concubinato ecclesiastico
C’era stato chi aveva accettato, e chi no. E poi, quando erano stati ordinati nuovi preti, ancora celibi, alcuni avevano osservato fedelmente il celibato; mentre altri avevano contratto matrimonio, oppure – ed erano quelli più numerosi – avevano comunque scelto di vivere con una donna. Dando così inizio a quel singolare fenomeno, che era il cosiddetto “concubinato ecclesiastico”. Chiaramente inviso alla Chiesa ufficiale, osteggiato dai Pontefici (Leone IX era arrivato a confinare le concubine del clero romano nel Palazzo Lateranense), e alla fine stroncato. Ma che era sicuramente la situazione di illiceità meno scandalosa, rispetto allo stato di perversione in cui vivevano tanti sacerdoti: così come aveva descritto per filo e per segno, nel suo trattato, Pier Damiani. (Tralasciando il resto, per pudore, basterà ricordare che c’erano preti i quali nel sacramento della Confessione si assolvevano l’un l’altro del peccato di sodomia.)
Già nel titolo del libro, con quel riferimento a Gomorra, distrutta con Sodoma proprio per la spaventosa corruzione dei suoi abitanti, era evidente tutto lo sdegno di un sant’uomo come il monaco camaldolese, per i comportamenti dissoluti di larga parte del clero. Ma ugualmente significativo era che Pier Damiani avesse dedicato il suo scritto a papa Leone IX: chiedendogli espressamente sia di rimuovere alcuni vescovi, colpevoli di non aver imposto il rispetto della disciplina ecclesiastica a sacerdoti responsabili di atti immorali notori; sia di allontanare dal ministero sacerdotale i preti che si erano macchiati di peccati come omosessualità, matrimonio pubblico, e soprattutto di abusi sui bambini.
E invece Leone IX, che in un primo momento aveva lodato e approvato il libro, non se l’era sentita di prendere provvedimenti disciplinari così drastici; temeva forse di inasprire i rapporti, già profondamente conflittuali, con il clero. Perciò, alla fine, si era limitato a delle censure molto blande, minacciando severi interventi solo in caso di recidiva.
Gregorio VII aveva avuto più coraggio, nel promuovere un vasto rinnovamento religioso e morale. Era riuscito a frenare la nomina di vescovi e di abati da parte delle autorità secolari. Non solo, ma, per combattere apertamente il “concubinato ecclesiastico” e la simonia, il Papa era arrivato addirittura a ordinare ai fedeli di disertare le chiese dove avessero officiato preti “incontinenti” o simoniaci.
Aveva vinto su ambedue i fronti, Gregorio VII. Anche se, per assistere alla cessazione definitiva del “traffico del sacro”, e delle tante forme di penitenza “tariffata”, bisognerà passare attraverso alcune tra le vicende più drammatiche della storia religiosa: il pronunciamento di Martin Lutero contro il mercimonio delle indulgenze, lo scisma d’Occidente, la Riforma protestante, la Controriforma cattolica…
Ma la denuncia di Pier Damiani, la denuncia dei preti che avevano fatto violenza sui bambini? Niente di niente. I Papi moralizzatori si erano occupati di tutti i mali della Chiesa, si erano battuti per estirpare gli abusi del clero corrotto, ma avevano completamente ignorato quella che era una autentica bestemmia contro Dio. Perché? Come riuscire a spiegarlo?
Un male antico
Bisogna partire da un dato di fatto. Disgustoso, ma vero, reale.
La pedofilia era da sempre una piaga della società umana, in particolare di quella familiare. E forse proprio per questo, per l’orribilità da cui era circondata, non aveva neppure un nome preciso; era rimasta nascosta nelle viscere dell’umanità. Senza che chi commetteva quell’atto immondo provasse un senso di colpa o almeno ne percepisse la gravità. E senza che chi veniva a saperlo riuscisse a superare la vergogna di essere “depositario”, per quanto involontario, di una simile malvagità.
Dunque, da sempre, esistevano dei pedofili. Persone psichicamente immature, attratte eroticamente da esseri più piccoli, perché più deboli, più remissivi. Ma adesso – a partire perlomeno dall’accusa di Pier Damiani – era venuto alla luce che c’erano anche dei sacerdoti ad avere delle pulsioni sessuali perverse verso soggetti impuberi, verso bambini. Sacerdoti che tradivano un impegno sacro, spirituale, un impegno accettato, sottoscritto, nel nome di Cristo. Sacerdoti per i quali – come già si leggeva nel Vangelo – sarebbe stato meglio “essere gettati in mare con una grossa pietra legata al collo”.
Era il 1051. Più di mille anni fa. Per la prima volta – quanto meno in maniera così esplicita, così pubblica – si era saputo dell’esistenza di tutto questo fango, e non si era fatto nulla. La Chiesa ufficiale non aveva fatto nulla. Anche perché impegnata, a quel tempo, in tutt’altre imprese.
Diventata ormai un vero e proprio Stato, al pari delle altre potenze temporali, dei regni, degli imperi, la Chiesa latina d’Occidente aveva cominciato ad impiegare gli stessi metodi, gli stessi strumenti. E anche le armi. Per combattere i nemici, per nuove conquiste. Legittimata, in più, dalla convinzione che fosse Dio a ordinarglielo. «Deus vult», aveva gridato papa Urbano II, nel novembre del 1095, di fronte a una folla immensa, esaltata fino al parossismo, nella pianura di Clermont.
Era l’indizione solenne della prima crociata.
2.
L’abuso di un potere “sacro”
ERA NATO IN SPAGNA, GIUSEPPE CALASANZIO, e proprio durante una delle tante drammatiche sospensioni del Concilio di Trento. Nella sua patria, si viveva del mito di Cortés e dei Pizarro; e, a quel tempo, a nessuno era ancora venuto in testa qualche dubbio sui modi, un po’ brutali, con i quali i missionari al seguito dei conquistadores avevano convertito il “nuovo mondo”.
Frattanto, ripresi i lavori del Concilio tridentino, divampavano i dibattiti all’insegna di una estrema intransigenza. E già si poteva intuire come il rinnovamento, tanto atteso, non si sarebbe ridotto, questo sì, a una “religiosità senza carne”, solo regole esteriori, come temeva Erasmo da Rotterdam; ma neppure avrebbe ricostruito l’unità cristiana, né avrebbe spalancato le porte della Chiesa cattolica all’umanesimo invocato dal Rinascimento.
E così, il Calasanzio era cresciuto, maturato, e diventato prete, in pieno clima controriformistico. Ma senza restarne prigioniero. Senza farsi attrarre dalle diffuse voglie di rivincita nei confronti del protestantesimo. E scegliendo invece una delle correnti rinnovatrici – quella apostolico-caritativa – che avrebbe poi portato allo spuntare di un altro grande ramo della vita religiosa: dopo gli Ordini monastici, dopo quelli mendicanti, ecco i Chierici regolari.
Il trasferimento a Roma fece il resto. Calasanzio si immerse nella realtà religiosa ma anche sociale della città, già ferita gravemente dalla peste, dalla inondazione del Tevere. Scoprì quelle torme di ragazzini urlanti, laceri, affamati, che giocavano per i vicoli di Trastevere. E non ci mise molto a capire che per farli crescere degnamente, quali veri uomini, sarebbe stato necessario, oltre che fargli apprendere la dottrina cristiana, anche insegnar loro a leggere, a scrivere, a far di conto, e a come rispettare le regole del vivere sociale.
La prima scuola popolare
Cominciò con due stanzette nella chiesa di santa Dorotea, e che subito si riempirono, ogni giorno, e quindi ci fu bisogno di altro spazio. Incredibile! Da lì nacque la prima scuola popolare gratuita d’Europa. Nacquero le Scuole Pie, un po’ in tutta Italia e anche fuori, in Moravia, in Polonia. Infine, nacque l’Ordine degli Scolopi, pensato dal Calasanzio proprio sul modello dei Chierici regolari: religiosi che avrebbero esercitato il ministero sacerdotale, a partire dalla vita in comune e dalla professione dei consigli evangelici.
Fu l’inizio di una esperienza straordinaria. Ma anche, purtroppo, l’inizio di una serie di sofferenze inaudite. Vuoi per crisi interne, provocate dai religiosi laici che volevano più potere e da maestri che erano poco costanti. Vuoi per gelosie di alcuni dei maggiori collaboratori, a cominciare da padre Mario Sozzi, una serpe in seno all’Ordine. Vuoi per l’opposizione – diciamo così, “ideologica” – di forze antisociali e antidemocratiche.
In più, allora, infuriava l’Inquisizione romana, che esercitava un controllo severissimo non solo sull’ortodossia della fede ma anche sull’ordine civile. E Calasanzio era già inviso a molti prelati dell’istituzione, i quali non gli perdonavano la stretta amicizia con Galileo Galilei, più tardi accusato espressamente di eresia e condannato alla prigione perpetua. (E, per un certo verso, gli andò bene, visto che Giordano Bruno era stato bruciato vivo a Campo de’ Fiori.)
E non era soltanto per i rapporti con Galileo. Calasanzio fu portato davanti al tribunale del Sant’Offizio, sotto l’accusa – chiaramente falsa, inventata da zero – di aver opposto resistenza all’autorità ecclesiastica. Venne perciò deposto da superiore degli Scolopi (ridotti, da Ordine religioso, a Unione libera), offeso, umiliato. E, solo dopo che morirà, soltanto allora, si decideranno a riconoscere la sua meravigliosa opera di pedagogista. La sua profonda umanità. La sua esemplarità evangelica. E, di conseguenza, la sua santità.
Ma, fra tutte le prove che dovette ingiustamente subire, Giuseppe Calasanzio si portò sempre dietro il ricordo di una vicenda veramente dolorosa, amara. Una vicenda emblematica di quegli anni così contraddittori, così tormentati, che stava attraversando la Chiesa cattolica. Anzi, sarebbe più onesto dire, la gerarchia della Chiesa cattolica.
Un giorno, quand’era ancora alla guida dell’Ordine, Calasanzio venne a sapere delle violenze sessuali compiute sugli alunni di una delle Scuole Pie, a Napoli, dallo stesso religioso che dirigeva quell’istituto. Si chiamava Stefano Cherubini. Avute le debite conferme, e sempre con grande discrezione, Calasanzio sospese il religioso, e istruì un processo (che era infatti interno, e non pubblico) su di lui. Ma Stefano Cherubini aveva un fratello, Fabio, che era un potentissimo monsignore della Curia vaticana. E Fabio Cherubini convocò immediatamente il Calasanzio, e con fare arrogante gli disse che, se la cosa fosse andata avanti, se il processo si fosse fatto, a rimetterci, anzi, come precisò minaccioso, a passare guai, sarebbe stato non il fratello ma l’O...