Ninco Nanco deve morire
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Ninco Nanco deve morire

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About this book

Ci sono musiche e parole che più che la volontà dell'autore interpretano il sentire di un popolo intero, e proprio per questo sfuggono di mano al proprio creatore diventando patrimonio comune e assurgendo al livello di veri e propri "canti popolari". Brigante se more, con la sua storia travagliata, ci insegna che la musica popolare esiste da sempre e per sempre. Le parole «ommo se nasce, brigante se more» le ha scritte Eugenio Bennato, è vero, ma le ha dette Ninco Nanco, le ha urlate il partigiano Johnny, le ha sussurrate García Lorca davanti al plotone d'esecuzione, sono morte sulla lingua di Spartaco alle sorgenti del Sele. Hanno vagato per secoli nell'aria fino a quando un artista le ha messe nero su bianco, ma un minuto dopo erano già pronte a ripartire, e oggi sono cantate da migliaia di giovani briganti moderni.

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Parte prima
I miei briganti

1. Una scritta sui muri

Ormai è notte. Lascio il mio studio e, come sempre, mentre percorro in Vespa 50 via Aniello Falcone che curva sul panorama di Napoli e diventa via Tasso, mi risuonano ancora i nomi e le immagini e le note musicali che ho appena lasciato, appunti sospesi su partiture e fogli sparsi.
I volti e le voci che questa volta mi fanno compagnia sono le streghe e i rispettivi briganti del mio Sud misterioso e irredento.
Sto tornando a loro dopo tanti anni anche perché mi sono messo in testa di affrontare e risolvere una bizzarra questione riguardante una canzone che abbiamo scritto anni fa io e il mio compagno di viaggio Carlo D’Angiò, e che ci è stata disinvoltamente espropriata a furor di popolo.
Imbocco viale Maria Cristina di Savoia, la discesa a senso unico che da via Tasso porta a corso Vittorio Emanuele, e mi accade qualcosa di imprevedibile e straordinario: sul muretto della prima curva scorgo una scritta a caratteri cubitali, tracciata di fresco nell’inconfondibile agilità grafica della bomboletta spray.
Il testo, secco e conciso, dice: «Garibaldi e Cialdini infami».
Una scritta insolita, impensabile fino a pochi anni fa, perché Garibaldi è sempre stato per tutti un volto rassicurante e indiscusso, e perché Cialdini è sempre stato per tutti un perfetto sconosciuto.
Per una strana coincidenza del destino, questa scritta così nuova e spiazzante si materializza in una notte della primavera del 2009, proprio in quel viale Maria Cristina dove era un tempo la casa di Carlo, e dove, in una sera di primavera di trent’anni fa, scrivemmo Brigante se more, la canzone oggetto di quella strana storia di “espropriazione indebita” sulla quale stavo meditando.
Che significa, che mi vuol raccontare quella nuovissima scritta metropolitana? Chi è che si prende la briga di partire in spedizione, percorrere la città e scegliere lo spazio giusto per lasciare il segno impresso sull’intonaco di un palazzo o direttamente sulle pietre di tufo? Chi è la mente che concepisce la dicitura da “pubblicare” e mettere sotto gli occhi di tutti, automobilisti e passanti? Cosa c’è dietro questo «Garibaldi e Cialdini infami»?
Lo sconosciuto che ha concepito questa scritta ha, a mio avviso, voluto comunicarci due cose: la prima è che ha un animo dissacrante e vuole sfidare i sentimenti consolidati dei cittadini con un’espressione blasfema riguardante Garibaldi, santificato da sempre, fin dai libri delle elementari; la seconda è che “ha studiato”, che è andato a rovistare fra i libri più rari, quelli che riguardano specificamente una storia messa da parte, e ha tirato fuori il nome di Cialdini, un nome che non dice niente a nessuno e che in centocinquant’anni non aveva mai avuto l’onore di alcuna pubblicità.
Per la gente il Risorgimento è legato a quattro nomi, nient’altro: primo Garibaldi, appunto, poi Vittorio Emanuele II, poi Cavour e infine Mazzini. Di Cialdini non se n’è mai parlato, anche perché la sua impresa più memorabile fu il bombardamento di Gaeta con relativo sterminio dei fratelli d’Italia di territorio borbonico, uno degli episodi sui quali l’establishment culturale ha sempre preferito tacere.
La storia del brigantaggio postunitario, la guerra fra esercito piemontese ed esercito delle Due Sicilie prima e bande di partigiani poi è in gran parte ancora da scrivere, per il semplice motivo che è stata taciuta o trattata con reticenza dalla storiografia ufficiale.
Quella frase che ora mi appare all’improvviso è il segnale forte, anonimo e per questo ancora più significativo, di un inesorabile cambiamento di rotta, dell’inattesa irruzione di un sentimento popolare nuovo che collega tra loro eventi e personaggi della storia passata (Garibaldi e Cialdini) e problematiche e istanze della realtà contemporanea.
È una mano misteriosa e spiazzante che riscrive nomi del 1860 con la grafìa del 2009.
Ripenso alla strana storia di quella ballata che avevo scritto trent’anni prima e a quante infinite lontane voci l’abbiano spontaneamente ripresa e tramandata: una melodia, ma anche e soprattutto un urlo, che risuonava ancora più netto nel silenzio di allora, e che ha sicuramente acceso un riflettore forte su quella zona di penombra della nostra storia.
Ora sui muri della città si materializza questa nuova scritta, e mi sento in parte responsabile; vedo ora l’illustre Garibaldi e lo sconosciuto Cialdini trascinati anche loro nella tempesta che Brigante se more ha scatenato.
Ma d’altra parte quella era una canzone antagonista, e ancora oggi come una figlia ribelle e indomabile se ne va per conto suo e ci lancia sue notizie dai luoghi e dalle situazioni più disparate e inattese. E si lascia cantare da tutti, da voci raffinate e da voci stonate, e non declina le sue generalità, e non dice dove e quando è nata.
Brigante se more, un maledetto canto di briganti.
Ora me lo ritrovo lì, tra le righe di quella scritta anonima, proprio in quel viale Maria Cristina dove la sua storia era cominciata.
In un’esplosione napoletana del presente, in una accusa nuova e spregiudicata, che addita nella storia patria mal raccontata l’origine di un errore storico che giunge fino a noi e ci riguarda da vicino.

2. La conquista del Sud

Lo sbarco dei Mille a Marsala avvenne sotto l’aperta protezione di due navi inglesi, che all’imboccatura del porto sorvegliavano che tutto andasse per il meglio e che l’operazione si concludesse senza incidenti e nessuna reazione da parte borbonica.
E la reazione non ci fu: con la flotta inglese c’era poco da scherzare. L’ostilità dell’Inghilterra non era dichiarata, ma è evidente che quella volta per fronteggiare la flotta borbonica si era schierata la massima potenza navale del mondo. E così Garibaldi fu libero di scendere a terra e di portare nell’isola i suoi proclami rivoluzionari.
La storia è sempre un mix di istanze ideali e di senso pratico degli affari, ed è spesso difficile distinguere quale sia stata delle due componenti quella che ha preceduto e ispirato l’altra, quale la scintilla che ha infiammato gli animi e armato gli eserciti, quale la motivazione prevalente delle guerre sporche e delle guerre sante.
La Sicilia era custode di un bene prezioso, lo zolfo. Una materia che all’epoca aveva lo stesso valore e la stessa funzione energetica che nel secolo successivo apparterrà al petrolio.
Agli inglesi era stato tolto il privilegio di sfruttamento delle zolfare, offerte dal re Ferdinando II ai francesi a condizioni per Napoli molto più vantaggiose; adesso a loro non pareva vero di potersi vendicare di quello sgarro imperdonabile e destabilizzare il potere borbonico sull’isola favorendo l’irruzione delle camicie rosse.
Accanto alla motivazione ideale unitaria che infiammava gli animi nel pieno Romanticismo di metà Ottocento, risuonavano gli interessi commerciali delle grandi potenze, e fu su questo meccanismo obliquo che fece leva la strategia piemontese.
In tutta Europa era aria di aspirazioni e rivendicazioni patriottiche e nazionaliste. Per fare l’Italia, che andava fatta, Cavour escluse altre soluzioni e puntò sull’annessione, in pratica sull’estensione del dominio dei Savoia all’intera penisola. E così Vittorio Emanuele II pensò bene di approfittare dell’ingenuità trasognata del giovane cugino Francesco II, re delle Due Sicilie, che ancora a ventitré anni passava il tempo intento soprattutto a pregare, nella venerazione della madre, Maria Cristina di Savoia, la santa donna che non aveva mai conosciuto e che era morta nel metterlo al mondo.
Cavour, il “tessitore”, si diede a tessere un vero intrigo internazionale, puntando tra l’altro sull’avvenenza dell’esuberante contessa di Castiglione, inviata a far breccia nei punti deboli dell’imperatore Napoleone III, cosa che le riuscì alla perfezione.
Assicurato l’appoggio francese, si passò a impiantare una campagna mediatica antiborbonica. Il colpo più riuscito fu una famosa lettera scritta da un nobile diplomatico inglese, Lord Gladstone, che nel relazionare la situazione delle carceri napoletane passò a definire sinteticamente il Regno delle Due Sicilie come «negazione di Dio».
La frase ebbe effetto presso tutte le sedi diplomatiche europee, ma quella lettera era un’autentica montatura: nelle carceri napoletane non si stava certo peggio che in quelle londinesi descritte da Dickens o nelle prigioni parigine de I Miserabili di Hugo. Ma oltretutto quelle carceri Gladstone non le aveva mai visitate, come disinvoltamente ammise pochi anni dopo, a Italia fatta, durante un ricevimento offerto a Napoli in suo onore, quando gelò con quell’improvvisa rivelazione il sorriso servile ed entusiasta dei patrioti napoletani che festosamente lo avevano accolto e lo circondavano.
E così Garibaldi sbarcò, e debolmente contrastato da un esercito confuso e rinunciatario risalì la penisola e giunse a Napoli; il re Francesco non trovò nulla di meglio da fare che abbandonare la capitale, lasciando un dignitoso proclama in cui denunciava la connivenza della comunità internazionale di fronte al sopruso del cugino Savoia, che aveva nel frattempo invaso senza dichiarazione di guerra lo Stato Pontificio e il Regno di Napoli e, con la scusa di accorrere a sedare i disordini aperti dalla marcia di Garibaldi, era andato incontro al generale e a Teano lo aveva liquidato con una storica stretta di mano, proclamandosi re d’Italia.
L’ultimo presidio borbonico a difendere la bandiera gigliata fu la fortezza di Civitella del Tronto, nell’estremo nord dell’ex regno, al confine tra l’Abruzzo e le Marche pontificie.
Francesco II e la giovane regina Sofia resistettero per mesi ai bombardamenti dell’esercito piemontese al fianco della popolazione di Gaeta, e alla fine abbandonarono la roccaforte raggiungendo via mare lo Stato Pontificio. Dal loro esilio cercarono di coordinare l’azione delle forze resistenti legittimiste e la spontanea insorgenza del popolo rappresentata dalle figure di capibanda e di combattenti detti “briganti”.
Iniziò un decennio di feroce repressione che richiese l’impiego stabile di un esercito di occupazione, e il ricorso allo stato d’assedio e alla legge marziale, la famigerata legge “Pica”, che fece migliaia di vittime, con esecuzioni sommarie e spesso immotivate.
Il generale spagnolo José Borjes, inviato dal governo borbonico in esilio, agì al fianco della banda del capobrigante Carmine Crocco, e la coalizione nella primavera e nell’estate 1861 realizzò significative anche se limitate conquiste soprattutto in Basilicata, ma la difficile convivenza tra i due generali portò al fallimento della strategia, che si arrestò in autunno alle porte di Potenza, proprio quando la città era sul punto di essere conquistata.
La guerriglia continuò con azioni isolate, e la repressione fu segnata da nomi e luoghi ormai dimenticati, che appartengono alla storia mai raccontata del Sud: Ninco Nanco, mitico imprendibile capo brigante della Basilicata, Pontelandolfo e Casalduni, due tra le cittadine più ferocemente colpite e rase al suolo per rappresaglia; Mongiana, operosa località calabrese oggi semideserta, dove sorgeva la più grande officina ferriera d’Italia, che subito dopo l’occupazione fu militarmente soppressa togliendo lavoro a migliaia di tecnici e operai specializzati; la fortezza di Fenestrelle, infernale luogo di deportazione per gli ex combattenti dell’esercito borbonico. E l’elenco potrebbe continuare.

3. I canti popolari sul brigantaggio storico

Di Mongiana, Fenestrelle, Pontelandolfo e Casalduni, di Carmine Crocco e Ninco Nanco per più di un secolo non si è mai parlato. La storia la scrivono sempre i vincitori.
Il nuovo governo dell’Italia unita non si sottrae a questa regola, anzi la applica con straordinaria tempestività e precisione, realizzando ovunque monumenti e lapidi commemorative, intitolando ai nuovi eroi strade e piazze e scuole e istituti, declassando tutti i guerriglieri antisavoia allo status infamante di briganti, e soprattutto cancellando meticolosamente pagine di storia e dettandone altre da pubblicare nei sussidiari delle scuole, fino a creare una visione univoca e parziale che s...

Table of contents

  1. Ninco Nanco deve morire
  2. Colophon
  3. Prefazione di Pino Aprile
  4. Parte prima I miei briganti
  5. Parte seconda Alla scoperta della musica tradizionale
  6. Parte terza La nuova canzone popolare
  7. Parte quarta Brigante se more
  8. Parte quinta Musica del Sud
  9. Indice