Capra e champagne
Viaggiatori inglesi dell’Ottocento, biondi, occhi azzurri, camminatori instancabili e senza paura percorrevano la Valle d’Aosta e si chiedevano come fosse possibile che in una natura così gloriosamente bella, sotto montagne eccelse e ghiacciai, tra vigneti e frutteti si aggirasse una umanità cenciosa e selvatica. Me lo chiedo nella piana di Gioia Tauro dove ci sono gli uliveti più belli e antichi d’Italia, alberi alti quindici, venti metri e sotto quel tetto argenteo, l’oro degli agrumeti, aranci e mandarini profumati e sotto ancora, in un mutar di verdi e di marroni, gli orti, i rampicanti, i prati d’erba tenera già fioriti di margherite a marzo. Anche le reti di nylon per la raccolta delle olive, altrove orrende, ci stanno nel grande incantesimo, le bianche come rugiada posatasi sulle rasole, le azzurre come il manto della fata turchina, le rose come l’aurora omerica «dal dito di rosa». Ai coloni greci questa oasi chiusa fra le montagne aspre e boscose dell’Aspromonte dovette apparire come la terra promessa, e ora come in un medioevo feroce vi dettano separata legge le cosche mafiose con pieno potere e crescente ricchezza. Arroganti, rozze, pronte a uccidere donne e bambini, ma il terrore chiude le bocche, è raro che uomini politici, sindacalisti trovino il coraggio per esecrare, per denunciare.
Devo incontrare a Taurianova il senatore comunista Argiroffi che vive qui da quarant’anni, superstite di una borghesia colta che assiste allibita, disperata al regno dei barbari, dei violenti astuti, degli ignoranti arricchiti. Fuori è già primavera, ma il camino di casa Argiroffì è acceso, ardore rossastro di brace sotto un grande olio di una dama di corte austriaca, in veste ricamata bianca, la madre di mia madre, dice il senatore che ha settant’anni, vive con la sorella, un comunista liberale che scrive poesie e non sa staccarsi da questa terra.
«Senatore, sa cosa mi ha detto a Reggio l’avvocato Medici, quello a cui hanno sequestrato e ucciso un fratello? Noi che abbiamo avuto i privilegi di questa terra dobbiamo pagare il prezzo della storia, dobbiamo restarci come i patrizi romani che non fuggirono a Bisanzio, che rimasero nelle città e nelle campagne italiche». «È molto bello quel che mi sta dicendo, qualcosa che sento profondamente» dice il senatore. «Che cosa è mai un paese senza storia? Ma questi voltano le spalle alla storia, la ignorano, la odiano. A volte ho l’impressione che sia avvenuta una mutazione genetica, che sia uscita dalla foresta una umanità selvaggia. Ha sentito parlare di Rocco Zagari che fu ucciso qui a Taurianova sulla poltrona del barbiere come il gangster Anastasia? Quando arrivai qui dalla Sicilia, quarant’anni fa, era comunista, mi aiutò a trovar casa, fra i primi, sempre, nelle lotte contadine. Ma un giorno venne da me, posò la tessera sul tavolo e disse: «Con voi ho chiuso». Da quel giorno non scambiammo più parola. Dio mio che scempio di vite umane. Ho visto il suo cadavere e il cadavere di suo figlio in un campo, già roso dai topi, un giovane bellissimo, e le mattanze fra le cosche, a Giuseppe Grimaldi staccarono la testa e la lanciavano in aria per il tiro a segno. Ne sono caduti di tiranni su questa terra, Franco, Pinochet, Batista, Peron, Pol Pot, è caduto il muro di Berlino, ma Francesco Macri tiranno di Taurianova no, dovrebbe stare in galera da mesi ma sta nascosto qui da qualche parte, forse alla tonnara di Palmi, forse in casa di un suo parente, ma nascosto o in galera Taurianova resterà un suo feudo, le figlie, i loro mariti, i cognati, i nipoti occupano i posti di potere, l’intero apparato sanitario è nelle loro mani».
Francesco Macrì detto Ciccio Mazzetta: un personaggio anomalo, un sopravvissuto del notabilato, uno dei pochissimi notabili che si sia adattato alla Calabria delle cosche mafiose, come per decenni Lima in Sicilia, imponendo la sua superiore arte del far politica, di tenere i rapporti con Roma, di essere l’uomo dello sportello, quello a cui arrivano i soldi. E con i soldi a Taurianova si fa il bello e il cattivo tempo: seicento occupati, una minoranza in mezzo ai mille disoccupati, i tremilacinquecento pensionati e invalidi, i settemila poco o nulla facenti. La campagna nelle mani dei grandi mafiosi, i piccoli proprietari superstiti in loro balìa, che fai se ti rompono il trattore, se ti tagliano gli ulivi? Tacere devi, accettare i prezzi che ti impongono. Ma Ciccio Mazzetta no, lui qualcosa da opporre ai mafiosi ce l’ha sempre avuto, il partito di governo, la Democrazia cristiana, quei tre o quattromila voti di preferenza per cui tutti i leader calabresi del partito hanno dovuto comparire al suo fianco, sul balcone di casa Macrì, in piazza Macrì. Non mafioso, ma necessario ai mafiosi. In trenta e più anni don Francesco Macrì non si è mai accorto dell’esistenza delle cosche, non ha mai denunciato la crescita della mafia ma ha sempre tirato le fila del potere. Si sono provati a fare a meno di lui, hanno fatto una loro lista, «La sveglia», una sveglia a suon di lupara, ne facevano parte uomini come Marcello Romeo del clan degli Avignone, Marcello Viola e altri del clan Zagari, tutti uomini di rispetto ma poco pratici di Ussl e di municipio. Li ha costretti a tornare nel partito madre, ha ridato alla Democrazia cristiana nelle ultime amministrative dell’88 il 50,4 per cento dei voti e si è tolto il gusto di gridarglielo in faccia ai suoi concittadini sudditi: «Se non fosse stato per me Taurianova si sarebbe spopolata, voi sareste chi sa dove e invece tutti avete una casa, il televisore, gli elettrodomestici e cibo assai».
Il senatore attizza il fuoco nel grande camino, aiuta la sorella a servirmi il caffè, è alto il senatore con gli occhi azzurri e ora sembra parlare a se stesso. «Ma come è possibile che questo ignorante sia stato più forte della giustizia, dei contadini e degli operai, dei presidenti della repubblica che non sono riusciti a cacciarlo? Nascosto o in galera comanderà ancora, scriverà ancora i manifesti elettorali, gli ukase municipali, il suo clan è sempre fortissimo, sua sorella...».
«Quella pure bestemmia» dice rapida la sorella del senatore, che la zittisce: «Questo non c’entra, questa è un’altra cosa. Qui è come se fossimo fuori dall’Italia. Quando hanno ucciso a Lamezia il maresciallo di polizia Aversa lo stato si è presentato anche da queste parti, sono venuti Cossiga, il ministro della Giustizia Martelli, quello degli Interni Scotti, hanno inaugurato un commissariato di polizia che è come se non ci fosse».
Restare a Taurianova? Pagare il prezzo della storia? Già, ma come dice il giudice Misiani che è di qui: «In secoli di storia Taurianova non era riuscita a produrre un uomo noto, non lo era nemmeno lo scrittore viaggiatore Giovanni Francesco Gemelli Careri. Ora tutta l’Italia conosce Macrì Francesco. Ha vinto lui. A Taurianova non c’è l’abusivismo edilizio ma lo spontaneismo, la concessione edilizia è un optional, la politica dei sussidi ha rafforzato la cultura del servilismo e della rassegnazione». Gente dura i Macrì e garantista, come no? Olga Macrì sindaco di Taurianova ha avuto parole di fuoco contro il governo liberticida che commissariava il Comune.
Ora mi aspetta Gioia Tauro dove torno per la quarta o la quinta volta, sempre attendendomi il peggio. La prima fu molti anni fa quando il centro-sinistra gonfiava le sue vele e le nostre illusioni in una Italia riformata, in un Mezzogiorno rinato. Ma come facevamo ad essere così ingenui, a non vedere chi ci stava attorno, a pensare che quel che non era stato possibile nei secoli lo sarebbe stato per noi, i riformisti, i modernizzatori? Ricordo un pranzo elettorale dove c’erano Giacomo Mancini e Enrico Mattei, l’uomo della nuova frontiera. Allora ero il giornalista di punta del «Giorno», il suo giornale, il giornale dell’Eni, così mi avvicinai al suo tavolo per salutarlo. Lui si alzò a stringermi la mano e diceva, da partigiano: «Questo è uno che spara». E ci stringevamo le mani, io di Cuneo e loro di Reggio, di Bova Marina, di Cosenza, sicuri di aver vinto, di essere ormai entrati nella nuova storia, che erano mai di fronte all’Italia del lavoro e delle riforme quei quattro mafiosi della piana? Sì, ho sparato molto, allora e poi, ma con un fuciletto di latta che ai Francesco Macrì e ai Piromalli non faceva neppure il solletico. Allora, a Gioia Tauro, Mancini voleva dare il quinto centro siderurgico e come abbia potuto un calabrese conoscitore profondo della Calabria pensare di poter paracadutare una grande azienda proprio nella plaga più mafiosa della regione sembrerà oggi uno dei misteri dolorosi del profondo sud, ma allora Mancini ci credeva davvero, ricordo i suoi occhi quando se ne parlava in un ristorante della marina, più seminavo dubbi e più gli ero caro, assaporava già la gioia di quando mi sarei ricreduto, di quando sarei venuto giù da Milano per vedere il sud rinato, la Calabria rinata. Non si erano neppure accorti, il buon Mancini e gli altri che ridevano, mi stringevano la mano, mi abbracciavano che la crisi mondiale della siderurgia galoppava incontenibile, che presto anche noi avremmo dovuto smetterla con quella foia metallurgica. Scesi di nuovo a Gioia a vedere come andavano i lavori ed era già il disastro, avevano già abbattuto centinaia di ettari di ulivi e centinaia di camion muovevano come scarafaggi sull’immensa piana giallastra nel polverone. Li avevano comperati i Piromalli, signori della mafia, con i miliardi del sequestro di Paul Getty jr. A loro, potentissimi, i miliardi, alla manovalanza dell’Aspromonte le briciole. Il taglio degli ulivi aveva denudato e sfigurato la piana, la sua mafia che prima si nascondeva sotto il tetto argenteo degli ulivi ti veniva incontro allo scoperto con i suoi camion, i suoi sorveglianti armati che seguivano il forestiero con le loro automobili, taciturni e minacciosi. Gioia era già orrenda, un ammasso di case e casoni, ultimate e rifinite quelle dei boss, in perenne costruzione quelle dei soldati e dei clienti. Il centro siderurgico come era prevedibile non lo fecero, del grande progetto rimase il porto, allucinante, un bacino lunghissimo a forma di fagiolo, protetto da enormi falli in cemento, frangiflutti, migliaia di possenti falli in cemento puntati contro il cielo della Calabria in cui il pittore Enotrio Pugliese dipinge sempre degli uccelli «per riempire un po’ quel vuoto terso». Mi è capitato di passare delle ore nel deserto del porto e mi sembrava di essere sull’Isola di Pasqua o sulle Ande, in quei luoghi misteriosi dove una civiltà dei giganti ha lasciato i suoi segni. Il porto è costato novemila miliardi. È usato solo di notte dai contrabbandieri.
In uno dei miei viaggi andai a trovare il sindaco di Gioia, sindaco per volontà di Mommo Piromalli di cui era il medico di fiducia, Vincenzo Gentile, un uomo cortese, afflitto più che arrogante. Mentiva con melanconia, la stessa melanconia di quel ministro tagiko che ad Alma Ata, sorvegliato da due funzionari russi, mi aveva mentito sui raccolti, sulle fabbriche, sugli ospedali, su tutto. E quando la gente è costretta a mentire in modo così spudorato, così manifesto la voce le vien fuori bassa e atona. «Nulla mi risulta – diceva la voce di Vincenzo Gentile – circa la presenza della mafia nei lavori di sterro per il quinto centro siderurgico». «Ma signor sindaco, lo sanno tutti che i camion erano dei Piromalli, che qui non muove foglia che i Piromalli non vogliano». «Nulla mi risulta - diceva la voce di Gentile con tristezza ultimativa - in ordine alla influenza della mafia nelle attività amministrative». Non volevo credere che un signore cortese, un medico fosse così schiacciato dalla paura ma ora il procuratore Cordova, che va diritto al nocciolo, mi ha spiegato: «I testimoni non corrono il rischio di dichiarare il vero quando dichiarando il falso al più possono incorrere nell’arresto per loro di gran lunga preferibile a un colpo di lupara». Ma con Gentile non stava solo così, credo, fra Gentile e i Piromalli non c’era solo la violenza e la paura: era il medico di famiglia.
E in fondo dire a Gioia che la mafia non c’era era come dire che c’era come lo diceva il direttore del Jolly Hotel quando andarono da lui i sindacalisti della Cgil regionale che volevano tenere un congresso nell’albergo e lui li avvertì: «Per me va bene, ma parlatene con don Mommo». I Piromalli nella piana sono una monarchia, hanno il controllo militare del territorio, esercitano la giustizia, ho visto con i miei occhi la gente di Gioia in coda davanti alla casa del boss, nel giorno fissato per rimettere al suo inappellabile giudizio contese, questioni familiari, bisogni. Gente andata a scuola con lui o con i suoi figli, da rispettare sin dalla più tenera età perché destinati a un comando ora bonario ora feroce, fondato sul consenso come sulla forza. Negli anni di ascesa della dinastia, fra il ’74 e il ’77, ci furono in provincia di Reggio 233 omicidi. Discendenti di pastori, rozzi e intelligenti, capaci di essere incomprensibili e arcaici, come le memorie del loro sangue e affabili, diplomatici. «Durante l’ultimo processo - ricorda il giornalista Pantaleone Sergi – si scherzava con don Mommo, un bel signore con gli occhiali montati in oro e un cappotto di cammello. Eppure era lo stesso che festegg...