Otto
«Ieri ho battuto la fiacca» spiegavo alla señora Valdivieso, che nel patio della pensione mi stava servendo caffè e churritos, «devo recuperare un po’ di terreno, se voglio consegnare per tempo la mia roba. Lavorerò tutto il giorno. Posso contare su di lei per la cena?»
«Riso alla cubana» mi rassicurò la dueña, mettendomi nel piatto un altro churrito. «Ora vado alla tiendita a fare un po’ di spesa» volle informarmi «forse anche lei ha bisogno di qualcosa. Non dica birra o liquori: quelli dovrà procurarseli da solo».
Mandai giù il boccone e risposi: «Grazie, señora. Proprio ieri sera ho finito lo shampoo».
Volevo davvero concludere prima possibile il lavoro di quel mese. Non che fossi in ritardo sul termine di consegna, che sarebbe caduto di lì a quattro giorni. Morivo dalla voglia di conoscere il seguito della storia del Brujo, tutto qui. Se fossi riuscito a far fuori in giornata tutto il lavoro che restava, sarei potuto tornare dal vecchio già l’indomani, magari anche i giorni seguenti.
Alla señora Valdivieso, ad ogni modo, meglio non dire niente delle mie visite al Brujo. Lei era intrippatissima di questioni religiose. Roba moderna, tipo angeli-della-fratellanza-della-rivelazione-miracolista. Fatto sta che la señora riempiva di volantini di propaganda non soltanto l’Hospedaje Esmeralda, ma ne seminava mazzetti in ogni angolo del villaggio. Meglio nemmeno nominarlo, uno come il Brujo. Non volevo giocarmi caffè e churritos, e gli altri piccoli privilegi che la dueña mi concedeva.
Procedevo spedito. Dopo quasi quattro ore di play-pause-tastiera, play-pause-tastiera, decisi di prendermi una pausa e farmi una pilsener. Nella cucina della pensione c’era un grande frigorifero in cui i clienti potevano lasciare la roba. A patto di infilarla in un sacchetto e scriverci sopra il proprio nome. Un paio d’anni prima, mi aveva detto la dueña, due ragazzi si erano presi a coltellate per mezza lattina di coca. Quei due coglioni viaggiavano insieme. La señora Valdivieso volle anche dirmi da quale maledetto paese venivano i duellanti. Ma terrò questo dettaglio per me. Si fa presto a venire male interpretati.
Ad ogni modo, torniamo alla mia sete di birra.
Premetti pause per la millesima volta e mi alzai per scendere in cucina, quando sentii la dueña sbraitare: «Le ho già detto che non ci sono stanze libere e le ripeto che nel mio albergo non c’è nessun ragazzo italiano».
Silenzio.
Evidentemente l’interlocutore usava un tono di voce assai più pacato di quello della señora.
«Non mi interessa cosa le hanno detto nei bar dove è andata a domandare. Gli ubriaconi sanno solo mentire. Non c’è nessun italiano qui, come glielo devo dire? Se ne vada».
Altro silenzio. Peccato non conoscere metà delle battute di questo dialogo.
«Insomma, se ne vada, signorina. Non mi costringa a chiamare una guardia».
A quel punto la compostezza dell’interlocutore, che ora sappiamo essere un’interlocutrice, venne meno.
«Sauro!» sentii chiamare. «Ti prego, vieni a darmi una mano con questa gentile signora». Chi aveva parlato, l’aveva fatto in italiano.
Uscii sul ballatoio e guardai in basso. Ai piedi della scala che saliva dal patio, la dueña, a braccia aperte, bloccava il passaggio alla ragazza con le All Star bianche basse.
«Martina!» gridai.
«Ehi, Sauro. Ci sei, per fortuna» fece lei, sempre in italiano. «La tipa mi stava giusto dicendo che non ti conosce».
La dueña non si mostrò per nulla imbarazzata: «Señor Sauro, non volevo che la disturbassero mentre lavorava. E inoltre non sapevo che aspettava visite».
«Nessun problema, señora. Tutto risolto» dissi, scendendo le scale per andare incontro a Martina.
«Ad ogni modo, stanze libere davvero non ne abbiamo. Mi spiace, señorita, dovrà sistemarsi altrove».
«Solo se il señor Sauro non vorrà ospitarmi».
Un sogno.
«Ma questo non è possibile. Lui ha sempre così tanto lavoro da sbrigare» tentò ancora la dueña. E poi, rivolta a me, con occhi imploranti: «Non è vero?»
«La señorita non mi darà alcun fastidio. Non stia a preoccuparsi troppo, señora Valdivieso» dissi io per chiudere la faccenda.
Presi lo zaino di Martina e la invitai a precedermi sulle scale. Un vero gentleman.
La dueña, offesa, voltò le spalle e scomparve nel suo appartamento. Era destino che quel giorno mi sarei giocato caffè e churritos per l’avvenire.
«Che bello che sei venuta, Martina. Mi spiace deluderti, però: ancora non abbiamo cambiato nome al villaggio» le dissi davanti alla mia porta.
«Potrei darvi un suggerimento», propose lei. «Vista la fauna locale, potreste ribattezzarlo Nidodelcuculo».
«Non credevo che la padrona fosse così protettiva nei miei confronti. Ma non è cattiva, vedrai».
«Non mi riferivo soltanto alla tipa. Appena sbarcata dalla lancia, sul molo, un vecchio barbone mezzo cieco si avvicina e mi fa, in italiano, benvenuta cara, la stavamo aspettando. Cazzo che paura».
«Oh» dissi «quello è il Brujo. Nemmeno lui è cattivo, anche se devo ammettere che, al primo impatto, fa davvero impressione. Entra pure».
«Di’, ma conosci proprio tutti in questo manicomio?»
«Più o meno. Ma il barbone è solo un paio di giorni che…»
Aho, a ‘bbelloo, io a ‘tte ‘tte vojjo vede striscià ‘ppettèra. Avojja a domandamme scusa…
L’invettiva romanesca veniva dalla tele. Dopo qualche minuto in pause, infatti, quel videorecorder si sbloccava automaticamente e il vhs riprendeva a girare per i cazzi suoi.
«Oh cristosanto!» fece Martina. «Ma che stai guardando? Questa roba è I Panni Sporchi. La trasmettevano su Canale4 cent’anni fa. Guarda che pettinatura! Ma non hai detto che stavi lavorando? E che cazzo di lavoro sarebbe?»
Eccomi sputtanato. Ve lo ricordate anche voi quel cesso di programma. I Panni Sporchi, appunto. Lui e lei andavano in televisione a insultarsi e a rinfacciarsi le colpe del (presunto) fallimento del loro (presunto) matrimonio. A fare da paciere, un imbonitore da luna park che diceva di avere fatto l’Actor’s Studio.
Ad ogni modo, eccomi sputtanato. Martina se ne stava lì in attesa di una risposta.
«Ecco, vedi» balbettai «il mio lavoro sarebbe…»
«Com’è che avevi detto? Ah, sì: scrivo delle cose per la televisione. Oh, cristosanto. Io avevo pensato a qualcosa tipo sceneggiatore o roba del genere».
«In effetti, volevo fare il figo» cominciai a spiegare. «Mi succede spesso. Ma soprattutto mi vergognavo».
La pazza nella tele urlava sempre di più. Spensi tutto e dissi: «Ad ogni modo, benvenuta, Martina. Mettiti comoda, adesso ti spiego».
Ma prima di mettermi a raccontare, scesi in cucina e tornai su con un paio di pilsen belle fresche.
«Ci voleva proprio» disse lei «morivo di sete. Allora, che mi dici del tuo lavoro?»
«È cominciato tutto circa un anno fa» attaccai. «Aeroporto di Quito. Mancava poco più di un’ora alla mia partenza e mi giravano i coglioni perché dovevo tornarmene a casa. Avevo posticipato il rientro già un paio di volte, ma ora non c’erano santi: il biglietto scadeva quel giorno e non si poteva prolungarlo ulteriormente. Soldi in tasca, undici dollari, che pensavo di spendere in una cazzata di regalo per mia sorella. Davanti al mio check-in c’è un ciccione tutto sudato, capelli unti e baffoni rossicci. Chiazze paurose sulla camicia. Il sudore delle ascelle gli bagna anche le maniche della giacca. La faccia è una fontana, la cravatta allentata. Nessuna idea di togliersi la giacca, chissà perché».
«Con tutti questi dettagli, finiamo domattina» disse Martina passandosi la bottiglia ghiacciata sulla fronte.
«Ok. Vedrò di farla breve. Ma tu non devi magari andare in bagno?»
«Già fatto. Quando sei sceso per la birra. Racconta».
Il Ciccione tenta disperatamente di spiegare il suo problema a un’impiegata della compagnia. La donna annuisce in modo meccanico. Si capisce che il tipo le ha ripetuto le stesse cagate almeno venti volte. All’improvviso smette di parlare e si lancia su due donne che si sono appena messe in fila. Quasi le aggredisce e loro si spaventano. Palla di lardo comincia a vomitare suoni che lui crede lingua inglese. Gesticola come Trapattoni. Con un’occhiata implora aiuto alla povera impiegata, che è rimasta in disparte. Le uniche parole che riesco a capire sono plìs, plìs, mai tìchet, tumovvov, iuv tìchet, ai ghiv iu monei, vivalamadonna. Dunque è italiano. E pronuncia la vi al posto della erre. Le due donne lo guardano schifate e si voltano dall’altra parte. Finalmente l’impiegata s’intromette, rassicura le tipe, e spiega la questione in termini comprensibili. Si tratta di una proposta. Il ciccione ha un biglietto per quello stesso volo, ma con la data dell’indomani. Per colpa di un imprevisto è costretto a rientrare con un giorno di anticipo. Dice che è una questione di vita o di morte. Siccome l’aereo è strapieno, vorrebbe concordare uno scambio di biglietti. Sarebbe inoltre disposto a ricompensare il disturbo con trecento dollari. L’espressione delle due donne si fa ancora più schifata. Così tocca a me. So già che accetterò, ma voglio godermi tutta la scenetta. L’impiegata mi parla castigliano. Il ciccione annuisce senza sosta. Poi, prima ancora che io possa rispondere, comincia a implorarmi: «Magnana segnov, mui mucio dinevo segnov, mucio dollaves, vivalamadonna».
Alla fine dico: «Credo che accetterò». Senza bisogno di traduzione, il ciccione capisce di avercela fatta. Fa comparire un fazzoletto rosso, se lo passa sulla fronte e sul collo. Un fazzoletto rosso, roba da non credere. Scusa, hai ragione. Per farla breve, mentre allungo all’impiegata biglietto e passaporto, il ciccione estrae tre banconote e, convinto che nessuno capisca l’italiano, dice: «Sapevo che questo bavbone savebbe stato d’accovdo, vivalamadonna».
Eccheccazzo, io non sono un barbone. Cazzo vuole ’sto pezzo di merda? Così dico, in italiano: «Ne voglio cinquecento!» Il ciccione non se l’aspettava. Né il gioco al rialzo né che anch’io fossi italiano. Ricomincia a sudare all’istante. «Ma come?» mi fa «io vevamente avevo detto tvecento». Ma s’interrompe subito, sa di non avere scelta. Deve salire su quell’aereo, non può mandare tutto a puttane. Anzi, addirittura mi fa: «Eh, noi italiani siamo tvoppo fuvbi, viusciamo a fave affavi anche nelle situazioni più pvoblematiche. Te, pevò, così conciato come un bavbone, non cvedevo che fossi anche te un affavista. Bvavo, bavba, mi sei simpatico».
Gli ho appena inculato duecento dollari, e lui mi fa i complimenti. Scommetto che riesco a farmi offrire anche una birra.
«Commendatore» gli dico «la vedo bello sudato, che ne dice di farci una birretta prima che venga chiamato il suo volo?» Lui guarda l’orologio e dice: «Volentievi, pevò io sono solo dottove e non bevo alcol. Sai cosa mi piacevebbe davvevo? Una bella ovansoda, ma figuviamoci se in questo posto di mevda ci hanno l’ovansoda, vivalamadonna». Il bar è al primo piano. A metà delle scale, il ciccione si ferma a riprendere fiato e mi fa: «Non ne posso più di questa altuva di mevda, tvemila metvi, vivalamadonna, in questo paese di mevda sono costvetto pvendeve il doppio di pastiglie». Ci sediamo e ordiniamo. A portarci da bere è una ragazza. Il ciccione dice: «Che paese di mevda, guavda che scimmie le lovo donne. C’è figa dappevtutto qui in Sudamevica, tvanne in questo paese di mevda. Una volta pev lavovo mi mandavano a Vio de Gianeivo e a Buenos Aives, dove c’è la figa migliove del mondo. Adesso invece mi spediscono in questo paese di mevda, che la figa non sanno neanche come è fatta. Te bavba ci sei già stato a Vio? E a Buenos Aives? No? Davvevo? E pevché vieni in vacanza in questo posto di mevda invece di andave in Bvasile, vivalamadonna? Cos’è? A te bavba non ti piace la figa? Guavda che schevzo. Savai anche un bavba, ma non mi sembvi pvopvio un culattone. Comunque, sono pvopvio contento di andavmene con un giovno di anticipo da questo posto di mevda. Mi dispiace pev te che devi stav qua ancova fino a domani. Ma pev cinquecento dollavi è un sacvificio che si fa volentievi, vevo bavba?» Ordino un’altra birra e dico: «Se riesco a prolungare il mio nuovo biglietto, con questi cinquecento sacchi mi fermo qui altri due o tre mesi». Il ciccione quasi sputa il sorso di minerale appena trangugiato. Poi si riprende e fa: «Ostia, voi mezzi bavboni siete pvopvio delle sagome. A voi vi piacciono tutti i posti di mevda, eh? Ma io mi chiedo: che cosa ci ha l’Italia che non vi piace?»
L’Italia sta diventando il regno dei pezzi di merda come te, vorrei rispondergli. Ma è il mio benefattore. E forse mi offre anche da bere. Così mi limito a confidargli: «Lo sa, ingegnere, cosa le dico? Che se trovassi un lavoro qui in Ecuador, anche un lavoretto del cazzo, potrei anche non tornarci mai più in Italia».
Lui scuote la testa sconsolato: L’è voba de matt, e comunque non sono ingegneve. Ma ci cvedevesti, bavba, che il lavovetto del cazzo te lo posso offvive io? Più i bavboni se ne stanno lontani dall’Italia meglio è pev quelli che hanno davvevo vo...