L’alba di un secolo
Sofia
Nacqui a Verona il 6 giugno del 1898, nella piazza San Zeno dominata dalla chiesa del Santo. In una casa situata tra il vicolo Broglio e il vicolo Abbazia.
Era un giugno rigoglioso e mio padre indugiava con i gomiti poggiati alla ringhiera del balcone fiorito e con le mani si reggeva la faccia aspettando che l’Adalgisa gli portasse notizie fresche sull’andamento del parto. Che si presentava faticoso e mio padre temeva che quel bisquit di sua moglie potesse andare in frantumi ad ogni contrazione.
Lei così delicata, cagionevole persino, non riusciva proprio a immaginarla nello sforzo di spingere fuori da sé qualcosa che le opponeva resistenza.
Paventava anche la sua maledizione quando avesse realizzato che il colpevole di tanto strazio era lui, proprio lui.
Conoscendola era certo che gli avrebbe serbato rancore eterno insieme al frutto della loro intima conoscenza.
D’altronde l’Adalgisa quando si affacciava per gli aggiornamenti ne approfittava per tirare un grosso respiro strabuzzando gli occhi e non era per nulla rassicurante: – Dio, sembra che non voglia venir fuori, non va bene, non va bene, la levatrice è una incompetente e nel mestiere ci mette tutta la cattiveria… le farà uscire il bambino dagli occhi… se non li ammazza prima tutti e due… –
E lui fremeva per il raccapriccio ma non osava fare capolino perché coltivava la segreta speranza che lei, non vedendolo, avrebbe dissociato i dolori dalle sue pretese matrimoniali peraltro sempre misurate.
Si sarebbe presentato a cose fatte, orgoglioso e travolgente, dandole tutto il merito come se il suo contributo a tutta la faccenda fosse stato irrilevante.
Ma l’oste del “Calmier” che sfaccendava intorno ai tavolini proprio sotto il poggiolo, lo distolse dal pensiero di quel figlio benedetto che tardava a nascere con un tiro di voce, diretto come una pallina da tennis.
Si parlavano spesso da casa a strada in maniera confidenziale, senza neppure alterare il tono della voce tanto erano vicini, semmai la diversa altezza li aiutava a conciliare le differenze sociali senza dover ricorrere ad altri salamelecchi.
– Sentito, professore? –
– Cossa? Sentito cossa? –
– Di Milano!!… Si parla di mille morti, forse di più! Ma come si fanno a contare mille morti! È una enormità. –
– Ma chi lo dice? Chi parla di tutti ’sti morti, struccon di un oste? –
– Dunque non sapete niente! In città non si parla d’altro… –
– Certo che non so niente! Mi sta nascendo un figlio, perdindon! Un figlio recalcitrante, non avete visto la levatrice? –
– L’ho vista, ma pensavo che fosse tutto risolto. Da ier sera che l’ho vista! Ma insomma, volete sapere o no quel che accade a Milano? –
– Certo che voglio sapere, dite, son qui, benedetto! –
– C’è lo stato d’assedio. – L’oste si coprì la bocca con le mani e abbassò la voce – È intervenuto l’esercito a sedare i tumulti –
– Che tumulti? – urlò mio padre.
– La folla s’è gonfiata all’improvviso per l’uccisione di uno studente di Pavia e allora il Governo ha mandato il Generale Bava Beccaris a cannoneggiare la città. Tutti indistintamente, facinorosi e innocenti. La città. –
– Che dite? Tutta Milano con la gente dentro? –
– Tutto un pastone. Un cugino di mia moglie s’è trovato a passare dietro le barricate di Largo Foppa e ha visto i cristiani sul selciato, le vecchie, i ragazzi. Ha visto cannoneggiare un palazzo, i muri sbriciolarsi e un frugoletto dietro una finestra cancellato da una nuvola di fumo. –
– Teste calde. Bisognerebbe raffreddargli la testa ai Generali prima di dargli i galloni. –
– Parole Sante, professore! Cannoni contro i cristiani, Dio voglia che un simile scempio non debba ripetersi più nei tempi a venire. Abbiamo toccato il fondo. Una volta si sparava in aperta campagna e ci si teneva ben larghi dalle case! – si indignò l’oste strofinando un bicchiere a calice e poi soffiandoci dentro per rimirarlo con gli occhi stretti a fessura, in controluce.
– Sì, va ben, va ben. Ma questo non è il momento di riflettere. Sto per avere un figlio. –
– Sacrosanto. Un figlio è un ospite atteso ma di lui non si sa niente. Sarà migliore la nostra vita con il suo arrivo? O peggiorerà? –
– Dio ce ne scampi… –
– Dicevo così… –
Il mio primo vagito risuonò nella Piazza assieme alle campane di mezzogiorno, nell’eco delle cannonate di Milano.
– È nato. – sussurrò mio padre all’oste gongolando dopo una breve assenza concitata.
– Ben. –
– Mi è nato un figlio femmina. – L’oste sorrise scuotendo il capo. In tempi bui, quando sembra che il Medio Evo riprenda il sopravvento non si sa cosa augurarsi. Un figlio per spalare la neve d’inverno o una figlia per riempire il silenzio della casa?
Nacqui in un paese giovane senza una fisionomia precisa.
I primi temporali erano solo un assaggio dei devastanti conflitti sociali che avrebbero mutato presto per ogni rango i segni di riconoscimento.
Che per un gentiluomo erano il bastone e le ghette inamidate, la croce di commenda sulla pettorina, il cilindro per mascherare la calvizie dove avevano fallito le lozioni a base di petrolio. E un gentiluomo così abbigliato era una garanzia di integrità e di buon costume.
Le signore indossavano abiti color tortora con l’orlo bianco, i colletti alti e arricciati sotto il mento, i cappellini di feltro con le piume.
E una signora così abbigliata era una garanzia di morigeratezza e aspettative concrete. Si poteva giurare che non sognasse di meglio che una decorosa famiglia.
Naturalmente non ho ricordi di quel tempo e non posso testimoniare personalmente che il mondo avesse proprio questi colori, però mi sento come se ci fossi entrata tutta intera, come se avessi una memoria precisa dell’insieme e mi ritrovo a provare una struggente nostalgia.
Non di qualcosa che ho perso ma di qualcosa che ho cominciato mentre era già alla fine. Con la mia nascita ho battezzato un tempo in agonia.
Ho respirato la penombra del crepuscolo nell’ora azzurra delle streghe, tutto quel buio intorno alla fiammella delle candele a sera inoltrata e tutti quei fantasmi che di notte prendevano vita improvvisamente.
Si diceva che erano i morti che tornavano a girare per la casa a controllare che tutto fosse ancora come l’avevano lasciato e impedire che gli oggetti che avevano più a cuore finissero nelle mani sbagliate.
La notte della mia infanzia era paurosa e senza scappatoie, i bambini se ne stavano sotto le gonne delle mamme e l’alba era una liberazione, ci si contava come durante un assedio, il buio era un nemico che limitava il tuo spazio, ingrossava il tuo spavento.
E poi ancora il silenzio.
Quel silenzio non era assenza di rumore, no, era fatto di tante voci isolate, echi di voci, tosse, risate, richiami, note di pianoforte, pioggia, passi, il cigolio di una imposta, l’abbaiare di un cane. Suoni staccati che nessun rombo, brusìo o frastuono di fondo riusciva a incollare insieme.
Ecco, il silenzio del mio principio era assolutamente privo di rumori di fondo, i suoni erano appesi al filo della comunicazione come panni al vento, ogni suono era riconoscibile ed era impossibile che il tuo cervello non lo registrasse, ne prendesse distrattamente nota, lo facesse suo.
Il silenzio della mia infanzia era fatto di voci, risate, richiami gioiosi allarmati o perentori, cronache di piccole faccende che ti coglievano nel dormiveglia del mattino mentre eri ancora sotto le coperte.
Nel silenzio di quei risvegli non mi sentivo mai sola.
Cecilia
Settembre 1986
Si sporse dal finestrino del rapido Roma-Verona per un ultimo saluto a suo marito prima della partenza.
Non era mai partita senza di lui e a pensarci bene non aveva mai viaggiato da sola neppure da ragazza.
Solo quella volta che aveva lasciato a Merano la sua famiglia per lui. Aveva venti anni, a Roma aveva un lavoro stagionale alla Kodak e una stanza in un pensionato di suore brasiliane. E Giorgio, naturalmente.
Aveva viaggiato tutta la notte in uno scompartimento vuoto. Con l’inquietudine di aver rinunciato alla tutela paterna e l’eccitazione di ritrovare Giorgio. L’infanzia e la maturità, il passato e il futuro, in uno scompartimento, sullo stesso binario prima di divaricarsi per sempre.
Suo padre era il Colonnello Comandante del Savoia Cavalleria e non riusciva a capacitarsi che lei preferisse guadagnarsi la vita piuttosto che godere i privilegi di Corte come figlia di un Re.
Perché il comandante del leggendario Reggimento, quello che si era guadagnato la medaglia d’oro allo Stendardo nella Carica di Isbuschenskij sulle rive del Don contro un reggimento russo in trincea, era considerato un Re.
Cecilia a venti anni rinunciava al baciamano, al saluto sull’attenti quando entrava con suo padre in foresteria, alla corte degli ufficiali migliori per un futuro nuovo di zecca con uno studente di economia che aveva conosciuto all’Università. Su una scalinata della sua Facoltà per essere precisi, quel giorno lei fuggiva da un esame di etnologia dopo una attesa snervante, perché era sicura che le toccasse l’Assistente del Professore, quello comprensivo, distratto e invece ohibò, stava per chiamarla proprio lui, il Famigerato, certo, fuggiva. Era la cosa migliore da farsi.
In queste angosciose circostanze si era imbattuta fisicamente in Giorgio, emigrato momentaneamente dalla Facoltà di sua pertinenza, che fermò la sua vigliacca volata con un opportuno richiamo al dovere, dove scappi ragazza? Scappo dal Famigerato, affrontarlo sarebbe un suicidio. Male, se adesso scappi, non ti fermerai più. Vuoi davvero una esistenza di fughe? Già. Come era perfetto, provvidenziale, saggio, questo Giorgio. Uno da cui imparare.
Perciò non aveva resistito a lungo lontana da lui, a Merano, nonostante lo sfarzo e i baciamano ma poi, quello da Merano a Roma era stato il suo ultimo viaggio da sola. Forse, l’aveva vissuto, quell’abbandono precoce del tetto paterno, come Alto Tradimento.
In seguito si era sposata, aveva generato due figli, si era occupata di loro tre a tempo pieno senza altre fantasie.
Giorgio adesso la guardava, dalla pensilina, con le mani in tasca, lo sguardo obliquo, un po’ sornione, di chi ti permette magnanimamente di partire, per un capriccio, verso il nulla.
Sì, certo, lei gli aveva spiegato che andava a cercare nonna Sofia e che voleva cominciare proprio da lì, la città dei suoi natali. Ma naturalmente la cosa non stava in piedi e se non l’avesse vista tanto determinata, la prima volta così, ci avrebbe riso e le avrebbe smontato tutto l’impianto del ragionamento senza tante storie. Ma no, lei voleva andare proprio lì, a Verona, glielo diceva l’istinto.
Ma adesso, a vederlo così, sotto la pensilina, incazzato e divertito insieme era per lei una scoperta. Aveva trovato il tempo di accompagnarla alla stazione, lui così oberato di impegni, e non li aveva neppure elencati, durante il tragitto, riunioni, consigli di Amministrazione, seminari, tornei di tennis.
Aveva semplicemente guidato in silenzio, le pareva senza respirare e le aveva poggiato una mano sulla sua.
Fine estate, cielo terso, fondo. Il tempo per cominciare qualcosa, comprare lo zaino nuovo e il diario ai figli, il tempo per rimettersi in pista.
Troppo zelante quella scorta per non suggerire che lui considerava quel viaggio un’idea bizzarra ma anche vagamente illecito.
Chissà come le era nato quel progetto nella testa; Cecilia pensava che somigliasse alla suggestione di uno scrittore, quella che lo spinge a raccontare una storia che, apparentemente, non c’entra nulla con la sua vita.
Lo scrittore entra nella sua trama come lei era salita sul treno, con la stessa curiosità e trepidazione. Povero Giorgio che aveva fatto della logica e della pianificazione una religione e non c’era nessuna logica nella sua decisione di partire,...