1. Il terremoto visto dagli scienziati della Terra di oggi
1. Che cosa è un terremoto?
LA VOCE «TERREMOTI», NELL’ENCICLOPEDIA di Diderot e d’Alembert del 1765, dà questa definizione: «Essi sono delle scosse violente dalle quali parti considerevoli del nostro globo sono scosse in modo più o meno sensibile». L’autore dell’articolo tratta gli orribili spettacoli presentati dai terremoti e attribuisce la loro causa a «conflagrazioni sotterranee».
I sismologi1 definiscono i terremoti come delle «rotture improvvise della crosta terrestre, seguite da scosse del suolo». Così, mentre nel XVIII secolo il terremoto era definito, in modo un po’ tautologico, come le scosse della terra, esso è poi definito come il processo, la rottura della crosta che causa le scosse. E questa rottura non è in alcun modo dovuta a dei fuochi sotterranei, ma a degli sforzi meccanici che si esercitano sulla crosta terrestre.
In questo libro torneremo sull’evoluzione storica delle idee riguardanti i terremoti, ma, per metterle in prospettiva, ci sembra opportuno esporre sommariamente ciò che noi sappiamo oggi sulla causa dei terremoti e sui diversi contesti geologici nei quali essi si producono.
Un terremoto, dunque, è l’effetto di una rottura improvvisa della crosta terrestre. È un fatto d’esperienza corrente che, quando certi materiali, come per esempio la pietra, sono sottoposti a uno sforzo che supera un certo limite, essi si rompono improvvisamente emettendo onde sonore. La rottura si propaga nel materiale sprigionando energia sotto forma di onde elastiche che colpiscono l’aria arrivando in superficie e causando il rumore.
A scala più grande questo è esattamente ciò che succede in un terremoto. La crosta terrestre non è un insieme omogeneo, ma una massa attraversata da grandi piani di taglio, che chiamiamo faglie. Quando la crosta viene posta in tensione dalle forze geodinamiche e la sua resistenza viene superata, può innescarsi una frattura lungo una di queste faglie, che per loro natura rappresentano elementi di debolezza. Dal suo punto di nucleazione, detto ipocentro, la rottura si propaga rapidamente, punto dopo punto, ingrandendo l’area di faglia coinvolta, fino a raggiungere in alcuni casi anche la superficie topografica. Lo scorrimento relativo dei volumi di roccia posti sui due lati della faglia consente alla crosta di deformarsi e di ridurre temporaneamente gli sforzi a cui è sottoposta. I terremoti più forti possono causare spostamenti di parecchi metri su distanze che possono arrivare a superare i mille chilometri. Per alcuni secondi – o decine di secondi, a seconda della sua lunghezza – la faglia si trasforma da elemento statico in «sorgente sismica» che, emettendo onde elastiche, causa un terremoto, prima di tornare in quiescenza per secoli o millenni in preparazione di altri futuri terremoti.
Nella maggior parte dei casi la sorgente sismica è situata a una profondità compresa tra i tre e i trenta chilometri; nelle aree vulcaniche però si possono avere terremoti anche a profondità di 1-2 chilometri, il che li rende particolarmente distruttivi. Viceversa, nelle zone di interazione tra le grandi placche tettoniche si possono avere terremoti fino a 670 km, una profondità tale che li rende innocui anche quando sono molto forti. Qualunque sia la sua profondità, il punto della superficie situato sulla verticale dell’ipocentro si chiama epicentro.
Nella maggior parte dei casi un forte terremoto è seguito da altre scosse dette solitamente «repliche», corrispondenti alla rottura differita di certe aree della sorgente. Talora un forte terremoto può essere preceduto da scosse dette «premonitorie», che rappresentano degli scricchiolii prodromi del grande fenomeno che sta per verificarsi. Come dice il loro stesso nome, le scosse premonitorie possono essere cruciali nel ridurre le perdite umane causate dal terremoto.
Le onde sismiche che scuotono il suolo e causano la rovina delle costruzioni si propagano nella terra alla velocità del suono (da 3,0 a 5,5 km/s nella crosta), ma la loro frequenza è inferiore a quella delle onde sonore udibili. Si distinguono le onde di volume, il cui periodo (inverso della frequenza) è approssimativamente compreso fra 0,1 e una ventina di secondi, corrispondente a lunghezze d’onda tra circa 300 m e qualche decina di chilometri, e le cosiddette onde di superficie, che si propagano all’interno delle porzioni più superficiali della crosta e il cui periodo è superiore a 20 secondi, corrispondente a una lunghezza d’onda di circa 60 km. Si tratta sempre di onde sonore, e in nessun caso d’onde d’urto, come si legge talvolta2.
Al loro passaggio in un qualunque punto del globo terrestre distante dall’epicentro (il cosiddetto «far field», o «campo lontano») le onde sismiche provocano debolissimi spostamenti, dell’ordine di qualche millesimo di millimetro, e accelerazioni trascurabili. Questi spostamenti sono calcolati con precisione componendo vettorialmente i movimenti rilevati dai sismografi3 nelle tre direzioni: verticale, nord-sud e est-ovest. Gli spostamenti osservati crescono avvicinandosi all’epicentro di un forte terremoto, ovvero nel cosiddetto «near field» o «campo vicino», dove le accelerazioni possono talvolta superare l’accelerazione di gravità.
2. Magnitudo e intensità
I sismologi utilizzano diverse scale di magnitudo. La più conosciuta dal pubblico è la scala proposta nel 1935 dal sismologo americano Charles Richter (1900-1985). La magnitudo Richter, o magnitudo locale (ML), dipende dal logaritmo dell’ampiezza massima (in micrometri) delle onde sismiche di periodo tra 0,1 e 2,0 secondi registrate da un sismografo specifico.
La magnitudo di un forte terremoto è spesso presentata dai giornali in termini di magnitudo Richter, ma questa scelta è discutibile. Infatti, la magnitudo Richter è una magnitudo che «satura» tra 6,5 o 7,0, vale a dire che non cresce al crescere delle dimensioni dei terremoti al di sopra di questo livello, e quindi è del tutto inadatta ai forti terremoti che avvengono sulla Terra, quelli con magnitudo tra 7,0 e 9,5. La ragione di questo comportamento risiede nel fatto che i terremoti più forti, prodotti dalla rottura di faglie lunghe decine o centinaia di chilometri, liberano la maggior parte dell’energia sismica sotto forma di onde di periodo molto più lungo delle onde a cui sono sensibili i sismografi utilizzati per calcolare la magnitudo Richter.
È per questa ragione che per misurare i terremoti più forti i sismologi usano la «magnitudo-momento» MW, che a sua volta dipende dal momento sismico M0, un parametro legato alle caratteristiche intrinseche del terremoto che non va mai in saturazione4.
M0 è definito dalla relazione M0=µSD, dove µ è il modulo di elasticità della roccia, S è la superficie della zona di scorrimento sulla faglia e D è il valore dello scorrimento che determina il terremoto. Il momento sismico è proporzionale all’ampiezza di onde di lungo periodo (200 secondi) sui sismogrammi.
La magnitudo MW è legata al momento sismico M0 dall’equazione:
MW= 0.7 logM0 -10.7.
Il logaritmo dell’energia sismica liberata E è legato alla magnitudo MW dalla relazione empirica:
log E = 1.5 MW +10.7.
Quando la magnitudo aumenta di una unità, il logaritmo dell’energia E aumenta di 1,5 volte; in altre parole, l’energia liberata aumenta di 30 volte (perché 1,5 è approssimativamente il logaritmo di 30). Quindi, un terremoto di magnitudo 9,0 libera un’energia 30 volte maggiore di un terremoto di magnitudo 8,0 e 900 volte maggiore di un terremoto di magnitudo 7,0.
È bene sottolineare che la magnitudo MW caratterizza bene l’energia rilasciata da un terremoto, ma non è in rapporto diretto con l’importanza dei danni e con il numero delle vittime che quel terremoto può aver causato. Gli effetti materiali di un terremoto sono valutati dalla «intensità», un parametro che dipende dalla distanza a cui ci si trova dall’epicentro, dalla profondità dell’ipocentro, dalla natura geologica dei terreni, dalla durata della scossa più forte e dalla qualità del costruito.
I tentativi di rappresentare gli effetti territoriali dei terremoti iniziarono alla metà del Cinquecento, con Giacomo Gastaldi (1500-1566), famoso cartografo veneziano. Egli rappresentò in una mappa a colori gli effetti del terremoto del 20 luglio 1564 nel nizzardo (oggi Alpi Marittime), indicando con un piccolo disegno schematico le località integre o danneggiate, e in questo ultimo caso aggiunse la parola «rovinata»5.
A questo primo tentativo ne seguirono altri, per rappresentare e divulgare gli effetti dei terremoti nelle aree colpite. Uno dei più noti per l’Italia è la mappa incisa da M. Greuter, riguardante il terremoto del 1627 della Puglia e pubblicata da G.V. De Poardi in un foglio a stampa, quasi un proto-giornale6.
La prima scala di intensità è probabilmente dovuta a Domenico Pignatari (1735-1802). Questo medico calabrese tenne un Giornale tremuotico delle scosse dei terremoti della Calabria del 1783 così come questi venivano percepiti a Monteleone (oggi Vibo Valentia), dove egli risiedeva. Il Giornale fu pubblicato alla fine del libro in cui Giovanni Vivenzio descrisse dettagliatamente quella sequenza sismica7. Utilizzando una scala di cinque gradi, Pignatari scrisse che nell’anno 1783 ci furono 949 scosse, di cui 5 catastrofiche, 32 molto forti, 175 forti, 236 moderate e 501 leggere. A sua volta il frate e cartografo padre Eliseo della Concezione (1725-1809)8 usò una scala con quattro gradi per classificare i Paesi colpiti dal terremoto del 1783, rappresentandoli su una grande carta con degli asterischi che indicavano il grado di danneggiamento.
Nel 1873 il sismologo Michele Stefano De Rossi (1834-1898) propose una scala di intensità con dieci gradi; contemporaneamente, ma in modo del tutto indipendente, lo scienziato svizzero François-Alphonse Forel (1841-1912)9 propose una scala simile a quella di De Rossi. In seguito, i due collaborarono per creare una scala unica, detta Rossi-Forel, che fu usata fino al 1897. Un decennio prima, nel 1883, Giuseppe Mercalli (1850-1914) aveva formulato una nuova scala, che espose alla comunità scientifica nel 1902. Nel 1903 Adolfo Càncani (1856-1904), sismologo e costruttore di strumenti sismici, stabilì una corrispondenza empirica fra gradi di intensità e intervalli di accelerazione. Nel 1932, August H. Sieberg (1875-1945) ristrutturò la scala portandola a 12 gradi, indicati con numeri romani. Il risultato è la scala MCS (Mercalli-Càncani-Sieberg). I sismologi, in tutto il mondo, usano scale non molto diverse dalla MCS.
Per semplificare, si può dire che dal grado di intensità I al III le scosse sono poco o per nulla percepite dalle persone; al grado IV gli oggetti sospesi (come i lampadari) oscillano e le stoviglie iniziano a sbattere nei mobili; al grado V tutti percepiscono il terremoto, molti fuggono dalle case e si diffonde la paura; dal grado VI iniziano i primi danni; al grado VII sono classificati danni moderati a edifici di forte struttura; ci sono spaccature nei muri e crolli in strutture malandate o mal costruite; cedono tetti e solai, cadono comignoli; il grado VIII classifica danni più importanti: un quarto circa delle case è gravemente lesionato; solidi muri di cinta crollano; parti di edifici possono crollare; negli interni si rovesciano i mobili, ruotano statue e colonne. Il grado IX classifica un quadro di effetti molto severo: circa la metà delle case in ...