Non c'è niente a Simbari Crichi
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Non c'è niente a Simbari Crichi

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Non c'è niente a Simbari Crichi

About this book

Simbari Crichi è un paese immaginato. Un paese di sogni scassati, di stelle spergiure, di treni che non passano più. Metafora del Sud come luogo altro, Simbari Crichi è uno spazio abitato da giovani che non sanno partire, da folli che provano il volo, da spiriti che parlano in dialetto. Suscitati da nomi surreali, i personaggi vagano in cerchio lungo invisibili e angusti confini da cui fuggono per allargare lo sguardo sul mare, solo orizzonte possibile. Una ad una, le voci di Simbari Crichi si levano a dire il medesimo mondo di memorie e credenze incrostate sottopelle, ma a tratti dalle parole aspre luccicano fuori gli squarci ipnotici dei supermercati e dei fotogrammi televisivi, subito sbiaditi dall'urgenza di una realtà troppo nuda per cedere agli inganni. La vita, l'amore e la morte danzano tutto il loro incanto sanguigno negli occhi di uomini e donne che si stringono alle cose intorno e le nominano, semplicemente. A Simbari Crichi la verità prude come una ferita, e agita le viscere assolate fino a farsi storia da raccontare. Così il paese del niente si anima, e ciascuno si scopre in corpo qualcosa da cacciare all'aria. E questo coro di confessioni buffe, di segreti svelati per iscritto, di ricordi liberati in faccia al lettore, traccia la mappa intima di una regione che va da Napoli in giù. Non c'è niente a Simbari Crichi rincorre il fiato beffardo di un Sud che si guarda ristagnare, e la forza indolenzita di gente pronta ogni giorno a scavare tesori in mezzo agli scarti.

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Information

Laria Straniti

Mio padre è morto che s’era appena pensionato.
Sicuro che m’è dispiaciuto vederlo cementare dietro una lapide, ma non mi sono messa a pensarci regolare e precisa. Al funerale mi suonava in testa una canzone che fa «vorrei due ali d’aliante per volare sempre più distante na na na, e una baracca sul fiume per pulirmi in pace le mie piume nananà», e me la cantavo col silenziatore.
M’è dispiaciuto proprio per mio padre, anche se non l’ho ancora capito com’è morto: a dire la verità non lo capisco mai come si muore, e mi pare che non è cosa mia capire la morte. Manco dei gatti secchi sull’asfalto capisco perché devono crepare con la pelliccetta tosta di sangue a croste: è una cosa brutta la morte e io giro gli occhi e basta, come quando per strada incontro uno che piscia contro un muro a gambe larghe per non schizzarsi le scarpe.
Il dottore di Simbari Crichi – un tipo col riportino di capelli conditi sul cranio a palla – ci aveva detto che il mal di pancia di quella notte poteva essere la frittata di cipolle rosse: mio padre non l’aveva digerita ed era diventato rosso cipolla in faccia, e non parlava più.
«Laria» ha detto mia madre guardandomi «la frittata gli sta salendo agli occhi». E si stringeva la vestaglia di flanella sul petto, ché batteva i denti di freddo: il fuoco s’era spento e sulla cenere c’era ancora un disegno di Gemmi mezzo bruciato. Poi papà cercava aria: tirava dalle narici e faceva proprio un rumore di macchina che finisce la benzina, e gli occhi andavano e venivano peggio delle figure in televisione quando si scassa l’antenna.
E fine.
Il giorno del funerale – la bara l’abbiamo messa in salotto, al posto del tavolo col portafiori – la gente che trafficava per casa ci domandava com’era morto il morto.
«La frittata di cipolle rosse» faceva mia madre, e si dondolava avanti e indietro sulla sedia.
«Il cuore» facevo io, ché certe volte alla Rai passano un programma di medicina, e di uno che schiatta con la frittata di cipolle rosse non l’ho mai sentito.
«Laria» si girava brusca lei «il dottore ha detto indigestione».
E ci arrivavo io che era per non farsi nemico il dottore, ché un dottore è sempre meglio tenerselo amico. Ma del dottorazzo me ne infischiavo regolare e precisa, e non mi piaceva che in paese quagliassero la storia di Gianni Straniti – mio padre – morto ingolfato d’uova e cipolle.
«Il cuore» mi ostinavo.
Mia madre – ché proprio il cuore non poteva sentirlo nominare – attaccava a graffiarsi le guance: a Simbari Crichi si usa se ti muore uno che proprio non te l’aspettavi. Invece io me l’aspetto sicuro per tutti la morte, meno che per i bambini.
Gemmi la bara non la guardava. Stava vicino a me e mi strofinava la testa sulla spalla: era il gioco del «prr prr» che ho inventato io.
«Se vuoi bene e non lo sai dire» gli ho spiegato una volta «fai come i gatti».
«E che fanno i gatti?» s’è incuriosito.
«Si strusciano col muso ai padroni e fanno un rumore dentro il naso».
«Un rumore come?» mi ha chiesto.
«Prr prr» gli ho fatto sentire, e piano piano gli ho morsicato un orecchio, ché Gemmi ha le orecchie morbide di caramella mou.
«Così?» ha provato lui, e col naso mi arrivava ai fianchi.
«Sì»
«Un giorno che non so parlare te lo faccio» mi ha promesso.
E «prr prr» mio fratello l’ha fatto con papà morto imballato nel salotto, allora l’ho preso a cavalluccio sulle ginocchia e nella piega del collo gli ho cantato con un filo di voce «c’era una casa molto carina senza soffitto e senza cucina», la canzone di quando ci pioveva regolare e preciso sui letti e non c’erano soldi per tappare i buchi del soffitto e cambiare le tegole.
A Gemmi voglio proprio più bene che a tutti: è nato quando avevo dodici anni, e me lo portavo in braccio come un figlio mio. Di Gemmi – che si chiamerebbe Geims uguale a Geims Din, ma non l’abbiamo mai chiamato giusto – mi piacevano gli occhi marrone nocciolina, e i riccioli che saltavano mentre imparava a camminare, e le mani grasse da bambolotto. «Gemmi è mio» strepitavo se mia madre mi domandava il permesso di rispedirlo alla cicogna, e ringhiavo. Facevo proprio «grr grr» nella gola, meglio dei cani. E lo faccio ancora di nascosto se si provano a smanacciare qualcuno che mi garba davvero. Lo so che una cosa scicchissima non è, ma mi spunta e basta.
Anche una sera che ero al Cocoroco con Ines m’è partito il ringhio: avevo avvistato un tipo di quelli speciali, e lui mi guardava. Guarda tu che ti guardo io, siamo finiti a ballare insieme: gli stavo abbrancata addosso e gli contavo le ossa. Mi piacciono le ossa dei maschi, e se uno ha troppa polpa con me non ha speranze, ché pure del pollo arrosto voglio l’ala, coscia niente.
La sala svaporava fumo musica e sudore: al Cocoroco ci bazzicano tutti, e le femmine entrano gratis per abboccare i maschi. Io m’ero attaccata regolare e precisa al mio pescetto – uno scheletro alto agganciato al primo lancio – e avevo il sorriso da polipo che spalanco se rimedio un regalo a sorpresa.
Per una volta all’asciutto, Ines mi faceva l’occhiolino ed era più contenta di me: la divisa da acchiappo – vestito nero attillato tacchetto occhio truccato e labbra rosso risucchio – me l’aveva congegnata lei. «Se non tiri stasera vuol dire che il mondo s’è inricchionito!» se n’era uscita squadrandomi dalla testa ai piedi. E mentre ballavo mi scappava da ridere sul petto di Pietro – lo scheletro si chiamava così – perché rimuginavo la storia dei ricchioni. Me la ghignavo soddisfatta insomma, ma intanto sbirciavo una bionda col muso da punta che sciacquettava troppo intorno al mio osso. Ho...

Table of contents

  1. Cover
  2. Sinossi
  3. Profilo biografico dell'autore
  4. Colophon
  5. Marcellina Scatalascio
  6. Bradamante Sirace
  7. Fortunato Sirianni
  8. Lulù, Sardignò, Calimero e io
  9. Cenzo Riscambiolo
  10. Pavula
  11. Laria Straniti
  12. Nota dell’autrice
  13. Ti suggeriamo