1. A proposito di scienze nuove [1950]
Scriveva Walter Bagehot che se per poco vi riesce di indurre un Inglese âmedioâ (ed avrebbe potuto dire: un Tedesco, o un Francese, o un Italiano) a pensare se esistano, âlumache a Sirioâ, costui avrĂ ben presto unâopinione propria sullâargomento. Vi sarĂ forse difficile â notava il Bagehot â farlo riflettere sulla questione, ma, se vi riuscite, egli non potrĂ rimanere a lungo in un atteggiamento di incertezza, ma vorrĂ giungere ad una qualche decisione. Per ogni questione â concludeva questo autore â avviene la stessa cosa: cosĂŹ un droghiere, ha un credo completo per quanto riguarda la politica estera, una giovane signorina possiede una teoria completa dei sacramenti, e il droghiere, o la giovane signora, non hanno il minimo dubbio sulle loro opinioni rispettive.
Si potrebbe aggiungere che il bisogno di venire a conclusioni, e lâassenza di dubbi sulle conclusioni raggiunte, Ăš tanto maggiore quanto piĂč ci si allontana da Sirio e si considera la Terra, e quanto piĂč, sulla Terra, si considerano la vita degli uomini, la loro societĂ , le loro âstruttureâ.
La presunzione â ad esempio â di giudicare della bontĂ delle leggi, pur senza avere alcuna particolare competenza in questo campo, non Ăš propria soltanto di uno Hegel (il quale, come Ăš noto, considerava quel giudizio altrettanto facile quanto quello relativo alla bontĂ di un paio di scarpe), ma Ăš caratteristica di ogni modesto mortale, ed Ăš inoltre assai antica, come sanno coloro cui siano familiari certi dialoghi platonici, o certe commedie di Aristofane.
Ma occorre francamente riconoscere che non Ăš estranea, a tale presunzione dellâuomo âmedioâ, la convinzione piĂč o meno definita che le nozioni relative allâuomo ed alla societĂ non siano patrimonio indiscutibile di alcuna speciale categoria di studiosi. La questione delle âlumache a Sirioâ appare infatti, ad ognuno, evidentemente connessa con un campo di studi particolari, reali o ipotetici, presenti o futuri, in base ai quali si possa contare, se non su una conoscenza attuale, almeno, come avrebbe detto il Kant, su âunâesperienza possibileâ, relativa allâargomento. Ma difficilmente lâuomo medio pensa a questo modo a proposito delle scienze chiamate âsocialiâ o âstoricheâ o âdello spiritoâ o âumaneâ o âmoraliâ e cosĂŹ via: gli stessi strumenti di ricerca, in queste scienze, non sono costruiti con alcuna materia tangibile, nĂ© presentano alcun aspetto particolare che colpisca lo sguardo. La gente finisce quindi volentieri col pensare che tali strumenti non esistano affatto, nĂ© possano inventarsi in futuro.
E forse non Ăš casuale la circostanza che proprio un popolo come lâitaliano, cosĂŹ incline a raffigurarsi le cose, abbia sempre fatto poco conto di queste scienze, il cui reale oggetto non puĂČ essere veramente raffigurato, ed i cui strumenti di indagine non sono âvisibiliâ. Ă infatti innegabile che il nostro Paese si trova, a questo riguardo, in una situazione particolare: lo stesso Macchiavelli, che pure Ăš considerato â e, crediamo, a buon diritto â il fondatore della scienza politica, ci appare sorretto nella sua ricerca dalla convinzione che la storia degli stati sia facilmente raffigurabile: realtĂ che si vede e che si tocca, appartenente al dominio diretto dellâesperienza individuale di ognuno, che puĂČ osservare gli atti del âprincipeâ e quasi scrutarne il volto, per leggervi le ire, gli odi, gli amori, le cupidigie. La natura complessa, schiettamente concettuale, dello âstatoâ, sembra quasi sfuggire al grande Fiorentino; e non Ăš forse arrischiato il sospetto che egli non avrebbe, con tanto animo, affrontato il suo tema, se lâaspetto visibile e rappresentabile di esso gli si fosse rilevato meno essenziale di quanto egli credeva, per la fondazione di quella scienza politica, châegli pur seppe vigorosamente enucleare dalla deontologia dei pensatori medievali.
E se, anche dopo il Machiavelli, il nostro Paese ha potuto vantare alcuni nomi illustri di cultori della politica, dellâeconomia, dellâistorica, della âsociologiaâ, esso manca tuttora di una larga tradizione di studi e di insegnamenti che possa paragonarsi a quella della Germania, della stessa Francia, dellâInghilterra, degli Stati Uniti dâAmerica: causa non ultima, forse, dellâerrore che commisero gli educational officers del governo alleato, quando non seppero scorgere nelle nostre FacoltĂ di Scienze Politiche, altro che lâespressione di una âpropagandaâ di partito o di regime, e non pensarono che quelle scuole potessero essere simili ad altre, pur cosĂŹ numerose e gloriose, e di altri paesi. Oggi lâinsoddisfazione per questo stato di cose comincia a sentirsi, fra noi, vivamente dalle persone di cultura, e da molte parti si auspica il rifiorire delle scienze âsocialiâ.
Ci sembrano interessanti, a questo proposito, gli scritti recenti di alcuni studiosi, i quali, nellâimminenza della riapertura del Congresso Internazionale di Sociologia, non solo lamentano che ancora lâItalia «non possa mettere in linea un solo titolare di quella materia», ma combattono lâopinione degli scettici che, traendo argomento dellâinsufficiente dignitĂ scientifica degli studi âsocialiâ, vorrebbero continuare a tener questi studi al bando dalla nostra cultura. CosĂŹ Camillo Pellizzi, in un lucido saggio sulla Rivista Internazionale di Scienze Sociali (gennaio-febbraio 1950) e in una relazione al Centro Romano di Comparazione e di Sintesi, pubblicata sulla Rivista di quel Centro (ResponsabilitĂ nel Sapere, 1949, 17-18) ha recentemente difeso con molto calore quelle che egli chiama le «scienze nuove dellâuomo e della società », ed ha tracciato un efficace profilo dei «nuovi orientamenti per lâindagine sociologica». Molto delle tesi del Pellizzi ci trovano pienamente consenzienti. Pare anche a noi, infatti, che lâattendere, in Italia, il progresso degli studi âsocialiâ, per mettere a disposizione degli studiosi gli istituti, i laboratori, le biblioteche, e i mezzi di sussistenza necessari per assicurare agli studiosi stessi la possibilitĂ di un lavoro proficuo, sia in realtĂ un modo di rinviare sine die la questione del progresso di quegli studi. In tutte le discipline, gli inizi sono difficili: ragione insufficiente, peraltro, per rinunciare agli inizi, o per preoccuparsi di avere di fronte, in un corpus bene ordinato e coerente, quelle discipline, prima di mettersi a coltivarle. Proprio perchĂ© persuaso di ciĂČ, chi scrive ha personalmente propugnato la necessitĂ e lâurgenza di riaprire in Italia â come poi Ăš stato fatto â le giĂ esistenti FacoltĂ di Scienze Politiche, e non giĂ (si badi) di riaprirle pro forma (come, in attesa della futura legge disciplinatrice di queste FacoltĂ , qualche autoritĂ accademica o di governo avrebbe forse voluto), ma di ripristinarle in modo che lo studente vi trovasse al piĂč presto un complesso di insegnamenti effettivi: impartiti dal maggior numero di docenti possibile nellâattuale situazione di quegli studi, col maggior possibile sussidio di libri e di riviste, italiane e straniere, e infine colla maggiore assistenza, materiale e morale, non soltanto dei docenti, ma anche di tutti color â fra i cittadini â che hanno interesse a che si intraprenda uno studio oggettivo dei molti problemi che di solito vengono (da noi piĂč che altrove) sottratti allâindagine scientifica, ed abbandonati alla passione politica.
Ă molto probabile che a tenere al bando della cultura italiana, per cosĂŹ lungo tempo, questâordine di studi, abbia largamente contribuito â come nota di sfuggita lo stesso Pellizzi â lâautoritĂ dellâinsegnamento del Croce, la cui sfiducia nel valore teoretico della Scienze in generale Ăš cosĂŹ grande, che soltanto Ăš superata dalla sfiducia di quel filosofo in un valore qualsiasi (teoretico o pratico) delle scienze sociali in particolare.
In veritĂ , il pensiero del Croce, come chi scrive ebbe giĂ occasione di rilevare alcuni anni or sono, non fu â a questo riguardo â sempre uniforme: e una fase in cui quel pensiero parve rifarsi allâinsegnamento del Windelband e del Rickert (per i quali anche il dominio degli atti e dei fatti umani poteva essere oggetto di sistemazione ânomoteticaâ non meno che di descrizione âidiograficaâ), si alternĂČ e forse infine cedette ad unâaltra fase, in cui la nomotetica di tipo naturalistico veniva sdegnosamente ripudiata, e scacciata da quellâambito che al Croce parve degno soltanto di indagine storica, intesa â secondo il senso crociano della parola âStoricaâ â come indagine filosofica.
Ma tutti coloro che non hanno seguito il Croce nella sua totale negazione del valore teoretico della Scienza, e che non hanno accettato, inoltre, la surrettizia identificazione châegli andava compiendo, e che non sfuggĂŹ allo sguardo acuto del Troeltsch, della Storia, intesa come filosofia, colla storia, coltivata in realtĂ come storiografia nel senso tradizionale del termine â sentono oggi lâesigenza di liberarsi dalla stretta del pensiero crociano, ed auspicano, anche in Italia, lâavvento di una cultura, in cui la Scienza non debba piĂč apparire â come il Croce vorrebbe â in veste di paradossale simia o di ancilla della filosofia, e per cui, inoltre, le âscienze socialiâ abbiano pieno diritto di cittadinanza nel globus intellectualis.
Ă possibile la âscienza socialeâ? E come essa Ăš possibile? Il Pellizzi dĂ una risposta positiva alla prima domanda, e cerca di dare una risposta soddisfacente alla seconda.
Noi non possiamo non sottoscrivere quanto egli afferma sul dato fisico, che Ăš anchâesso, in primo luogo, e ancor prima di essere un âdatoâ, fatto storico, al pari del âdato socialeâ: cosicchĂ© non vedesi quale differenza possa esservi, per questo riguardo, tra le scienze corrispondenti al âdato fisicoâ e quelle corrispondenti al âdato umanoâ, o âsocialeâ. Dâaltra parte, ci pare esatto il rilievo che la considerazione empirica non consente ad alcuna scienza di stabilire delle leggi di tipo deterministico, le quali esulerebbero dal dominio della pura empiria: e che, pertanto, anche per questo rispetto, nessuna fondamentale differenza puĂČ ravviarsi fra le scienze fisiche, che operano col metodo empirico, e le scienze âumaneâ o âsocialiâ, che operino collo stesso metodo. Non meno accettabile ci pare poi lâaltra considerazione del Pellizzi, che anche nel dominio dei fatti umani le previsioni si son rivelate, e si rivelano possibili, come nel dominio degli eventi fisici; mentre al di qua, e al di lĂ , degli schemi della scienza â nel dominio dei fatti âumaniâ, non piĂč che in quello degli eventi âfisiciâ â sta la storia, come richiamo al concreto, allâindividuato, allâirrepetibile e allâirreversibile: ossia come avvertimento, e segnale, dei limiti dellâempiria, nella consapevolezza dei quali consiste ciĂČ che si suol chiamare il âsenso storicoâ.
Un poâ meno convincente ci sembra tuttavia, nel Pellizzi, la tendenza a presentare, dinanzi agli occhi del lettore italiano, il maggior numero possibile di scienze denominate âdellâuomoâ, o âdella societĂ â, senza un sufficiente approfondimento (che Ăš poi, in veritĂ , assai difficile) della struttura metodologica di ognuna di quelle scienze. Senza dubbio, Ăš prevalente e legittima preoccupazione del Pellizzi, quella di mostrare che molto, e soprattutto molto di nuovo, specie in altri paesi, si Ăš fatto in questi campi dâindagine pur tuttâaltro che ignoti agli antichi. Ma la dimostrazione, per il motivo detto di sopra, appare un poco caotica, ed il complesso, che il Pellizzi richiama, delle discipline âumaneâ, ci sembra piuttosto un coacervo di cose disparate, che un insieme omogeneo: la criminologia, gli studi sulla divisione del lavoro, quelli sui ceti, sui complessi civici, sui riflessi ecologici, le ricerche sugli organismi e partiti politici, le indagini sul âpotere politicoâ, la caratterologia, lâetnologia, lâantropologia generale, lo studio comparatistico dei gruppi umani, dei loro caratteri, abiti ed istituti, la fisiopatologia, la psicopatologia generale e sociale, la scienza psicologica del fenomeno cinematografico, la psicoanalisi, il âbehaviourismoâ, la semantica, la linguistica⊠Il quadro Ăš di assai vaste proporzioni, ma cosĂŹ come ci Ăš presentato, esso appare alquanto confuso, e forse non in tutto idoneo a rassicurare gli scettici, se non sulla novitĂ , almeno sul rigore e sulla coerenza metodica di molti di questi studi.
Certo ci sembra esatta, e non possiamo non sottoscriverla, lâopinione del Pellizzi sulla feconditĂ del metodo âbehaviouristicoâ per lâesame di certi fenomeni biologici, anzichĂ© (come i âbehaviouristiâ vorrebbero) per quello delle attivitĂ elevate dellâuomo. Anche noi, infatti, riteniamo che movendo dallo studio dei riflessi condizionanti, e dagli esperimenti del âcaneâ e del âcampanelloâ, non si possa andare molto avanti nella conoscenza del pensiero dellâuomo, cosĂŹ come non si potrebbe procedere molto, nella conoscenza di una sinfonia di Beethoven o di una cantata di Bach, movendo dallo studio della acustica e dagli esperimenti relativi a questo ramo della fisica.
Analogamente, ci sembra di dover sottoscrivere il giudizio, secondo il quale lo sforzo di riportare il dominio delle conoscenze sociali a quello delle conoscenze fisiche, mediante una âriduzioneâ del linguaggio delle prime a quello delle seconde (sforzo compiuto oggi, come Ăš noto, dal Carnap e dagli altri seguaci del positivismo logico) non puĂČ riuscire molto fecondo, poichĂ© tende ad elidere, in omaggio ad una rigorosa precisione di termini â forme di comprensione specificamente proprie delle scienze sociali, ed a misconoscere la maggior complessitĂ e la peculiare natura di tali forme, rispetto a quelle di altre scienze, ed in particolare delle scienze fisiche.
Siamo infine dâaccordo sullâimportanza dei âsimboliâ per lo studio delle societĂ umane, ed anzi sul valore discriminale dei âsimboliâ, al fine di stabilire quel che possa intendersi per âsocietĂ â umana: «Studia empiricamente la societĂ e i fatti sociali â scrive il Pellizzi nella Relazione al Centro romano, citata â vorrĂ dire in primo luogo e come fondamento di altre indagini, studiare i simboli, la loro struttura, lâorigine (per quanto lo si possa), e i loro rapporti reciproci, la loro persistenza, propagazione, degradazione ed estinzione»: parole tutte che vorremmo volentieri fare nostre. Ci sembra tuttavia che il maggiore sforzo dello studioso di âscienze socialiâ vada oggi compiuto nel senso di approfondire il metodo dellâindagine proprio di tali scienze.
Ă naturale e legittima la difesa, condotta dal Pellizzi, del carattere empirico di quellâindagine; empirico, poichĂ©, come dice bene il Pellizzi, una tale indagine «isola gli eventi del complesso concreto nel quale si presentano alla conoscenza, in ordine a fini particolari, ogni volta precisati; li raggruppa o distingue secondo certe loro approssimative affinitĂ e dissomiglianze; e fra gruppi e strutture stabilisce approssimativi rapporti, dei quali cerca poi di precisare la frequenza e la probabilità ».
Tuttavia, quando si Ăš rilevato il carattere empirico dellâindagine nelle scienze sociali, si Ăš appena, ci sembra, allâinizio del lavoro diretto a precisare la natura del metodo in queste scienze. A noi pare che esista una differenza specifica nellâempiria propria delle scienze sociali, che, se Ăš forse opportuno attenuare, per ragioni apologetiche, di fronte agli scettici, Ăš tuttavia necessario mettere bene in luce, se si vuol raggiungere una piena consapevolezza critica, ed uscire dallâequivoco che tuttora circonda quelle scienze.
I âbehaviouristiâ stanno compiendo uno sforzo energico proprio per eliminare la differenza tra le due empirie, quella delle scienze a tipo fisico, e quella delle âscienze socialiâ: alla base di un tale sforzo sta il convincimento che soltanto riconducendo lâempiria delle seconde a quella delle prime, si possa dar veste e dignitĂ scientifica agli studi sullâuomo e sulla societĂ . Il problema che i âbehaviouristiâ tentano di risolvere Ăš quindi quello di estendere alle âscienze socialiâ tutti i metodi delle scienze a tipo âfisicoâ, e di escludere ogni altro metodo che dalle scienze fisiche non sia stato applicato. Noi non crediamo (e ci sembra che non lo creda neppure il Pellizzi) che un tale sforzo sia destinato al successo in ciĂČ che soprattutto si propone: lâunificazione del metodo. Nelle scienze sociali lâosservazione si esercita, se cosĂŹ Ăš possibile dire, alle soglie del campo dâindagine, ma non vi penetra. Inoltre, il lavoro di isolamento, proprio dellâempiria, ha scarse probabilitĂ di successo se lo si paragona al corrispondente lavoro proprio delle scienze fisiche. Infine, la previsione riesce nelle scienze sociali molto meno efficacemente che nelle scienze di tipo fisico, e in ambiti strettamente limitati. Queste difficoltĂ sono note da molto tempo, e al fatto di averle volute ignorare furono dovuti gli insuccessi di molte semplicistiche trasposizioni e contraffazioni dei metodi delle scienze fisiche che si annoverano, vorremmo dire, tra i peccati giovanili delle scienze sociali.
PerciĂČ non basta dire, crediamo, che anche nelle scienze sociali si isolano gli oggetti di studio, occorre stabilire, mediante lâanalisi metodologica, e utilizzando lâesperienza di ciĂČ che Ăš stato giĂ tentato, se, e in che misura, un tale âisolamentoâ sia possibile, e, inoltre, quale particolare natura presenti lâisolamento nelle indagini sociali: nelle quali si prescinde in realtĂ (come Ăš stato acutamente avvertito in tempi recenti) non soltanto da alcuno degli aspetti fisici (esprimibili in termini di coordinate spazio-temporali) del âfenomenoâ studiato, bensĂŹ piuttosto, in toto, dagli aspetti fisici del âfenomenoâ. Il quale cessa, per questo stesso, di essere âosservabileâ nel senso delle scienze fisiche, e diviene un oggetto rilevante di studio, indipendentemente dal tempo e dallo spazio, mercĂ© determinate qualificazioni, che stanno alla base dellâindagine, e che non si possono ridurre a semplici astrazioni dellâesperienza sensibile. Una classe, una nazione, una battaglia, una rivoluzione, un periodo storico, un istituto, sono entitĂ senza tempo e senza spazio, entitĂ , come Ăš stato detto, interamente âcostruiteâ, e pertanto non âverificabiliâ mediante lâuso di quella che il Kant avrebbe chiamato lâintuizione sensibile. Ă indubbio, e la revisione metodologica delle scienze a tipo âfisicoâ lo ha ormai pienamente rilevato, il fatto che anche lâempiria di queste scienze âcostruisceâ i suoi oggetti di studio, in quanto almeno li pone, come spiritosamente diceva lo Eddington, sul âletto di Procusteâ: ossia li ritaglia, se cosĂŹ Ăš possibile dire, nella viva concretezza stor...