Troppe zeta nel cognome
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Troppe zeta nel cognome

Vizi pubblici e private virtù di un critico musicale

Mario Luzzatto Fegiz

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Vizi pubblici e private virtù di un critico musicale

Mario Luzzatto Fegiz

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Cosa prova prima di andare in scena Ornella Vanoni? È vero che 'Il cielo in una stanza' di Paoli è nata in un bordello e che Sting è un grande amatore? Cosa si nasconde dietro a uno scoop? E come interagisce un critico di un grande giornale con gli artisti? Come nasce una canzone? E una recensione? Come mai Pavarotti si è convertito al pop? Come si fa a incontrare Mina senza farsi cacciare? È davvero possibile essere obiettivi con l'artista che ti coinvolge nel suo processo creativo? O restare calmi quando squilla il telefono e all'altro capo ci sono Bob Dylan o Vasco Rossi? O quando una sera a cena da Gianni Versace i Take That cantano in coro con Elton John che si cimenta su una pianola giocattolo mentre Robbie Williams bacia sulla bocca a bruciapelo solo le signore più attempate? Il più noto e longevo critico musicale italiano vuota il sacco su 50 anni di musica, giornalismo, politica e cultura vissuti fra Rai e Corriere della Sera, svelando retroscena e dettagli di star italiane e straniere. Senza fare sconti a nessuno, soprattutto a se stesso, in un percorso musicale e spirituale dove succede un po' di tutto e in cui, alla fine, la fede e la musica vincono e convivono come valori assoluti. Un diario intenso in cui pubblico e privato si mescolano in un racconto avvincente nel quale emerge il complesso legame di amore-odio che spesso caratterizza i rapporti fra il critico e gli artisti.

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Information

Publisher
Hoepli
Year
2017
ISBN
9788820378899
1
IO E TRIESTE
T rieste è il luogo in cui presi per la prima volta in mano una chitarra. Era scordata. I chitarristi passano metà della vita ad accordare la chitarra e l’altra metà a suonarla scordata. Avevo undici anni, ignoravo il solfeggio e quei pallini bianchi e neri in mezzo a cinque righe orizzontali. La situazione non è cambiata negli ultimi sessant’anni, ma sono in buona compagnia: Pavarotti, Paul McCartney, Lucio Battisti, Vangelis, Santana sono tutti autodidatti e non sanno leggere le note su uno spartito. Ma hanno ricevuto un dono, un talento: hanno orecchio. È un po’ come accade fra noi giornalisti: ci sono quelli che hanno studiato e quelli che invece scrivono di getto. Io non ho terminato gli esami in Giurisprudenza e non so leggere il pentagramma. Da oltre quarant’anni mi occupo di musica scrivendo “a orecchio”.
Non che la chitarra mi affascinasse più di tanto ma notavo che con quello strumento il mio amico e compagno di scuola Andro Cecovini riusciva a rimorchiare le ragazze pur non essendo un adone (anche Billy Joel ha iniziato a suonare il pianoforte per lo stesso motivo). Succedeva soprattutto durante le gite scolastiche. E così decisi di studiare i primi accordi, come passare da uno all’altro, i giri armonici di Sol e di Do. Imparai a suonare La ballata del Miché di Fabrizio De André. Ma soprattutto la scala discendente dell’introduzione di Passion Flower dei Fraternity Brothers. Occorrevano dita agili, oltre che uno spirito di sacrificio e sopportazione del dolore per via dei calli che si formavano via via sui polpastrelli della mano a causa della pressione sulle corde dello strumento. Cecovini mi sfotteva in dialetto triestino: “Ti non te sarà mai bon de sonar una roba cussì”. Una settimana dopo sapevo eseguire il brano alla perfezione. Ma intanto a scuola la situazione non era altrettanto brillante e cominciavano i primi guai.
Prima media: rimandato in Geografia. Seconda media: rimandato in Matematica. Terza media: rimandato in Geografia e Matematica. E anche in Inglese. Al Ginnasio andò anche peggio: i primi due anni rimandato in Latino e Greco. La catastrofe era dietro l’angolo e in Prima Liceo fui direttamente bocciato a giugno. Ma finalmente avrei trascorso un’intera estate senza studiare per gli esami di riparazione.
Frequentavo la Sezione B del Liceo Ginnasio Dante Alighieri, vicino al monumento dedicato all’eroe risorgimentale Guglielmo Oberdan, che era un punto di ritrovo per le uscite extrascolastiche. A pochi passi la mitica birreria Forst, teatro delle prime sbronze. Il mio mondo finiva lì. A breve la mia vita sarebbe cambiata bruscamente.
Era il 1962 e il mio rendimento scolastico era pessimo. A metà anno era in programma una gita scolastica a Parigi. I miei genitori erano riluttanti: i voti suggerivano di restare a casa a studiare. Ma all’epoca non sapevo farlo, l’ho imparato soltanto molti anni dopo. Ricordo ancora la pagella della Terza Media, che si chiudeva col seguente giudizio: “L’alunno Mario Luzzatto Fegiz deve acquisire metodo e diligenza”. Alla fine furono proprio gli insegnanti a convincere i miei genitori a farmi partecipare alla gita.
Prima di salire su uno dei due pullman in partenza per Parigi mi accorsi di avere febbre e mal di gola, ma nascosi tutto per non perdere il mio appuntamento col branco. E con le ragazze: Giovanna. Marisa, Mara, Flavia, Nicoletta. Il viaggio fu un inferno. La prima sosta notturna era prevista a Domodossola, che era coperta di neve. Nessuno degli studenti aveva portato l’abbigliamento adatto e in molti non riuscirono a chiudere occhio. Stessa cosa durante la prima notte a Parigi, ma per ben altri motivi. Eravamo alloggiati in un albergo sul Boulevard Poissonnière di Montmartre e noi ragazzi cazzeggiavamo con goliardia a fare gli scemi con gavettoni, dentifricio e schiuma da barba, giocando a rimpiattino nei corridoi per non farci beccare dalla professoressa di Francese. Lei tentava goffamente di sorvegliare la situazione e redarguiva le giovani alunne, che erano in pieno sviluppo ormonale e avevano messo gli occhi sugli studenti dell’ultimo anno. “Ragazze, non fate tanto le spiritose che Parigi è una città di avventurieri e con quelle vestaglie… siete tutte un invito”. A me sembravano delle bambolette, qualcuna pure brufolosa, vestite di stracci. Un invito, Prof? Sì, ma ad andarsene a dormire.
Così mi infilai sotto le coperte pensando a mia madre: chissà se godeva anche lei della stessa libertà quando d’inverno la rinchiudevano nel collegio di monache di Numana, ad Ancona, esattamente al lato apposto dell’Adriatico rispetto all’isola di Lussinpiccolo (che all’epoca era italiana, oggi croata), dove era venuta alla luce nel 1913.
Già, mia mamma… Iva Tarabocchia. Era una donna bella e intelligente, ricca e generosa. E mi adorava. Io ero l’ultimo di quattro figli. Il preferito. Un feeling cominciato alle 20 di domenica 12 gennaio 1947. Alle prime doglie si recò a piedi accompagnata da mio padre alla Clinica Sanatorio Triestino di via Rossetti, distante cento metri da casa. Due ore dopo, alle 22, mi diede al mondo. Pesavo più di quattro chili. Un parto senza particolari problemi né dolori. Un atterraggio perfetto.
Dodici anni prima era nata mia sorella Marina, dieci Alice e sette mio fratello Francesco, detto Franco, un bellissimo ragazzo, purtroppo morto all’età di trent’anni. Durante la guerra era stato colto da una tremenda meningite e a Lussinpiccolo, dove la mia famiglia era sfollata, non c’erano né medici né medicine, soltanto stracci umidi. Quando scomparvero le febbri a 40°, Franco non camminava più, non riusciva a stare in equilibrio, non controllava le funzioni, non coordinava i movimenti. Il sistema nervoso centrale era gravemente danneggiato. Parlava con difficoltà ma capiva tutto.
Ho condiviso la stanza con Franco fino all’età di dieci anni. Io andavo alle feste e lui no. Uno strazio che non ho mai superato. Fu la croce dei miei genitori, che vollero però curarlo in casa piuttosto che parcheggiarlo in una clinica.
La mamma “pasticciava” molto bene fra i tasti del pianoforte. A differenza di quasi tutte le madri del mondo, per addormentarmi lei non mi cantava ninne nanne, me le suonava. Così ho imparato le prime canzoni, molte delle quali in tedesco. Trieste era stata lo sbocco al mare dell’impero austroungarico e il tedesco era diventata la seconda lingua. Era usanza nelle case signorili che ci fosse un’ala della casa riservata ai bambini chiamata “kinderstube”, governata da babysitter quasi tutte austriache della Carinzia, molto cattoliche e severe: se cadeva del pane a terra lo si doveva baciare prima di mangiarlo. Per anni ho creduto che il rito avesse proprietà disinfettanti. Ovviamente preferivo stare con la mamma.
Adoravo ascoltare con lei al giradischi il Bolero di Ravel, che ancora oggi mi commuove perché mi ricorda quei momenti trascorsi assieme, e premo stop mano a mano che si sviluppa il crescendo.
A Natale, davanti all’albero, si cantava Stille Nacht in tre lingue: tedesco, italiano e sloveno, in omaggio alla provenienza dei collaboratori domestici che a casa abbondavano (cuoche, cameriere, babysitter).
Grazie a mia madre sono entrato in contatto con la musica.
Ho vissuto a Trieste dalla nascita fino all’età di 15 anni. Trieste per me vuol dire barca, mare, prime cotte e spritz. Ma anche amor di patria. Noi aspettavamo con ansia il ritorno di Trieste all’Italia. Usavamo un’espressione che coglieva in pieno il malessere che provavamo: “Xe che noi non semo italiani, ma no podemo esser gnente altro”.
Trieste è bella e speciale. Sembra di stare all’estero, con quell’architettura mitteleuropea di via Carducci, piazza Unità… E poi quel mare a portata di mano ovunque. La gente ha un umorismo tutto suo. È un mondo a sé stante. Venezia è molto lontana, anche se sulla carta non sembrerebbe. E a me, dopo un po’ che sono a Trieste, sale una sorta di angoscia da emarginazione geografica.
A Trieste convivono da sempre in perenne armonia cattolici, ebrei, greco ortodossi, protestanti. Come a Sarajevo prima dell’ultimo conflitto. Ma il risentimento contro gli sloveni cova sotto la cenere. I quaranta giorni dell’occupazione delle truppe di Tito con tremila infoibati ha lasciato ferite profonde.
In una giornata invernale di pioggia e di bora ho assistito all’arrivo via mare delle truppe italiane. Era l’ottobre del 1954. Avevo sette anni. Mio padre ci svegliò all’alba gridando: “Si chiude il portone sul soldato Wintertone” (il generale americano Winterton comandava le truppe di occupazione). Ci recammo sulla riva e da una finestra in casa di amici vedemmo lo sbarco dei nostri soldati da una nave accostata al Molo Audace. Invitammo a casa decine di militari italiani che avevano la divisa lacera per via dell’entusiasmo delle ragazze che avevano strappato loro stellette, bottoni e perfino pezzi di tessuto. Si sentivano degli eroi.
Una canzone, Le campane di San Giusto, fissava il momento con estrema chiarezza: “Le ragazze di Trieste cantan tutte con ardore: oh Italia, oh Italia del mio cuore, tu ci vieni a liberar”. La trasmetteva Radio Trieste sotto l’attenta sorveglianza del Gma (Governo Militare Alleato). Il destino della città era in bilico: il rischio che la Zona A (la porzione di territorio affidata provvisoriamente all’Italia, mentre la Zona B, Capodistria, era già Jugoslavia) finisse nelle mani di Tito non era più solo un temuto pericolo ma un fatto concreto.
Anche il Festival di Sanremo si ricordò di Trieste, con una canzone struggente cantata da Nilla Pizzi nella seconda edizione, quella del 1952. Si intitolava Vola Colomba e quella che in apparenza poteva sembrare una banale e sdolcinata canzone d’amore, in realtà conteneva un messaggio subliminale che commuoveva tutti i triestini (la stessa Nilla Pizzi interpretò un’altra canzone dal significato recondito, Papaveri e Papere, in cui dietro a un motivetto quasi infantile si nascondeva un attacco alla classe politica, i “papaveri” appunto).
Recita il testo di Vola colomba: “Dov’è il mio amore che, inginocchiato a San Giusto, prega con l’animo mesto: ‘fa che il mio amore torni, ma torni presto’”. San Giusto è il patrono di Trieste e l’amore che doveva tornare era l’Italia, alla quale noi triestini sognavamo di appartenere.
Per questo motivo quando arrivarono i soldati italiani il clima che si respirava in città era di festa. Mio padre stappò i migliori vini della sua cantina. Lui era stato congedato dagli alpini col grado di Capitano. Aver ospitato quei soldati a casa sua lo aveva fatto sentire un soldato anche lui.
Una delle prime cose che ricordo di avergli chiesto è: “Papà, che cos’è la statistica?”
“Vedi Mario, funziona più o meno così: per sapere se il minestrone è riuscito bene oppure se è corto di sale non occorre mangiarlo tutto. Basta che lo mescoli bene e poi ne assaggi una punta di cucchiaio. Il resto del minestrone avrà l’identico sapore”. Il mio papà era uno statistico ma soprattutto un grande semplificatore di concetti complessi. Aveva sempre un sacco di lavori: professore universitario, preside della Facoltà di Scienze Economiche a Trieste, presidente della Camera di Commercio, consigliere d’amministrazione della Shell e delle Assicurazioni Generali, presidente fondatore e proprietario della Doxa di Milano, accademico dei Lincei. Tutti ne esaltavano la grandezza. Io invece lo trovavo abbastanza egocentrico e avevo con lui poco dialogo, soprattutto per via delle sue lunghissime assenze da casa. E poi trovavo insopportabile il suo voler comandare anche in campi nei quali non era ferrato.
Mio padre Pierpaolo era figlio di un avvocato, Giuseppe Luzzatto detto Pepi Paragrafo (perché citava a memoria gran parte dei paragrafi del Codice Civile austriaco). Papà era un grande rematore, campione italiano a soli ventiquattr’anni, ma un mediocre marinaio.
Oltre all’amore, è stato il mare ad accomunare i miei genitori. Mia madre veniva infatti da una stirpe di marinai e possedeva le quote di due compagnie di navigazione che andarono molto bene finché non venne riaperto il canale di Suez, che provocò la caduta dei noli con conseguente fallimento delle compagnie.
1963. Lo studio mi annoia a morte. Disperdo energie nelle attività più inutili e disparate: milito nella Gioventù Liberale, bevo almeno un Martini ogni sera prima di cena, costruisco rudimentali ordigni esplosivi, raccolgo idrogeno con l’elettrolisi del sale, costruisco una radio a galena, studio la propagazione sulle onde corte, ascolto Radio Bucarest e Radio Vaticana, non mi perdo una festa, dove cerco sempre di ballare i lenti per stare corpo a corpo con la quinta misura delle tette di Giannella. All’epoca noi ragazzi ascoltavamo Notte di luna calante di Peppino di Capri, Let’s Twist Again di Chubby Checker, Speedy Gonzales di Pat Boone. Chi non voleva ballare ma fare l’impegnato preferiva Mondo in Mi Settima di Celentano. Tutta roba più moderna rispetto ad artisti triestini come Lelio Luttazzi e Teddy Reno.
Così arrivò inevitabilmente la bocciatura. Colpì anche il mio migliore amico Piero Dorfles. Le rispettive mamme, per la vergogna di farsi vedere in giro con noi, proposero di mandarci in “esilio” a Cortina d’Ampezzo. Ma per l’estate era stata prevista da mio padre un’altra meta affinché migliorassi la mia conoscenza della lingua inglese: presso una famiglia di Folkestone nel Kent. Papà fu categorico nel motivare tale scelta:
1)   Vai a Folkestone perché la vera Inghilterra è noiosa e non è soltanto Londra, che d’estate è piena di italiani.
2)   Ci vai in treno e in nave perché devi capire e sentire quanto è lontana.
3)   Se Mussolini avesse trascorso almeno un’estate a Folkestone avrebbe capito di che pasta sono fatti gli inglesi e non avrebbe mai dichiarato guerra al Regno Unito.
Mi ritrovai così nella famiglia ultraconservatrice e monarchica di un pilota in pensione della Raf di nome Reginald Ray-Jones.
Nell’estate del 1963 in Gran Bretagna successe di tutto: l’esplosione della Beatlemania, lo scandalo Profumo (un ministro che se la faceva con un’avvenente spia russa), la rapina del secolo sul treno Glasgow-Londra. Un casino.
Ad agosto mio padre decise che io, lui e la mamma ci saremmo trasferiti a Roma, dove da qualche anno aveva la Cattedra di Statistica. Cercai inutilmente di oppormi con tutte le mie forze. Lasciare Trieste è stato straziante. Avrei abbandonato le feste con gli amici e la rassicurante routine della provincia. Oggi, tutte le volte che ascolto Rotta per casa di Dio degli 883, rivivo una serata passata con un amico, Paolo Persoglia, a cercare una villa sulla costiera triestina, lungo la Statale 14. “Se la vedo la trovo”, continuava a ripetere Paolo mentre setacciavamo inutilmente decine di cancelli sbarrati e finestre spente. La festa non la trovammo.
Mio padre, invece, la strada per Roma la conosceva benissimo.
2
SONO STATO UN PARIOLINO
D a Trieste a Roma: che shock. Un altro elenco alfabetico da memorizzare. A Trieste quello delle medie si era in parte spalmato sul ginnasio: Adovasio, Antonini, Benussi, Bisiani, Cecovini, Cepak, Cossutta, Crasso, De Santi, Dorfles, Ferrero, Fusco, Lanzavecchia, Longo, Luzzatto, Maciotta, Minervini, Minzi Cleva, Piergiulio; a Roma Alfonsi, Bartoloni, Boitani, Calace, Cavallaro, Chirizzi, Di Lorenzo, Eboli, Fassi, Fazzari, Fietta, Gervasi, Ilardi, Luzzatto, Magnarapa… La sezione I B del Liceo Ginnasio “Torquato Tasso”. Anno scolastico 1963-1964.
Fazzari era molto bella. Se avessero organizzato il concorso di Miss Tasso lo avrebbe vinto. Il primo giorno di scuola mi guardò i piedi, ricoperti da scarpe numero 44. “Mazza oh che fette che c’iai?”.
E io, col mio accento triestino: “Ma cosa sono le fette?”. Scoprirò poi che sono i piedi grandi in dialetto romanesco.
I compagni mi sfottono perché aspiro bene l’acca e lo spirito aspro in greco. Il prof. Raffaele Argenio per fortuna mi difende: “Guardate che siete voi in errore a non saper pronunciare le aspirate”.
A Trieste conoscevo tutti, a Roma nessuno. Mi sentivo sperduto.
Roma e il Tasso si rivelarono subito due realtà difficili. Avevamo preso in affitto un appartamento in via Campania a Porta Pinciana, con vista su Villa Borghese. L’appartamento non era lontano dal liceo dove avrei frequentato, da ripetente, la I B. Avevo solo un’amica di Trieste, che abitava dall’altra parte di Villa Borghese, in via Aldrovandi. Si chiamava Cristina Della Zonca, e io anni dopo mi sono innamorato di lei. È morta prematuramente qualche anno fa e tutte le volte che ascolto Il compleanno di Cristina di Venditti piango.
Ricordo sabati e domeniche solitari. Uno dei due bagni della casa confinava con un altro bagno di una casa più piccola della stessa proprietaria, che veniva affittata per lo più a fot...

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