CAPITOLO 1
Fellini e «l’ideologia italiana»
Inseguimmo le «alcinesche seduzioni» della Giustizia e della Libertà; abbiamo realizzato ben poca giustizia e forse stiamo perdendo la libertà.
Norberto Bobbio
Certo i cattolici hanno un vizio maledetto: pensare alla forza della modernità e ignorare come questa modernità, nei limiti in cui pensa di voler negare la trascendenza religiosa, attraversi oggi la sua massima crisi.
Augusto Del Noce
-Domanda: Pertini dà a te l’incarico di formare un nuovo governo, cosa fai?
-Tenterei di creare un ministero dell’italianità che tenga conto di che cos’è l’Italia, la nostra psicologia, le nostre secrezioni storiche, il cattolicesimo, le regioni, cosa sono i siciliani e cos’è Venezia. Qualche cosa che al di là della cultura personale dei suoi componenti tentasse continuamente di riproporre qual è il vero Paese, cos’è la cultura del Paese, come si esprime il Paese, a che livello è. Ne ho parlato con Andreotti una volta […] non mi ha risposto ha fatto un sorrisino e mi ha guardato attraverso quegli occhi che sembra vengano da chissà quale oscuro laboratorio.
Federico Fellini
Una modernità singolare
Come sappiamo, il cinema è stato un formidabile luogo di elaborazione dell’identità italiana. Qui il Paese ha prodotto e negoziato una narrazione di sé e allo stesso tempo una comprensione di quella narrazione. Qui ritroviamo anche uno dei motivi di fondo della modernità italiana: l’intenso rapporto della cultura con la politica e le sue forme dominanti assunte nel nostro Novecento, il fascismo, il cristianesimo sociale, il comunismo gramsciano1.
Quella che d’altro canto uno storico come Brunetta ha chiamato la «vocazione letteraria, didattica e vagamente socialisteggiante»2 del cinema italiano, è dovuta a caratteri specifici della storia nazionale. All’arretratezza, a una modernizzazione repentina e incompiuta, alla mancanza di un ceto medio, al celeberrimo scollamento tra il popolo e la «casta» degli intellettuali, secondo un termine usato da Gramsci in tempi non sospetti3.
In Italia, più che altrove, il cinema ha sviluppato la sua naturale propensione allo spettacolo popolare ma contemporaneamente si è prestato a una politicizzazione permanente, secondo una peculiarità specifica della cultura italiana. Con la fine del fascismo, ciò ha dato vita a una battaglia tra le due ideologie egemoni del Paese, quella cattolica e quella comunista.
Se c’è un luogo in cui meglio si fanno visibili le trame di una continuità di fondo tra comunismo italiano e cattolicesimo coi loro retaggi «metafisici», come li definiva Giorgio Galli4, le loro spinte antimoderne e la comune diffidenza verso la democrazia, questo è stato e in parte è ancora proprio il cinema italiano.
Il caso del neorealismo, com’è noto, è esemplare.
L’estenuante dibattito che fiorì in Italia fu innanzitutto uno scontro frontale tra queste due forze, un perfetto modello di «guerra fredda culturale» che, nel frattempo, i film della serie Don Camillo e Peppone proponevano nella più conciliante versione negoziale di affratellamento nazional-popolare.
Si può anche ipotizzare una continuità tra l’ideologia della propaganda fascista del cinema come «arma più forte» e l’iperpoliticizzazione del neorealismo, seppure ovviamente sotto un segno opposto. Un neorealismo, insomma, che «da un lato rovescia l’impostazione politica e i caratteri dell’immaginario fascista, ma dall’altro ne eredita strutture e in parte anche meccanismi di funzionamento». Pur nella diversità degli assunti, «il carattere autoritario del messaggio non si incrina». Un’altra ideologia, certo, che però considerava pur sempre il cinema come un’arma «da usare per il progresso e per una nuova società, ora apertamente socialista, ora ispirata al populismo»5.
Nell’elaborare un proprio immaginario il cinema italiano ha in ogni caso mirabilmente convertito le mancanze del Paese in una caratteristica di forte riconoscibilità, quando non in un punto di forza. A un’identità nazionale incerta ha cioè corrisposto una maggiore capacità di assimilare immaginari «altri» che incontravano in insolite forme di riscrittura l’orizzonte del patrimonio culturale italiano6.
Nell’opera di Fellini ritroviamo innanzitutto questo dato strutturale dell’immaginario italiano, in bilico tra mitologie universali – la Chiesa, l’impero romano – e iperlocali (la costellazione dei comuni, le forti identità e appartenenze regionali). L’universalità delle sue creazioni visive intreccia in modo sistematico il particolarismo di un patrimonio ancestrale. Un patrimonio che, come sulla scia di un sortilegio, sembra evocato dalle profondità dell’inconscio italiano.
Prima ancora che alle visioni felliniane più celebrate, si pensi alla vocalità dei suoi film, a un uso strabiliante della varietà di dialetti che si mescolano agli idiomi stranieri dando vita a un tessuto sonoro indecifrabile, al tempo stesso antichissimo e moderno7.
Una modernità singolare, come diceva Kezich spiegando il disinteresse per la politica e dunque la singolarità di Fellini nel clima ideologico degli anni Cinquanta; «un artista che vive la modernità come assoluto naturale», il cui lavoro «accompagna, e spesso precede, le mutazioni della società»8.
D’altro canto, del «fellinismo» la critica di sinistra più ideologica e radicale degli anni Settanta metteva in rilievo le seduzioni qualunquiste, le spinte reazionarie, l’individualismo piccolo-borghese. Nel suo pamphlet antifelliniano Pietro Angelini scriveva che «alla propaganda politica, Fellini finisce col preferire un’altra propaganda, quella del proprio mondo, l’utopia di una società a propria immagine»9.
Proprio la compresenza di questi due motivi ci spinge a guardare all’opera di Fellini come a un universo che intreccia l’eterogenesi delle traiettorie della modernità italiana.
Critica del paradigma neorealista
A dispetto di un celebrato disinteresse per la politica, anche il cinema di Federico Fellini esprime quella sovrapposizione tra due visioni del mondo, quella cattolica e quella comunista, oppositive eppure inseparabili in una più ampia «ideologia italiana». Un’ideologia da cui, come mostrerà in Amarcord, non è possibile tenere fuori la memoria del fascismo.
Se il cinema italiano del dopoguerra elabora l’incontro e la vicendevole influenza tra le due grandi culture populiste dell’Italia, l’unicum ideologico che esse producono trova nel «caso Fellini» una sua complessa, ulteriore riconfigurazione.
Tornando sui dibattiti innescati in Italia dai suoi film intravediamo l’amalgama tra i problemi di ordine spirituale (ma anche concreto) che il mondo cattolico poneva a quello comunista e, viceversa, le domande di rinnovamento, di trasformazione della società che il comunismo poneva alla cultura cattolica.
A suo modo, vale a dire nascosto dietro il mito dell’autobiografismo e dell’autonomia della creazione artistica, anche Fellini negoziò questo paradosso dell’ideologia italiana. Lo ridefinì in un’opera che col tempo si sarebbe fatta sempre più nazionale e sempre meno popolare, per poi diventare puramente «monumentale».
Uno studioso attento alle polisemie del realismo italiano come Maurizio Grande, ricordava che il periodo neorealista ha coinciso, oltre che con l’affermazione internazionale del nostro cinema, con «il grado più elevato di ideologicizzazione del rapporto tra cinema e realtà»10.
L’allergia felliniana a teorizzare il proprio lavoro non escludeva che nei suoi film si esprimesse implicitamente una critica delle ideologie del realismo. Da questo punto di vista, peraltro, Fellini anticipava nuove possibilità sia compositive che interpretative per il cinema italiano (l’attenzione ai temi dell’inconscio, ad esempio, assente o quasi nella cultura italiana a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta).
In una delle sequenze iniziali di La dolce vita, la conferenza stampa tenuta da Silvia/Anita Ekberg (la diva americana giunta a Roma per girare un film) un giornalista domanda a bruciapelo: «Crede che il neorealismo italiano sia vivo o morto?». L’attrice, un po’ sperduta, rivolge lo sguardo al suo assistente. Questi, invece di tradurre la domanda, le suggerisce direttamente la risposta giusta: «say alive». Fatto contento il critico, la diva può tornare a parlare dell’amore per l’Italia, la pizza, i cannelloni.
Anche se siamo nel 1960, lontani dalle intemperie ideologiche dei dibattiti su Senso (1954), o La terra trema (1948) di Visconti e Umberto D. (1952) di De Sica, il sarcasmo verso uno dei ritornelli più longevi della cultura italiana è inequivocabile. Per Fellini, il mito del neorealismo in un Paese che è vertiginosamente proiettato dentro la sua belle époque inattesa, come scriveva Calvino nel 196111, cela una formula vuota, ormai strumentalizzata e tenuta in vita solo in nome di una battaglia politica.
L’ironia felliniana non tralascia poi neanche l’ultima, crepuscolare fase del dibattito. Quella del «buco della serratura» e del «pedinamento», secondo le furtive immagini del suo ideatore e più instancabile promulgatore Cesare Zavattini – le cui premesse erano già in un articolo del 1941 in cui Mario Alicata e Giuseppe De Santis affermavano: «un giorno creeremo il nostro film più bello seguendo il passo lento e stanco dell’operaio che torna alla sua casa, narrando l’essenziale poesia di una vita nuova e pura che chiude in se stessa il segreto della sua aristocratica bellezza»12.
L’operaio pedinato diventa, in Giulietta degli spiriti, il marito fedifrago della protagonista che per avere la prova dei suoi tradimenti assolda un investigatore privato armato di cinepresa.
Nella scena in cui le immagini dell’uomo a spasso con l’amante sono mostrate alla donna, il commento dell’investigatore è magistralmente sospeso tra confutazione del zavattinismo e «autoassoluzione biografica» (in quel periodo, Giulietta Masina, in preda alla gelosia, fece effettivamente pedinare Fellini)13:
Per quanto grottesco possa suonare, è proprio in questo gioco di specchi tra verità e finzione, su cui certo grava l’ombra lunga di Pirandello, che Fellini trova l’unico modo di conservare lo spirito di rinnovamento del neorealismo. Come nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore, in cui il diario si mescola al racconto e «il dramma si svolge durante la confezione di una pellicola», neorealismo significava per Fellini ripensare il rapporto tra cinema e vita in un unico atto, secondo un gesto che in 8½ troverà la sua più celebre evocazione.
Questo, com’è noto, era l’insegnamento ricevuto nell’apprendistato con Rossellini. La ge...