1. La croce e la spada
1. UN INTERMINABILE KULTURKAMPF
Nel corso degli ultimi cinque secoli il potere statale s’è imposto grazie a una rappresentazione manipolata della realtà, che ha accreditato l’esistenza di una radicale separazione tra spazio pubblico e spazio privato e soprattutto ha delineato universi giuridici che rispondono a regole differenti. Quella istituzione tutta moderna ed europea che è lo Stato si afferma nel momento in cui viene eretta una barriera sempre più alta a dividere il diritto privato e il diritto pubblico, proprio mentre quest’ultimo s’impone in modo irresistibile sul primo. Ma mentre il diritto privato è per origine e struttura essenzialmente evolutivo (giurisprudenziale, giudiziale, consuetudinario), il diritto pubblico è arbitrario, statutario, artificioso. Esso è una semplice costruzione del ceto politico e, per molti studiosi, non è neppure a pieno titolo diritto1.
Riconoscere il trionfo del diritto pubblico nel corso dell’età moderna è fondamentale, poiché è impossibile comprendere lo Stato senza mettere a fuoco la crescente distanza tra governanti e governati, tra ciò che è lecito ai primi e ciò che è proibito ai secondi. Il diritto statuale non potrebbe restare in piedi se le regole con cui si condanna il comportamento dei ladri venissero utilizzate per esaminare la condotta dei legislatori (specie quando impongono dazi e tributi), o se le leggi a partire dalle quali vengono perseguiti gli omicidi venissero usate per mettere sotto processo capi di Stato e generali2.
Per tale motivo, è importante chiedersi come la finzione del diritto pubblico statuale sia riuscita a imporsi nell’ Europa moderna. Va anche tenuto presente che difficilmente un ordine giuridico di altra natura potrà emergere se non si riuscirà a demistificare la metafisica politica che ha segnato l’epoca post-medievale e che caratterizza pure la scena attuale, contraddistinta dall’emergere di poteri sovranazionali, in larga misura eredi della logica statuale.
Di tutta evidenza, se ben pochi sembrano avvertire l’indiscutibile continuità tra furto e tassazione, tra rapimento e leva militare, tra legislazione e minaccia, bisogna domandarsi quale sia l’interdetto che impedisce di osservare la realtà qual essa è. Siamo senza dubbio dinanzi a un autentico tabù, che resiste grazie al sostegno di un culto in parte esoterico (dato che pochi sarebbero pronti ad ammettere di guardare allo Stato come a una vera divinità), ma che per altri aspetti è protetto con cura e attenzione.
Nella storia europea il lungo cammino delle forme occidentali di organizzazione sociale che conduce dalla sacralizzazione del potere dei reges christianissimi fino al trionfo della laicità contemporanea non può allora essere compreso se non si prova ad accostare la dimensione più filosofica di tale vicenda3. In questo senso, nel corso dell’epoca moderna il rapporto tra dominio e manipolazione è strutturale, poiché nessun potere è in grado di imporsi e durare senza un apparato concettuale che neghi l’altro uomo nella sua trascendenza e tolga imperatività agli obblighi morali che ne derivano. Prima che questioni di carattere istituzionale, la controversia riguarda i nostri quadri teoretici fondamentali4.
In questo senso, è cruciale il ruolo giocato dagli intellettuali nell’edificazione dei sistemi d’oppressione che hanno dominato la modernità:
Non bisogna allora sorprendersi se i maggiori dibattiti giuridici e politici rinviano di continuo a controversie intorno all’essere, al bene, al senso della storia. La maniera in cui guardiamo il mondo definisce i binari entro cui collochiamo le istituzioni che quotidianamente contribuiamo a edificare, e queste ultime delineano in larga misura i luoghi della riproduzione simbolica: dove vengono generati nuovi miti collettivi6.
Al contempo, ci si può egualmente chiedere se nel corso dell’età moderna il trionfo del potere non abbia progressivamente messo in discussione la possibilità stessa di un’esistenza che si situi entro lo spazio della filosofia e tenga in debita considerazione gli scrupoli della nostra esperienza morale. Se da un lato il venir meno di ogni connessione tra l’altro uomo e la trascendenza sembra avere logorato le relazioni interpersonali7, è vero pure l’opposto, poiché l’avvento della statualità ha comportato una progressiva riduzione di quegli ambiti in cui l’inviolabilità del prossimo può essere riconosciuta8.
Nelle pagine che seguono si evidenzierà come il trionfo dello Stato abbia visto modificarsi il nostro rapporto con il reale – in particolare, come s’è detto, ci si riferisce al carattere artificioso della distinzione pubblico-privato – e abbia aperto la strada a ideologie votate all’espansione del dominio. La teologia politica, quale ordine concettuale schierato a difesa del potere statale, sarà qui evocata a partire dalla trasformazione che nel corso degli ultimi secoli ha conosciuto il rapporto tra prassi e teoria, tra etica e conoscenza.
Non si tratta certo di abbracciare una teoria del declino, che ripresenti – pur rovesciate di segno – le ingenuità di ogni interpretazione progressista della storia. Il rigetto delle «magnifiche sorti e progressive» non deve indurre a idealizzare il passato. L’Europa post-medievale ha conosciuto avanzamenti e regressi: talune libertà appaiono oggi meglio tutelate di quanto non lo fossero cinque o sei secoli fa, ma per altri aspetti – ed è questo che qui interessa maggiormente – mai come nel corso degli ultimi cent’anni l’uomo è stato tanto sottomesso all’apparato politico.
Quando Theodor W. Adorno sottolinea la difficoltà di continuare a riflettere dopo Auschwitz9, nelle sue parole è possibile riconoscere l’invito a cogliere in che modo e per quali ragioni solo nel Novecento sia stata possibile la crudeltà metodica e su larga scala dispiegata dai regimi totalitari10. Per dare ragione della nuova ferocia del potere è quindi necessaria una riflessione che non si limiti a rilevare il ruolo giocato dallo sviluppo tecnico-scientifico e si sforzi di andare oltre.
Ma anche prescindendo dall’escalation criminale che ha contraddistinto la statualità, una domanda al centro di questa riflessione è, per così dire, come si sia potuti arrivare a Hegel («Lo Stato è volontà divina, in quanto attuale spirito esplicantesi a forma reale e ad organizzazione del mondo»)11 e come per molte persone il potere abbia potuto rappresentare l’orizzonte ultimo, la fonte di ogni speranza, impegno, sacrificio.
In questo senso, evocare come nella modernità si sia modificato il rapporto tra etica e istituzioni, tra pensiero e forza, obbliga a focalizzare l’attenzione sulla relazione dell’uomo occidentale con la fede. Secondo un’autorevole linea di pensiero – da Carl Schmitt a Ernst-Wolfgang Böckenförde12 – il consolidarsi dello Stato moderno in Europa è direttamente riconducibile a una vicenda teologico-politica tra i cui esiti fondamentali mi pare vi sia stato lo svuotamento del cristianesimo e il rafforzamento delle istituzioni secolari13. L’amministrazione dell’uomo da parte dell’uomo si definisce, sul piano simbolico come su quello istituzionale, mutuando logiche di matrice religiosa14 e avocando a sé tutta una serie di elementi (dall’unità alla perpetuità) che sono caratteristici del Dio biblico15. La cosa non può stupire chi abbia compreso, secondo la lezione di Jacques Ellul, che «la secolarizzazione è sempre relativa al sacro specifico di una società data»: non si esce mai insomma compiutamente dalla dimensione religiosa, ma si abbandona un sacro per un altro16.
Nella sua articolata critica della cultura moderna, anche Alexander Rüstow ha sottolineato questo costante permanere, a dispetto delle apparenze, dell’intreccio tra teologia e potere. Il dominio dell’uomo sull’uomo ha bisogno di poggiare su una religione tradizionale o di crearne una a propria totale disposizione:
Nello specifico processo che conduce lo Stato europeo moderno a marginalizzare le religioni propriamente intese e a imporsi sulle rovine della complessità delle organizzazioni sociali preesistenti, l’inedita forma istituzionale che conquista il centro della scena interagisce però in maniera tutt’altro che lineare con il sacro: in vario modo inglobando e accantonando ogni fede, assorbendola e annullandola, e poi mimandola ed esaltandola, negandola, reinventandola.
Questa dialettica che vede intrecciarsi potere e religione delinea una storia irregolare e prima facie incoerente, all’interno della quale i costruttori e ricostruttori della sovranità sono chiamati di volta in volta a fare i conti con le urgenze e le opportunità della propria epoca. Entro tale prospettiva, il problema dello Stato moderno (delle sue origini e della sua natura) e la stessa questione della laicità delle istituzioni pubbliche possono forse essere meglio compresi alla luce di una riflessione che colga quali siano le ragioni più autentiche del rapporto tra regnum e sacerdotium, tra la dimensione secolare e quella religiosa.
Nella storia occidentale l’utilizzo in senso ierocratico del detto paolino secondo cui ogni autorità viene da Dio – non est enim potestas nisi a Deo (Rm 13,1) – non è qualcosa di isolato ed eccezionale18. Lo sfruttamento della religione quale strumento di consolidamento del potere è un dato ricorrente, così che è difficile dare torto a Peter L. Berger quando ricorda che storicamente la religione «è stata il più diffuso ed efficace strumento di legittimazione»19. Egualmente corretta appare la tesi di Joseph Ratzinger secondo cui «l’Impero cristiano ha cercato molto presto di trasformare la fede in un fattore politico per l’unità dell’Impero […]. La debolezza della fede, la debolezza terrena di Gesù Cristo, doveva essere sostenuta dal potere politico e militare. Nel corso dei secoli questa tentazione – assicurare la fede mediante il potere – si è ripresentata continuamente»20. Eppure nel rapporto tra fede e istituzioni c’è molto di più che la strumentalizzazione della credenza religiosa da parte del potere e anche qualcosa che va oltre lo sforzo di assorbimento di quest’ultimo da parte dell’apparato ecclesiastico. Perch...