CAPITOLO 1. Losing My Melita
Davide si svegliò a un sobbalzo della macchina e guardò, incredulo: l’auto si muoveva! Il deserto sfrecciava veloce intorno e lui era ancora steso sul sedile posteriore, con la schiena a pezzi, esausto per l’incubo da cui era appena emerso, a fatica. Melita stava guidando...
– Melita, ma cosa fai, sei pazza?? – le domandò innervosito, brancandole una spalla.
– Come cosa faccio? Guido, no? Tu dormivi! Mica possiamo stare fermi tutto il giorno... .
– Eh, e infatti saremmo ripartiti… pensavo che stessi dormendo anche tu!
– E invece, hai visto… – e si voltò a sorridergli brevemente. Premette più a fondo la tavoletta dell’acceleratore, con il piede nudo. Il motore rombò.
– E pure senza scarpe, guidi! Che se ci ferma la polizia ci fa una multa che vedi!…
– Uff… ma chi vuoi che ci fermi? Non c’è nessuno per miglia, qui.
Davide si passò una mano sulla faccia. Era maledettamente stanco. “Quante volte ho vòlto il mio volto?” si trovò a pensare in modo assurdo, senza alcun senso... ma forse quella frase bizzarra era il residuo di un discorso che stava svolgendo in sogno. E, tanto per cambiare, si sentiva come uno schermo parzialmente oscurato da una tenda, o come un romanzo impaginato male, con le parole che scivolano tutte a sinistra, a incolonnarsi strette-strette in una claustrofobica colonna, mentre a destra crolla uno strapiombo di dissolvenza in bianco.
– ... Senti, fermati, che guido io – disse.
– Mmmh? Non ci penso neanche. Perché dovrei?
– Perché non mi piace farmi trasportare sulla mia macchina da una donna!
– Ma sentilo! Se guido meglio di te!
– Su questo ci sarebbe da discutere, comunque è proprio il fatto in sé, che mi fa strano.
– Strano come?
– Cioè… mi fa sentire un po’ gay.
Melita sorrise.
– Che pirla che sei… .
Reggeva il volante in alto, con entrambe le mani.
– No, davvero: sento che la mia essenza maschia ne risulta indebolita – e poi anche lui rise. – ... Oh, Mela, ti ricordi quella puntata dei Simpson in cui Smithers chiede al Signor Burns se sapeva cosa voleva dire essere “gay”, o qualcosa del genere, e lui fa una faccia pensierosa e gli risponde: “… Sìììì… ricordo che per un periodo, nel 1940, fui molto gaio”, e si vede un flash-back di lui che girava per la strada, tutto allegro?
– … No, forse non l’ho vista. Però mi ricordo che avevamo detto che raccontare a voce le puntate dei Simpson non fa ridere quasi mai…
– Brava: hai detto quasi. Questa è una di quelle volte che fanno ridere.
– Se lo dici tu. Posso ridere dopo, magari? Che adesso sto guidando.
– No, guarda: ridi pure subito. Tanto mo’ ti fermi e guido io.
– Cheppalleee!
Melita frenò, sgommando a bordo strada.
I loro dialoghi non erano sempre così allegri e spiritosi, tutt’altro: spesso avevano ben poco da dirsi. Melita non era una donna particolarmente colta, e non faceva granché per migliorarsi. Davide aveva una profonda cultura nutrita di cinema e letteratura, ma rovinava tutto credendosi più capace di quanto non fosse, e ostinandosi a citare battute di film che nessuno, a parte lui, ricordava.
Riuscivano tuttavia a comunicare: quando Melita si metteva lo smalto sulle unghie dei piedi, Davide la fissava senza dire una parola, trattenendo un malcelato disprezzo per quella pratica frivola e superficiale; i loro sguardi si incrociavano più volte. Davide voleva esporre un concetto a Melita: iniziava quindi un periodo complesso, appesantito da due o tre premesse, si ingarbugliava, col procedere perdeva fede nelle sue stesse parole; Melita già non lo seguiva più, e lui lasciava la frase a metà. All’improvviso però si sporgeva in avanti, e carezzava il braccio della ragazza. Si rasserenava, dimenticando ciò che avrebbe voluto dire; lei sorrideva, i denti bianchi illuminati da una scienza gaia per le cose del mondo.
Scesero dalla macchina.
Melita rinfilò le infradito ai piedi e abbandonò riluttante il posto di guida.
Davide lasciò con gioia il sedile posteriore, sul quale aveva trascorso un periodo di sonno fin troppo breve.
Entrambi si sistemarono i pantaloni, incollati alle gambe per il caldo terribile. Il sole picchiava, lì sulla strada. Si schermavano gli occhi per non rimanerne feriti. Davide, a causa della sua particolare situazione, si schermò un po’ meno.
Melita sbuffò per la stanchezza e il sudore, appoggiandosi con la schiena alla portiera aperta della macchina. Davide abbassò lo sguardo sulle gambe di lei: sugli shorts di jeans che finivano stretti appena sotto le natiche, sulle ginocchia insidiose e i polpacci ben disegnati, le caviglie sottili, i piedi bianchi e magri nelle infradito, con le unghie dipinte di rosso scuro. Bianchi e magri... . Melita era la classica ragazza bianca che va in palestra a farsi una lampada totale con il lettino abbronzante, per raggiungere un colorito più scuro, bronzeo. Ma era strano che, nel suo incubo di poco prima (faticava sempre più a ricordarlo... ormai gli era sfuggito. Capita, con gli incubi) Davide l’avesse vista camminare nera, come un’africana esplosione di sensualità.
Lui aveva sempre detestato le infradito. Le trovava volgari. In generale trovava volgari le ragazze che infilavano ciabatte per girare fra la gente.
– … Beh?! Che cosa stai guardando? Ho messo male lo smalto?
– … No – sbuffò lui.
Melita fece una smorfia.
– Adesso che non guidi più tu, puoi metterti gli occhiali da sole, va’ – le disse Davide.
– Guarda che se volevo li mettevo anche prima.
– Beh, mettili adesso, che ti stanno bene.
Melita stava per ribattere qualcos’altro, ma poi non disse più nulla. Sembrava improvvisamente tranquilla. Forse andava rimuginando su quel “ti stanno bene”, quel complimento maldestro che Davide le aveva appena rivolto.
– Andiamo, va’.
Si aspettava di vederla compiere il giro dell’auto per salire dalla parte opposta, invece Melita si rinfilò al posto di guida. Davide stava già per sbottare, imprecando, ma vide la ragazza scavalcare la leva del cambio e infilare le gambe nel posto del passeggero. Già seduta, tirava al petto le ginocchia, con i piedi di nuovo nudi e liberi dalle ciabatte.
Davide montò. Girò subito la chiave (detestava quei guidatori che prima di accendere perdono tempo in infiniti rituali: la cintura, lo specchietto, sistemarsi comodi sul sedile...) e il motore gli rispose pronto. Allacciò la cintura e diede un po’ di gas.
– La cintura, Mela. Ho voglia di tirare un po’, per svegliarmi.
Davide sentì, poco dopo, il clac della cintura di lei, al suo fianco.
Controllò lo specchietto: nessuno. Gettò un’occhiata sulla strada davanti, sul deserto bruciato dell’Arizona.
Ingranò la prima e rilasciò la frizione mentre pigiava forte l’acceleratore, facendo fischiare le gomme. L’auto ripiombò nella corsia polverosa.
Stavano già correndo di nuovo. L’aria entrava dai finestrini completamente abbassati, scompigliando i loro capelli e il loro umore, pur calda com’era. Davide allungò fuori il braccio sinistro e si aggrappò con le dita al tettuccio della macchina, badando al volante e al cambio con la sola mano destra.
– Cos’è ‘sta posa, mo’? – gli domandò Melita, ironica.
Davide sorrise: si aspettava quel commento sfottente.
– È la posizione del guidatore testosteronico. Mi ci ritrovo piuttosto bene.
– … Immagino; l’hai letta in qualche libro dei tuoi?
A volte Davide si ritrovava col pensiero che Melita, nonostante la sua esibita cura dell’aspetto, della forma, e in generale di tutto quanto riguardava la superficie, avesse una memoria prodigiosa per ogni cosa che lui le diceva, le leggeva, le faceva vedere. Ostentava indifferenza, ma ricordava tutto.
– Beh, veramente l’ho trovata nel romanzo Crash. Però lì dice che questo personaggio, Vaughan, tambureggiava con le dita sul tettuccio. Invece io non tambureggio. Mi ci aggrappo e basta.
– Ah, beh, allora… è tutta un’altra storia!
Davide rise. L’auto rombava.
– Sfotti, sfotti! È che non capisci: tu impara a fidarti delle cose che ti dico, e il futuro ti riserverà grandi sorprese, fidati!
A causa della sua particolare condizione non riusciva mai a vedere Melita, mentre guidava. La strada però filava completamente dritta, così rallentò un poco e si volse completamente a guardarla.
Lei portava gli occhiali da sole. Se li era messi, come lui le aveva detto.
Sorpreso, sorrise e non disse nulla. Tornò a concentrarsi sulla guida.
Ritirò il braccio sinistro nell’abitacolo e strinse il volante con entrambe le mani, mentre le nuvole si perdevano in quell’azzurro scuro e forte, che aveva visto sempre e solo al di sopra dell’Arizona.
(Il Grande Deserto Americano. Quando avevo 14 anni, mio cugino Andrea mi fece una cassetta dei Doors. Fu la prima band di rock serio e importante che ascoltai. Avevo imparato a memoria ogni nota degli assoli di tastiera e chitarra di Light My Fire. Ma soprattutto, la versione live di The End era eterna, intermin...