Laria Straniti
Mio padre è morto che s’era appena pensionato.
Sicuro che m’è dispiaciuto vederlo cementare dietro una lapide, ma non mi sono messa a pensarci regolare e precisa. Al funerale mi suonava in testa una canzone che fa «vorrei due ali d’aliante per volare sempre più distante na na na, e una baracca sul fiume per pulirmi in pace le mie piume nananà», e me la cantavo col silenziatore.
M’è dispiaciuto proprio per mio padre, anche se non l’ho ancora capito com’è morto: a dire la verità non lo capisco mai come si muore, e mi pare che non è cosa mia capire la morte. Manco dei gatti secchi sull’asfalto capisco perché devono crepare con la pelliccetta tosta di sangue a croste: è una cosa brutta la morte e io giro gli occhi e basta, come quando per strada incontro uno che piscia contro un muro a gambe larghe per non schizzarsi le scarpe.
Il dottore di Simbari Crichi – un tipo col riportino di capelli conditi sul cranio a palla – ci aveva detto che il mal di pancia di quella notte poteva essere la frittata di cipolle rosse: mio padre non l’aveva digerita ed era diventato rosso cipolla in faccia, e non parlava più.
«Laria» ha detto mia madre guardandomi «la frittata gli sta salendo agli occhi». E si stringeva la vestaglia di flanella sul petto, ché batteva i denti di freddo: il fuoco s’era spento e sulla cenere c’era ancora un disegno di Gemmi mezzo bruciato. Poi papà cercava aria: tirava dalle narici e faceva proprio un rumore di macchina che finisce la benzina, e gli occhi andavano e venivano peggio delle figure in televisione quando si scassa l’antenna.
E fine.
Il giorno del funerale – la bara l’abbiamo messa in salotto, al posto del tavolo col portafiori – la gente che trafficava per casa ci domandava com’era morto il morto.
«La frittata di cipolle rosse» faceva mia madre, e si dondolava avanti e indietro sulla sedia.
«Il cuore» facevo io, ché certe volte alla Rai passano un programma di medicina, e di uno che schiatta con la frittata di cipolle rosse non l’ho mai sentito.
«Laria» si girava brusca lei «il dottore ha detto indigestione».
E ci arrivavo io che era per non farsi nemico il dottore, ché un dottore è sempre meglio tenerselo amico. Ma del dottorazzo me ne infischiavo regolare e precisa, e non mi piaceva che in paese quagliassero la storia di Gianni Straniti – mio padre – morto ingolfato d’uova e cipolle.
«Il cuore» mi ostinavo.
Mia madre – ché proprio il cuore non poteva sentirlo nominare – attaccava a graffiarsi le guance: a Simbari Crichi si usa se ti muore uno che proprio non te l’aspettavi. Invece io me l’aspetto sicuro per tutti la morte, meno che per i bambini.
Gemmi la bara non la guardava. Stava vicino a me e mi strofinava la testa sulla spalla: era il gioco del «prr prr» che ho inventato io.
«Se vuoi bene e non lo sai dire» gli ho spiegato una volta «fai come i gatti».
«E che fanno i gatti?» s’è incuriosito.
«Si strusciano col muso ai padroni e fanno un rumore dentro il naso».
«Un rumore come?» mi ha chiesto.
«Prr prr» gli ho fatto sentire, e piano piano gli ho morsicato un orecchio, ché Gemmi ha le orecchie morbide di caramella mou.
«Così?» ha provato lui, e col naso mi arrivava ai fianchi.
«Sì»
«Un giorno che non so parlare te lo faccio» mi ha promesso.
E «prr prr» mio fratello l’ha fatto con papà morto imballato nel salotto, allora l’ho preso a cavalluccio sulle ginocchia e nella piega del collo gli ho cantato con un filo di voce «c’era una casa molto carina senza soffitto e senza cucina», la canzone di quando ci pioveva regolare e preciso sui letti e non c’erano soldi per tappare i buchi del soffitto e cambiare le tegole.
A Gemmi voglio proprio più bene che a tutti: è nato quando avevo dodici anni, e me lo portavo in braccio come un figlio mio. Di Gemmi – che si chiamerebbe Geims uguale a Geims Din, ma non l’abbiamo mai chiamato giusto – mi piacevano gli occhi marrone nocciolina, e i riccioli che saltavano mentre imparava a camminare, e le mani grasse da bambolotto. «Gemmi è mio» strepitavo se mia madre mi domandava il permesso di rispedirlo alla cicogna, e ringhiavo. Facevo proprio «grr grr» nella gola, meglio dei cani. E lo faccio ancora di nascosto se si provano a smanacciare qualcuno che mi garba davvero. Lo so che una cosa scicchissima non è, ma mi spunta e basta.
Anche una sera che ero al Cocoroco con Ines m’è partito il ringhio: avevo avvistato un tipo di quelli speciali, e lui mi guardava. Guarda tu che ti guardo io, siamo finiti a ballare insieme: gli stavo abbrancata addosso e gli contavo le ossa. Mi piacciono le ossa dei maschi, e se uno ha troppa polpa con me non ha speranze, ché pure del pollo arrosto voglio l’ala, coscia niente.
La sala svaporava fumo musica e sudore: al Cocoroco ci bazzicano tutti, e le femmine entrano gratis per abboccare i maschi. Io m’ero attaccata regolare e precisa al mio pescetto – uno scheletro alto agganciato al primo lancio – e avevo il sorriso da polipo che spalanco se rimedio un regalo a sorpresa.
Per una volta all’asciutto, Ines mi faceva l’occhiolino ed era più contenta di me: la divisa da acchiappo – vestito nero attillato tacchetto occhio truccato e labbra rosso risucchio – me l’aveva congegnata lei. «Se non tiri stasera vuol dire che il mondo s’è inricchionito!» se n’era uscita squadrandomi dalla testa ai piedi. E mentre ballavo mi scappava da ridere sul petto di Pietro – lo scheletro si chiamava così – perché rimuginavo la storia dei ricchioni. Me la ghignavo soddisfatta insomma, ma intanto sbirciavo una bionda col muso da punta che sciacquettava troppo intorno al mio osso. Ho...