Saggi e interventi. Questioni di metodo
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Saggi e interventi. Questioni di metodo

Bruno Leoni. Opere complete Vol. 7

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Bruno Leoni. Opere complete Vol. 7

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In questo volume delle "Opere complete" di Bruno Leoni sono inclusi gli scritti primariamente dedicati a questioni epistemologiche e metodologiche.Nella sua ricerca lo studioso torinese prestò sempre grande attenzione alla natura delle scienze sociali, sforzandosi d'interconnettere la sfera del diritto, quella dell'economia e quella della politica. Quando diede vita alla rivista "Il Politico", l'obiettivo – come scrisse nel testo che aprì il primo numero – era proprio quello di superare ogni chiusura disciplinare: «l'economia apparirà allora né più né meno di un ramo della scienza politica; mentre la giuridica (…) apparirà essere l'altro importantissimo ramo della scienza politica».In vari scritti traspare un'impostazione individualista, una netta attenzione al rapporto tra scienze esatte e scienze umane, una ferma persuasione (di stampo weberiano) che la ricerca debba essere avalutativa, se non vuole smarrire il proprio carattere di scientificità.Nel testo posto a introduzione Carlo Lottieri sottolinea come Leoni abbia elaborato – sebbene in forma incompiuta – una teoria generale della società che si proponeva d'integrare diritto, economia e politica, in una prospettiva che coniugava il rigore intellettuale a una dichiarata volontà di difendere le libertà di tutti.

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1. A proposito di scienze nuove [1950]

Scriveva Walter Bagehot che se per poco vi riesce di indurre un Inglese “medio” (ed avrebbe potuto dire: un Tedesco, o un Francese, o un Italiano) a pensare se esistano, “lumache a Sirio”, costui avrà ben presto un’opinione propria sull’argomento. Vi sarà forse difficile – notava il Bagehot – farlo riflettere sulla questione, ma, se vi riuscite, egli non potrà rimanere a lungo in un atteggiamento di incertezza, ma vorrà giungere ad una qualche decisione. Per ogni questione – concludeva questo autore – avviene la stessa cosa: così un droghiere, ha un credo completo per quanto riguarda la politica estera, una giovane signorina possiede una teoria completa dei sacramenti, e il droghiere, o la giovane signora, non hanno il minimo dubbio sulle loro opinioni rispettive.
Si potrebbe aggiungere che il bisogno di venire a conclusioni, e l’assenza di dubbi sulle conclusioni raggiunte, è tanto maggiore quanto più ci si allontana da Sirio e si considera la Terra, e quanto più, sulla Terra, si considerano la vita degli uomini, la loro società, le loro “strutture”.
La presunzione – ad esempio – di giudicare della bontà delle leggi, pur senza avere alcuna particolare competenza in questo campo, non è propria soltanto di uno Hegel (il quale, come è noto, considerava quel giudizio altrettanto facile quanto quello relativo alla bontà di un paio di scarpe), ma è caratteristica di ogni modesto mortale, ed è inoltre assai antica, come sanno coloro cui siano familiari certi dialoghi platonici, o certe commedie di Aristofane.
Ma occorre francamente riconoscere che non è estranea, a tale presunzione dell’uomo “medio”, la convinzione più o meno definita che le nozioni relative all’uomo ed alla società non siano patrimonio indiscutibile di alcuna speciale categoria di studiosi. La questione delle “lumache a Sirio” appare infatti, ad ognuno, evidentemente connessa con un campo di studi particolari, reali o ipotetici, presenti o futuri, in base ai quali si possa contare, se non su una conoscenza attuale, almeno, come avrebbe detto il Kant, su “un’esperienza possibile”, relativa all’argomento. Ma difficilmente l’uomo medio pensa a questo modo a proposito delle scienze chiamate “sociali” o “storiche” o “dello spirito” o “umane” o “morali” e così via: gli stessi strumenti di ricerca, in queste scienze, non sono costruiti con alcuna materia tangibile, né presentano alcun aspetto particolare che colpisca lo sguardo. La gente finisce quindi volentieri col pensare che tali strumenti non esistano affatto, né possano inventarsi in futuro.
E forse non è casuale la circostanza che proprio un popolo come l’italiano, così incline a raffigurarsi le cose, abbia sempre fatto poco conto di queste scienze, il cui reale oggetto non può essere veramente raffigurato, ed i cui strumenti di indagine non sono “visibili”. È infatti innegabile che il nostro Paese si trova, a questo riguardo, in una situazione particolare: lo stesso Macchiavelli, che pure è considerato – e, crediamo, a buon diritto – il fondatore della scienza politica, ci appare sorretto nella sua ricerca dalla convinzione che la storia degli stati sia facilmente raffigurabile: realtà che si vede e che si tocca, appartenente al dominio diretto dell’esperienza individuale di ognuno, che può osservare gli atti del “principe” e quasi scrutarne il volto, per leggervi le ire, gli odi, gli amori, le cupidigie. La natura complessa, schiettamente concettuale, dello “stato”, sembra quasi sfuggire al grande Fiorentino; e non è forse arrischiato il sospetto che egli non avrebbe, con tanto animo, affrontato il suo tema, se l’aspetto visibile e rappresentabile di esso gli si fosse rilevato meno essenziale di quanto egli credeva, per la fondazione di quella scienza politica, ch’egli pur seppe vigorosamente enucleare dalla deontologia dei pensatori medievali.
E se, anche dopo il Machiavelli, il nostro Paese ha potuto vantare alcuni nomi illustri di cultori della politica, dell’economia, dell’istorica, della “sociologia”, esso manca tuttora di una larga tradizione di studi e di insegnamenti che possa paragonarsi a quella della Germania, della stessa Francia, dell’Inghilterra, degli Stati Uniti d’America: causa non ultima, forse, dell’errore che commisero gli educational officers del governo alleato, quando non seppero scorgere nelle nostre Facoltà di Scienze Politiche, altro che l’espressione di una “propaganda” di partito o di regime, e non pensarono che quelle scuole potessero essere simili ad altre, pur così numerose e gloriose, e di altri paesi. Oggi l’insoddisfazione per questo stato di cose comincia a sentirsi, fra noi, vivamente dalle persone di cultura, e da molte parti si auspica il rifiorire delle scienze “sociali”.
Ci sembrano interessanti, a questo proposito, gli scritti recenti di alcuni studiosi, i quali, nell’imminenza della riapertura del Congresso Internazionale di Sociologia, non solo lamentano che ancora l’Italia «non possa mettere in linea un solo titolare di quella materia», ma combattono l’opinione degli scettici che, traendo argomento dell’insufficiente dignità scientifica degli studi “sociali”, vorrebbero continuare a tener questi studi al bando dalla nostra cultura. Così Camillo Pellizzi, in un lucido saggio sulla Rivista Internazionale di Scienze Sociali (gennaio-febbraio 1950) e in una relazione al Centro Romano di Comparazione e di Sintesi, pubblicata sulla Rivista di quel Centro (Responsabilità nel Sapere, 1949, 17-18) ha recentemente difeso con molto calore quelle che egli chiama le «scienze nuove dell’uomo e della società», ed ha tracciato un efficace profilo dei «nuovi orientamenti per l’indagine sociologica». Molto delle tesi del Pellizzi ci trovano pienamente consenzienti. Pare anche a noi, infatti, che l’attendere, in Italia, il progresso degli studi “sociali”, per mettere a disposizione degli studiosi gli istituti, i laboratori, le biblioteche, e i mezzi di sussistenza necessari per assicurare agli studiosi stessi la possibilità di un lavoro proficuo, sia in realtà un modo di rinviare sine die la questione del progresso di quegli studi. In tutte le discipline, gli inizi sono difficili: ragione insufficiente, peraltro, per rinunciare agli inizi, o per preoccuparsi di avere di fronte, in un corpus bene ordinato e coerente, quelle discipline, prima di mettersi a coltivarle. Proprio perché persuaso di ciò, chi scrive ha personalmente propugnato la necessità e l’urgenza di riaprire in Italia – come poi è stato fatto – le già esistenti Facoltà di Scienze Politiche, e non già (si badi) di riaprirle pro forma (come, in attesa della futura legge disciplinatrice di queste Facoltà, qualche autorità accademica o di governo avrebbe forse voluto), ma di ripristinarle in modo che lo studente vi trovasse al più presto un complesso di insegnamenti effettivi: impartiti dal maggior numero di docenti possibile nell’attuale situazione di quegli studi, col maggior possibile sussidio di libri e di riviste, italiane e straniere, e infine colla maggiore assistenza, materiale e morale, non soltanto dei docenti, ma anche di tutti color – fra i cittadini – che hanno interesse a che si intraprenda uno studio oggettivo dei molti problemi che di solito vengono (da noi più che altrove) sottratti all’indagine scientifica, ed abbandonati alla passione politica.
È molto probabile che a tenere al bando della cultura italiana, per così lungo tempo, quest’ordine di studi, abbia largamente contribuito – come nota di sfuggita lo stesso Pellizzi – l’autorità dell’insegnamento del Croce, la cui sfiducia nel valore teoretico della Scienze in generale è così grande, che soltanto è superata dalla sfiducia di quel filosofo in un valore qualsiasi (teoretico o pratico) delle scienze sociali in particolare.
In verità, il pensiero del Croce, come chi scrive ebbe già occasione di rilevare alcuni anni or sono, non fu – a questo riguardo – sempre uniforme: e una fase in cui quel pensiero parve rifarsi all’insegnamento del Windelband e del Rickert (per i quali anche il dominio degli atti e dei fatti umani poteva essere oggetto di sistemazione “nomotetica” non meno che di descrizione “idiografica”), si alternò e forse infine cedette ad un’altra fase, in cui la nomotetica di tipo naturalistico veniva sdegnosamente ripudiata, e scacciata da quell’ambito che al Croce parve degno soltanto di indagine storica, intesa – secondo il senso crociano della parola “Storica” – come indagine filosofica.
Ma tutti coloro che non hanno seguito il Croce nella sua totale negazione del valore teoretico della Scienza, e che non hanno accettato, inoltre, la surrettizia identificazione ch’egli andava compiendo, e che non sfuggì allo sguardo acuto del Troeltsch, della Storia, intesa come filosofia, colla storia, coltivata in realtà come storiografia nel senso tradizionale del termine – sentono oggi l’esigenza di liberarsi dalla stretta del pensiero crociano, ed auspicano, anche in Italia, l’avvento di una cultura, in cui la Scienza non debba più apparire – come il Croce vorrebbe – in veste di paradossale simia o di ancilla della filosofia, e per cui, inoltre, le “scienze sociali” abbiano pieno diritto di cittadinanza nel globus intellectualis.
È possibile la “scienza sociale”? E come essa è possibile? Il Pellizzi dà una risposta positiva alla prima domanda, e cerca di dare una risposta soddisfacente alla seconda.
Noi non possiamo non sottoscrivere quanto egli afferma sul dato fisico, che è anch’esso, in primo luogo, e ancor prima di essere un “dato”, fatto storico, al pari del “dato sociale”: cosicché non vedesi quale differenza possa esservi, per questo riguardo, tra le scienze corrispondenti al “dato fisico” e quelle corrispondenti al “dato umano”, o “sociale”. D’altra parte, ci pare esatto il rilievo che la considerazione empirica non consente ad alcuna scienza di stabilire delle leggi di tipo deterministico, le quali esulerebbero dal dominio della pura empiria: e che, pertanto, anche per questo rispetto, nessuna fondamentale differenza può ravviarsi fra le scienze fisiche, che operano col metodo empirico, e le scienze “umane” o “sociali”, che operino collo stesso metodo. Non meno accettabile ci pare poi l’altra considerazione del Pellizzi, che anche nel dominio dei fatti umani le previsioni si son rivelate, e si rivelano possibili, come nel dominio degli eventi fisici; mentre al di qua, e al di là, degli schemi della scienza – nel dominio dei fatti “umani”, non più che in quello degli eventi “fisici” – sta la storia, come richiamo al concreto, all’individuato, all’irrepetibile e all’irreversibile: ossia come avvertimento, e segnale, dei limiti dell’empiria, nella consapevolezza dei quali consiste ciò che si suol chiamare il “senso storico”.
Un po’ meno convincente ci sembra tuttavia, nel Pellizzi, la tendenza a presentare, dinanzi agli occhi del lettore italiano, il maggior numero possibile di scienze denominate “dell’uomo”, o “della società”, senza un sufficiente approfondimento (che è poi, in verità, assai difficile) della struttura metodologica di ognuna di quelle scienze. Senza dubbio, è prevalente e legittima preoccupazione del Pellizzi, quella di mostrare che molto, e soprattutto molto di nuovo, specie in altri paesi, si è fatto in questi campi d’indagine pur tutt’altro che ignoti agli antichi. Ma la dimostrazione, per il motivo detto di sopra, appare un poco caotica, ed il complesso, che il Pellizzi richiama, delle discipline “umane”, ci sembra piuttosto un coacervo di cose disparate, che un insieme omogeneo: la criminologia, gli studi sulla divisione del lavoro, quelli sui ceti, sui complessi civici, sui riflessi ecologici, le ricerche sugli organismi e partiti politici, le indagini sul “potere politico”, la caratterologia, l’etnologia, l’antropologia generale, lo studio comparatistico dei gruppi umani, dei loro caratteri, abiti ed istituti, la fisiopatologia, la psicopatologia generale e sociale, la scienza psicologica del fenomeno cinematografico, la psicoanalisi, il “behaviourismo”, la semantica, la linguistica… Il quadro è di assai vaste proporzioni, ma così come ci è presentato, esso appare alquanto confuso, e forse non in tutto idoneo a rassicurare gli scettici, se non sulla novità, almeno sul rigore e sulla coerenza metodica di molti di questi studi.
Certo ci sembra esatta, e non possiamo non sottoscriverla, l’opinione del Pellizzi sulla fecondità del metodo “behaviouristico” per l’esame di certi fenomeni biologici, anziché (come i “behaviouristi” vorrebbero) per quello delle attività elevate dell’uomo. Anche noi, infatti, riteniamo che movendo dallo studio dei riflessi condizionanti, e dagli esperimenti del “cane” e del “campanello”, non si possa andare molto avanti nella conoscenza del pensiero dell’uomo, così come non si potrebbe procedere molto, nella conoscenza di una sinfonia di Beethoven o di una cantata di Bach, movendo dallo studio della acustica e dagli esperimenti relativi a questo ramo della fisica.
Analogamente, ci sembra di dover sottoscrivere il giudizio, secondo il quale lo sforzo di riportare il dominio delle conoscenze sociali a quello delle conoscenze fisiche, mediante una “riduzione” del linguaggio delle prime a quello delle seconde (sforzo compiuto oggi, come è noto, dal Carnap e dagli altri seguaci del positivismo logico) non può riuscire molto fecondo, poiché tende ad elidere, in omaggio ad una rigorosa precisione di termini – forme di comprensione specificamente proprie delle scienze sociali, ed a misconoscere la maggior complessità e la peculiare natura di tali forme, rispetto a quelle di altre scienze, ed in particolare delle scienze fisiche.
Siamo infine d’accordo sull’importanza dei “simboli” per lo studio delle società umane, ed anzi sul valore discriminale dei “simboli”, al fine di stabilire quel che possa intendersi per “società” umana: «Studia empiricamente la società e i fatti sociali – scrive il Pellizzi nella Relazione al Centro romano, citata – vorrà dire in primo luogo e come fondamento di altre indagini, studiare i simboli, la loro struttura, l’origine (per quanto lo si possa), e i loro rapporti reciproci, la loro persistenza, propagazione, degradazione ed estinzione»: parole tutte che vorremmo volentieri fare nostre. Ci sembra tuttavia che il maggiore sforzo dello studioso di “scienze sociali” vada oggi compiuto nel senso di approfondire il metodo dell’indagine proprio di tali scienze.
È naturale e legittima la difesa, condotta dal Pellizzi, del carattere empirico di quell’indagine; empirico, poiché, come dice bene il Pellizzi, una tale indagine «isola gli eventi del complesso concreto nel quale si presentano alla conoscenza, in ordine a fini particolari, ogni volta precisati; li raggruppa o distingue secondo certe loro approssimative affinità e dissomiglianze; e fra gruppi e strutture stabilisce approssimativi rapporti, dei quali cerca poi di precisare la frequenza e la probabilità».
Tuttavia, quando si è rilevato il carattere empirico dell’indagine nelle scienze sociali, si è appena, ci sembra, all’inizio del lavoro diretto a precisare la natura del metodo in queste scienze. A noi pare che esista una differenza specifica nell’empiria propria delle scienze sociali, che, se è forse opportuno attenuare, per ragioni apologetiche, di fronte agli scettici, è tuttavia necessario mettere bene in luce, se si vuol raggiungere una piena consapevolezza critica, ed uscire dall’equivoco che tuttora circonda quelle scienze.
I “behaviouristi” stanno compiendo uno sforzo energico proprio per eliminare la differenza tra le due empirie, quella delle scienze a tipo fisico, e quella delle “scienze sociali”: alla base di un tale sforzo sta il convincimento che soltanto riconducendo l’empiria delle seconde a quella delle prime, si possa dar veste e dignità scientifica agli studi sull’uomo e sulla società. Il problema che i “behaviouristi” tentano di risolvere è quindi quello di estendere alle “scienze sociali” tutti i metodi delle scienze a tipo “fisico”, e di escludere ogni altro metodo che dalle scienze fisiche non sia stato applicato. Noi non crediamo (e ci sembra che non lo creda neppure il Pellizzi) che un tale sforzo sia destinato al successo in ciò che soprattutto si propone: l’unificazione del metodo. Nelle scienze sociali l’osservazione si esercita, se così è possibile dire, alle soglie del campo d’indagine, ma non vi penetra. Inoltre, il lavoro di isolamento, proprio dell’empiria, ha scarse probabilità di successo se lo si paragona al corrispondente lavoro proprio delle scienze fisiche. Infine, la previsione riesce nelle scienze sociali molto meno efficacemente che nelle scienze di tipo fisico, e in ambiti strettamente limitati. Queste difficoltà sono note da molto tempo, e al fatto di averle volute ignorare furono dovuti gli insuccessi di molte semplicistiche trasposizioni e contraffazioni dei metodi delle scienze fisiche che si annoverano, vorremmo dire, tra i peccati giovanili delle scienze sociali.
Perciò non basta dire, crediamo, che anche nelle scienze sociali si isolano gli oggetti di studio, occorre stabilire, mediante l’analisi metodologica, e utilizzando l’esperienza di ciò che è stato già tentato, se, e in che misura, un tale “isolamento” sia possibile, e, inoltre, quale particolare natura presenti l’isolamento nelle indagini sociali: nelle quali si prescinde in realtà (come è stato acutamente avvertito in tempi recenti) non soltanto da alcuno degli aspetti fisici (esprimibili in termini di coordinate spazio-temporali) del “fenomeno” studiato, bensì piuttosto, in toto, dagli aspetti fisici del “fenomeno”. Il quale cessa, per questo stesso, di essere “osservabile” nel senso delle scienze fisiche, e diviene un oggetto rilevante di studio, indipendentemente dal tempo e dallo spazio, mercé determinate qualificazioni, che stanno alla base dell’indagine, e che non si possono ridurre a semplici astrazioni dell’esperienza sensibile. Una classe, una nazione, una battaglia, una rivoluzione, un periodo storico, un istituto, sono entità senza tempo e senza spazio, entità, come è stato detto, interamente “costruite”, e pertanto non “verificabili” mediante l’uso di quella che il Kant avrebbe chiamato l’intuizione sensibile. È indubbio, e la revisione metodologica delle scienze a tipo “fisico” lo ha ormai pienamente rilevato, il fatto che anche l’empiria di queste scienze “costruisce” i suoi oggetti di studio, in quanto almeno li pone, come spiritosamente diceva lo Eddington, sul “letto di Procuste”: ossia li ritaglia, se così è possibile dire, nella viva concretezza stor...

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