I compagni visibili
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I compagni visibili

Presenza e culto dei santi in un'area del Mediterraneo

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I compagni visibili

Presenza e culto dei santi in un'area del Mediterraneo

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Secondo una celebre definizione di Peter Brown il santo, a partire dalla fine del IV secolo, cominciò a porsi come un "compagno invisibile" e ideale, un protettore con cui si stabiliva una relazione di "clientela" e che diventava «quasi un'estensione verso l'alto dell'individuo stesso». Così era accaduto per il rapporto tra Paolino di Nola e San Felice, come nel caso di Sulpicio Severo e Martino di Tours. Tuttavia, la definizione di Brown, ormai diventata classica, si può "rovesciare" per dire che caratteristica dei santi è anche quella del loro essere e farsi visibili, dei "compagni" che custodiscono, proteggono e guariscono per mezzo di elementi concreti e tangibili, quali le immagini e le reliquie, che accompagnano la vita dei fedeli. Il santo, presente in una qualità non soltanto spiritualizzata e restituito non solo sotto specie di "visione", si vede e si tocca, si bacia, in taluni casi persino si "assume" per via corporea. E per il tramite degli oggetti sacri che lo "rappresentano" si produce una sorta di "doppio movimento": un andare al santo (verso i luoghi del suo culto, verso le sue reliquie, verso la sua tomba) e un portare con sé il santo, di cui le immagini benedette, nelle loro svariate forme, costituiscono senz'altro l'elemento "fisico" più evidente. Da questo punto di vista, presenza e potenza sono i termini che meglio designano il ruolo che i santi ricoprono quando, "incarnandosi" nei loro succedanei iconici e materiali, si rendono vicini ai fedeli. Tale presenza dei santi post-mortem è lungamente preparata dalle loro gesta in vita, molto spesso un autentico prologo in terra di quel che accadrà una volta in cielo. L'eroismo delle loro virtù, il rigore delle penitenze, la strenua e convinta lotta con le pulsioni corporee, il duro confronto con la natura, tutto ciò che si potrebbe racchiudere in quella particolare disposizione rubricata sotto il nome di ascesi, anticipa e fa da propedeutica a una "esistenza" dopo la morte la cui potentia certamente trae beneficio e si collega a quanto il santo ha sperimentato in vita: santi che guariscono mediante l'acqua anche perché essa già era stata luogo di esemplari esercizi ascetici; santi che hanno temprato il loro carattere e forgiato la loro virtus nella quotidiana rinuncia al cibo; santi il cui isolamento, nella selvatica asperità degli elementi naturali poco coinvolti nei processi di "umanizzazione", è il contrassegno più visibile di una vocazione che attende soltanto il dies natalis della morte per realizzarsi nella sua compiutezza.Di questa multiforme realtà I compagni visibili, utilizzando gli strumenti dell'antropologia e della storia, presenta anche, più in dettaglio, alcuni casi, a loro modo esemplari, quali quelli di San Bruno di Colonia e di San Domenico in Soriano, certamente tra gli episodi notevoli della santità nell'Italia meridionale tra medioevo ed età moderna. Figure eminenti della religiosità occidentale che hanno dato vita a istituzioni plurisecolari e che sono state al centro di riti, si pensi alla guarigione dalla possessione diabolica attribuita a San Bruno, in cui "alto" e "basso", "colto" e "popolare", si sono intrecciati, collocando queste vicende "mediterranee" dentro una più ampia storia europea. E ci si trova dinanzi, alla fine, a una riflessione sul passato che per il suo tessersi intorno ai temi della fenomenologia dei culti religiosi, del sacro e della morte non cessa di proiettarsi sul nostro presente.

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Parte seconda
Immagini, oggetti, reliquie

“Imagini artificiosamente designate”. San Bruno di Colonia tra agiografia e iconografia

Rendere visibile l’invisibile

L’identità agiografica di un santo è il frutto di una “costruzione” in cui si combinano la biografia, l’agiografia e l’iconografia, la storia e l’invenzione, le scelte consapevoli e le sedimentazioni involontarie nella memoria collettiva e nelle fonti storiche di caratteri, attributi, modelli. Il santo riceve identità e diventa riconoscibile attraverso molte vie: il luogo della sua nascita e i luoghi della sua vita, il luogo della sua sepoltura e i luoghi che ne custodiscono le reliquie, le parole degli agiografi e le raffigurazioni iconografiche che fissano in una rappresentazione visibile le leggende agiografiche. Pur all’interno di una struttura linguistica diversa, esiste storicamente un rapporto molto stretto, di scambio continuo, tra agiografia e iconografia. Al linguaggio analitico e narrativo della prima, la seconda sostituisce la capacità sintetica del simbolo; alla “distensione” del racconto la concentrazione di una storia in pochi caratteri fondamentali, in segni essenziali, ma entrambe concorrono a conferire identità al santo, a renderlo riconoscibile agli occhi dei fedeli.
La stessa immagine è un prodotto agiografico, una rappresentazione della figura di un santo che costituisce – come ha osservato Sofia Boesch Gajano – «[...] un ponte tra la realtà del personaggio e il pubblico» (Boesch Gajano 1999: 46). Rispetto alle testimonianze scritte, l’immagine garantisce un rapporto più diretto e immediato tra il santo e il fedele e sembra connotarsi, come appare evidente nei cicli iconografici, per la sua maggiore didascalicità (Dupront 1993: 125 sgg.). Il caso dei cicli è interessante anche per un altro aspetto, perché essi esplicitamente assumono nel linguaggio iconico un impianto narrativo, un procedimento sequenziale, nel quale, pur nella immobilità statica delle figure, la storia accade, si succede, incarna il ritmo del prima e del poi secondo un modello temporale analogo a quello della produzione scritta.
Il culto delle immagini dei santi ha giocato un ruolo fondamentale nel radicare presso santuari, chiese, confraternite le devozioni a patroni, protettori, fondatori di ordini religiosi. Il fedele si ferma in preghiera davanti all’immagine, ne interiorizza gli attributi agiografici, li assume come fattori d’identificazione della personalità del santo. L’attributo agiografico, consustanziale alla figura del martire o del “confessore”, rinvia, con una certa frequenza, a episodi miracolosi o a una specializzazione taumaturgica che “incontrano” le attese del fedele e del pellegrino, “promettono” il soddisfacimento dei suoi bisogni. Funzione dell’immagine è quella di insegnare e commuovere, di rendere visibile l’invisibile, di costituire un termine di riferimento immediato per la pietà popolare. Il cristianesimo, religione del libro e della parola, lo è forse altrettanto dell’immagine e della “visione”.
Volendo periodizzare si rivela decisiva l’epoca compresa tra il XVI e il XVII secolo. L’invenzione della stampa, la circolazione dei “santini”, la prudente ma inequivoca ammissione dell’iconodulia nei decreti del Concilio di Trento e nella teologia cattolica, favoriscono la diffusione del culto dei santi, fino al medioevo maggiormente legato al culto delle reliquie. Il rapporto tra immagini e reliquie va letto in modo “dialettico”, segnalando le differenze e le analogie. La diffusione delle reliquie è legata alla possibilità di spezzettarle, dividerle, frantumarle, estrarne parti da distribuire a chiese, conventi e santuari. La diffusione delle immagini, anche quando queste facciano riferimento a un prototipo o a una “vera effigie” o a un’achiropita, può avvenire per semplice riproduzione del modello, per copia replicata centinaia e migliaia di volte. D’altra parte, immagini e reliquie rinviano a un sostrato comune, di cui i reliquiari antropomorfi sembrano proporre una possibile sintesi sensibile. La reliquia è corpo, ma spesso pure l’immagine è corpo, immagine-corpo vicaria del corpo reale del santo (Apolito 1991: 193). L’immagine, a sua volta, è generatrice di particolari reliquie. Reliquie da contatto si definiscono quegli oggetti che hanno toccato il corpo del santo, si sono impregnati della sua virtus, sono brandea che testimoniano e danno memoria di una vita esemplare. Ma reliquie “secondarie” possono anche considerarsi gli oggetti posti a contatto con l’immagine sacra: santini, medagliette, fazzoletti, coroncine. Immagini e reliquie, reperti visibili della presenza del santo, ne accompagnano, inevitabilmente, il riconoscimento del culto.
Le fasi della beatificazione e della canonizzazione sono scandite dalla produzione di immagini, processioni delle reliquie, prodigi e miracoli che le agiografie si incaricano di registrare e le raffigurazioni iconografiche di rendere visibili. Il cammino del santo verso gli altari è accompagnato e seguito da un parallelo racconto per immagini, più o meno intenso a seconda dei casi, maggiormente diffuso nella Chiesa universale o più circoscritto a realtà locali, ma quasi sempre presente. Una sterminata produzione di immagini riflette, praticamente rispecchiandole, le tipologie agiografiche di solito più ricorrenti: il santo martire, il monaco, il vescovo (Grégoire 1987: 249 sgg.). Oggetti e strumenti del martirio, insegne della dignità episcopale, principia individuationis della condizione eremitica e monastica, simboli della fede, rimandano immediatamente alla tipologia del santo raffigurato, lo rendono identificabile mediante il proprio “genere prossimo”, ma lasciano pure affiorare le “differenze specifiche” che lo individuano all’interno del genere di appartenenza. La ripetizione dei caratteri, l’insistita reiterazione dei simboli e degli attributi iconografici, rendono il santo familiare, contribuendo in modo decisivo alla sua “tipizzazione”. La “fortuna” del santo è, di frequente, inscindibile dalla “fortuna” delle sue immagini, che, talvolta, come nel caso clamoroso della tela achiropita di San Domenico in Soriano, giungono a sostituirsi alla persona reale, la annullano sino a diventare per i fedeli l’unica e autentica realtà con la quale stabilire un rapporto.

Scene della vita e della morte

Nel caso di San Bruno di Colonia, vissuto nell’XI secolo tra Germania, Francia e Italia e all’origine dell’ordine certosino, occorre, preliminarmente, precisare che la diffusione iconografica della sua figura è legata, nello spazio, soprattutto ai luoghi d’insediamento delle Certose e nel tempo al periodo in cui, tra XVI e XVII secolo, giunsero a compimento le procedure papali per il riconoscimento del suo culto. Infatti, il 19 luglio 1514, alcuni anni dopo il ritrovamento in Calabria delle reliquie di Bruno e del suo confratello Lanuino, Leone X, con un “oracolo di viva voce”, ne autorizzava il culto all’interno dell’ordine certosino – atto che poteva considerarsi una “beatificazione equipollente” – mentre a un secolo di distanza, il 17 febbraio 1623, Gregorio XV lo estendeva alla Chiesa universale, permettendo la celebrazione della festa del santo il giorno della sua morte, avvenuta il 6 ottobre del 1101. Ad accrescere ulteriormente la fama di Bruno contribuì, sul versante agiografico, la pubblicazione di diverse Vite, che fissarono i caratteri fondamentali ai quali per lungo tempo i “biografi” si sarebbero rifatti. Del 1508 è il “poema eroico” di Zaccaria Benedetto Ferreri De Origine Sacri Carthusiensis Ordinis, ristampato nel 1524 anche in appendice all’edizione parigina delle Opera Omnia di San Bruno (Ceravolo 2004); del 1515 è la cosiddetta Vita altera di Dom François Dupuy, che costituirà il modello sul quale saranno esemplate molte altre Vite successive; intorno al 1530 viene composta la Vita di Pietro Blomevenna; nel 1574 appare la Vita Sancti Brunonis di Lorenzo Surio, conosciuta anche col titolo di Vita tertia che le sarà dato negli Acta Sanctorum dei Bollandisti (Ceravolo 1999: 39-40). L’invenzione della stampa contribuisce, tra Cinquecento e Seicento, a diffondere la figura di San Bruno anche mediante la pubblicazione di alcuni cicli iconografici e l’inserimento di singole immagini in opere di tipo devozionale, agiografie, messali, breviari, innari. Una delle prime raffigurazioni a stampa su San Bruno era già apparsa, nel XV secolo, nella Schedelsche Weltchronik edita a Norimberga nel 1493. Ma si trattava di un’immagine quasi per nulla tipizzata, che, addirittura, diventava fungibile e poteva essere impiegata – com’è stato notato da Giovanni Leoncini – per rappresentare anche altri certosini (Leoncini 1995: 176). Diverso è il caso della tavola in nove scene Origo Ordinis Cartusiensis (fig. 1), attribuita a Urs Graf e inserita nella prima edizione degli Statuti certosini (Statuta 1510), pubblicata a Basilea per i tipi di Johannes Amorbach. Qui vediamo apparire un San Bruno caratterizzato agiograficamente, secondo alcuni topoi che la storia e le leggende agiografiche avevano “consegnato” al disegnatore, a cominciare dal presunto episodio del teologo Raymond Diocrès – che per tre volte si sarebbe alzato dalla bara, davanti al santo, per invocare il “giusto giudizio di Dio” per il quale era stato accusato, giudicato e condannato – e per finire con l’edificazione della prima Certosa in Francia. Degna di nota, in questo testo, è anche la xilografia pubblicata nella parte intitolata Privilegia Ordinis Cartusiensis, che rappresenta l’ordine certosino come un “albero” scaturito dalla comune radice di San Bruno (fig. 2). La filiazione dei certosini dal loro fondatore, che inequivocabilmente l’albero rappresenta, è anche una chiara testimonianza del modello identitario esplicitamente assunto dall’Ordo Cartusiensis, come da altri ordini religiosi, che procede per discendenza unilineare, esclusiva e diretta dal proprio istitutore, ereditandone, intatto, lo spirito (Ceravolo 2015). La medesima tipologia iconografica ad albero, con San Bruno disteso su un fianco a rappresentare la radice dell’Ordine, verrà replicata nel 1609, con diverse variazioni rispetto al suo archetipo cinquecentesco, anche nel frontespizio dell’opera di Pietro Sutor De Vita Cartusiana (fig. 3).
La pubblicazione nel 1524 a Parigi, per l’editore Jodocus Badius Ascensius, delle Opera Omnia di San Bruno – con il titolo Opera & Vita poiché all’edizione dei testi attribuiti al santo si accompagnava l’inserimento, tra l’altro, della Vita Beati Brunonis di François Dupuy – costituiva iconograficamente una significativa novità, perché nelle sei tavole anonime di corredo erano illustrati due episodi, assenti nella xilografia di Graf degli Statuti, riguardanti il decennio di permanenza di San Bruno in Calabria. Da questo momento anche gli altri cicli figurativi a stampa riporteranno il periodo calabrese di San Bruno, insistendo sulle leggende agiografiche più note e contribuendo, in questo modo, al formarsi di un corpus leggendario tramandato attraverso i secoli. Ne fa fede già la seconda edizione delle Opera Omnia di San Bruno, curata da Teodoro Petreio e pubblicata a Colonia nel 1611. Il volume è, infatti, introdotto da un frontespizio ornato da un ciclo in dieci vignette, tre delle quali raffigurano episodi calabresi: i cani del Conte Ruggero che scoprono il santo tra i boschi delle Serre, il sogno di Ruggero durante l’assedio di Capua con la visione liberatoria di San Bruno che lo avvisa di una congiura ordita da soldati infedeli, la scena della morte di Bruno con l’acqua miracolosa scaturita dal suo sepolcro (fig. 4).
La scena della morte in Calabria del santo verrà suddivisa in tre diverse sequenze in un importante ciclo prodotto dieci anni dopo, con i disegni di Giovanni Lanfranco incisi da Theodor Krüger, nel quale alla raffigurazione del momento vero e proprio del trapasso si aggiungeranno l’apoteosi di San Bruno e i miracoli associati alla fonte sgorgata dal sepolcro (figg. 5-6). Al ciclo lanfranchiano si accompagnò, nello stesso torno di tempo, un volumetto agiografico di Meleagro Pentimalli scritto «non già di proposito [...] ma per occasione d’una semplice dichiarazione di venti Imagini artificiosamente da dotta mano designate e intagliate in rame [...]» (Pentimalli 1622: 5-6). La suite di Lanfranco sarà, peraltro, ulteriormente diffusa da una ristampa del 1650 promossa dai certosini di Napoli (Leoncini 1993: 54-55) e anche grazie al suo inserimento nella Storia critico-cronologica diplomatica del patriarca S. Brunone e del suo Ordine Cartusiano di Benedetto Tromby [Napoli, Vincenzo Orsino, 1773-1779, in dieci volumi].
Una diffusione ancora maggiore conoscerà il ciclo della vita di San Bruno dipinto da Eustache Le Sueur, tra il 1645 e il 1648, per il chiostro della Certosa di Parigi, successivamente inciso da François Chauveau e pubblicato in prima edizione dall’editore Cousinet intorno al 1680. I dipinti di Le Sueur e le gravures di Chauveau riportano i momenti più noti della vita di San Bruno, con una prevalenza del periodo francese, ma con l’inserimento di alcuni importanti episodi relativi alla permanenza calabrese del santo. Tra essi occorre richiamare la tavola 18, che raffigura San Bruno assorto in preghiera mentre i suoi compagni lavorano alla costruzione dell’eremo serrese (fig. 7); la tavola 20, con il celebre episodio già citato dell’apparizione di San Bruno in sogno al Conte Ruggero (fig.8); le tavole 21 e 22, con la scena, mistica e drammatica, della morte del santo (fig. 9) e l’apoteosi in cielo dopo il suo transito terreno. Alla sua notorietà iconografica contribuirono, in maniera precisa, le diverse copie del ciclo circolanti in Europa, come quella realizzata per la Grande Certosa, con due tavole supplementari raffiguranti Un sogno di Sant’Ugo e una Canonizzazione di San Bruno (Rouchés 1923: 92-93), o quella, modesta nell’esecuzione e ripresa dalle stampe di Chauveau, lasciata nella Certosa di Pavia dal monaco Giorgio De Alexandris tra 1711 e 1714 (Fabjan – Marani 1992: 276-287). Altre copie sono state ancora segnalate a Bordeaux nella chiesa di San Bruno e a Morbillant nella Certosa di Auray (Mèrot 1987).
Riferibili al ciclo di Le Sueur sono pure alcuni dipinti dei pittori calabresi Zimatore e Grillo, eseguiti per la Certosa di Serra San Bruno negli anni del ripristino ottocentesco del monastero. Varie edizioni a stampa sono state, infine, pubblicate, per mano di incisori diversi, sino agli ultimi anni del XIX secolo (Fragonard 1822; Malbeste 1825; Galerie 1895; Rouchés 1923). Sottolineare l’importanza di questo ciclo appare quasi superfluo, poiché – come ha osservato Gabriel Rouchés – «Le Sueur fut le grand peintre de l’ordre, l’interprète attitré de saint Bruno. Les Chartreux considérèrent ses compositions comme la traduction parfaite de leur sentiment; ils les consacrèrent par les innombrables copies qu’ils envoyèrent dans leurs divers monastères. La suite d’estampes que Chauveau grava d’après ces peintures, devint une sorte d’édition officiel de la vie de saint Bruno» (Rouchés 1923: 82).
Accanto ai cicli non si può, tuttavia, tralasciare almeno un richiamo ad alcune rappresentazioni che riportano ben noti attributi iconografici, quali il ramoscello d’ulivo – talvolta sostituito dalla palma o dal giglio – o che raffigurano la “vera effigie” di San Bruno, presentandolo con l’aureola composta da sette stelle, il volto reclinato alla sinistra di chi guarda e incorniciato dalla barba, il bastone a forma di tau impugnato nella mano sinistra. Quest’ultima tipologia raffigurativa, documentata anche in una lunetta cinquecentesca di Pietro di Matteo presso la Certosa di Firenze (Leoncini 1995: 218-219; 283), è stata identificata come l’iconografia calabrese del santo giacché è presente, oltre che in qualche testo a stampa scaturito dall’ambiente della Certosa di Calabria (Nabantino 1857), anche in diverse tele – prodotte a partire da un probabile archetipo oggi conservato nella chiesa serrese dell’Assunta di Terravecchia (fig. 10) – presenti sul territorio di Serra San Bruno. Può essere, a tal proposito, interessante segnalare come nell’Archivio della Certosa di Se...

Table of contents

  1. I compagni visibili
  2. Colophon
  3. Prefazione. I “compagni visibili”
  4. Parte prima Santi dell’acqua, dei boschi, dei digiuni
  5. Parte seconda Immagini, oggetti, reliquie
  6. Parte terza La “buona” e la “cattiva” morte
  7. Bibliografia
  8. Indice