Vita sintetica
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Breve storia degli organismi che non esistono in natura

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Vita sintetica

Breve storia degli organismi che non esistono in natura

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Tra incubatori, centrifughe e pipette, e soprattutto con l'aiuto di potentissimi computer, nei laboratori di biologia sono già nate le prime forme di vita sintetica, vale a dire esseri viventi che non esistono in natura. Sono organismi apparentemente molto semplici, come i batteri, ma il loro DNA non è mai esistito sulla faccia della Terra perché è stato progettato dall'uomo. Sono una sorta di app della vita, di certo incredibilmente più complessa delle app che usiamo tutti i giorni. I batteri sintetici non sono mai usciti dagli straordinari laboratori in cui sono nati e probabilmente non lo faranno ancora per molto tempo. Ma quando saranno pronti per essere utilizzati in tutta sicurezza promettono di fare molto per il nostro pianeta. Potranno aiutare a ripulire acque e terreni inquinati, diventare fabbriche di farmaci su misura e, in un futuro più lontano, rendere ospitali altri pianeti perché l'uomo possa esplorarli.

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Information

Capitolo 1
AI CONFINI DELLA VITA
7 agosto 1996, quartier generale della NASA a Washington. La stanza è affollatissima di telecamere e schiere di macchine fotografiche sono puntate su una scatoletta di plastica trasparente all’interno della quale, adagiata su un cuscinetto di velluto, c’è una piccola roccia. Quello strano sasso ha le dimensioni di un pugno, un colore tra il grigio e il marrone e una superficie irregolare. È arrivato da Marte, da dove 16 milioni di anni fa è stato scagliato via, forse in seguito all’impatto violento di un asteroide, e 13.000 anni fa è finito sulla Terra. Da allora è rimasto nascosto nei ghiacci dell’Antartide finché, nel 1994, è stato trovato e studiato. Il microscopio elettronico ha rivelato che sulla sua superficie si trovano strutture davvero molto strane, a forma di sferette. “Riteniamo che possano essere microfossili provenienti da Marte”, dice ai giornalisti David McKay, dello Johnson Space Center della NASA. È l’astrobiologo che ha coordinato la ricerca su quel meteorite, chiamato Allan Hills 84001 (ALH84001, nella versione abbreviata). Con i suoi colleghi ha pubblicato i risultati su una delle più accreditate riviste scientifiche internazionali, Science, e adesso è il momento di raccontare al mondo i risultati delle loro ricerche. Parlando ai giornalisti e sotto il flash dei fotografi, McKay tiene a precisare che i suoi risultati non sono affatto una prova definitiva dell’esistenza di una vita passata su Marte. Fa bene, perché nei decenni successivi quell’ipotesi verrà più volte smentita per poi tornare a essere considerata degna di attenzione, ma senza prove definitive.
Da allora più gruppi di ricerca in tutto il mondo hanno detto la loro, pro e contro l’ipotesi di McKay e probabilmente le cose andranno avanti così finché una missione su Marte non fornirà nuovi dati, confermando che sul pianeta rosso sono esistite forme di vita, o forse che esistono ancora. Nel frattempo il meteorite ALH84001 è diventato una star della fantascienza. È citato in libri come La verità del ghiaccio (2001) e Il simbolo perduto (2009), entrambi di Dan Brown, nel racconto Il custode di Marte di Martin Amis (2000), in film come Contact, di Robert Zemeckis (1997).
Come accade molto spesso, però, la realtà può superare la fantascienza. Lo stesso concetto di essere vivente, infatti, potrebbe essere ripensato. Il confine tra il mondo inanimato e quello animato potrebbe non essere più così netto come lo si considerava solo fino a pochi decenni fa, al punto che diventa possibile immaginare scenari completamente nuovi. Per esempio, gli sviluppi più recenti della genetica hanno dimostrato che il codice della vita non è che una sequenza di informazioni e, in questa prospettiva, sarebbe davvero singolare quello che potrebbe accadere in seguito all’eventuale scoperta di forme di vita elementari su altri pianeti, come Marte: nessun viaggio rischioso con microrganismi alieni a bordo di una navetta insieme a un equipaggio umano, né forme di vita marziane sconosciute portate a Terra da una sonda automatica. Il trasferimento sul nostro pianeta diventerebbe inutile se per conoscere in dettaglio un’altra forma di vita fosse sufficiente ottenerne la mappa genetica già su Marte e spedire sulla Terra solo questa informazione.
Quando la vita potrà finalmente viaggiare alla velocità della luce, l’universo diventerà più piccolo e i nostri poteri saranno più grandi. Semplici calcoli indicano che potremmo inviare delle sequenze a un convertitore biologico digitale su Marte in 4,3 minuti, sfruttando il momento in cui il pianeta rosso passa più vicino alla Terra, in modo da fornire ai primi insediamenti di coloni scorte di vaccini, antibiotici e farmaci personalizzati.
Questa visione avveniristica, ma fondata su possibilità molto concrete, viene proposta nel libro Vita alla velocità della luce da Craig Venter, il ricercatore che per primo ha pensato di combinare lo studio del codice genetico contenuto nella molecola del DNA con le possibilità straordinarie offerte dai computer. D’altro canto lo stesso Venter è convinto che:
Molte delle idee più grandi e rivoluzionarie, dai razzi per andare sulla Luna all’invisibilità, sono state anticipate dal mito, dalla leggenda e, naturalmente, dalla fantascienza. Si può dire la stessa cosa per i nostri sforzi di utilizzare la conoscenza del software della vita per trasportare le istruzioni digitali necessarie a costruire un organismo vivente, oppure uno dei suoi componenti, da un luogo all’altro su questo pianeta o fra pianeti o luoghi diversi del Sistema Solare.
Questo è teoricamente possibile perché nel momento in cui si legge il codice genetico ottenuto da una sequenza di DNA, il codice fisico della molecola della vita viene trasformato in un’onda elettromagnetica che può essere trasmessa alla velocità della luce. A suggerire a Venter la possibilità di far dialogare le particelle della biologia con quelle della fisica erano state le ricerche condotte dall’astronomo bulgaro Dimitar D. Sasselov, uno dei responsabili della missione Kepler della NASA per la ricerca dei pianeti esterni al Sistema Solare. Sasselov è anche direttore della Harvard Origins of Life Initiative, il programma di ricerca sull’origine della vita promosso nel 2007 dall’università americana di Harvard e che ha fra i suoi obiettivi ricostruire i processi che, sulla Terra come su altri pianeti, hanno portato semplici molecole ad assemblarsi in strutture più complesse e capaci di replicarsi. Che si tratti di analizzare meteoriti marziane, ricostruire l’origine dei viventi sul nostro pianeta o riuscire a individuare gli elementi essenziali che possono trasformare della materia inanimata in un essere vivente, per Sasselov esplorare un terreno di indagine così nuovo e complesso è possibile solo favorendo “l’interazione fra gente specializzata in discipline diverse, che usi nuovi metodi di indagine e nuovi strumenti promuovendo nuovi punti di vista” e “sfidando sorprendenti connessioni fra materiali e processi fino a quel momento considerati non collegati fra loro”. Non è difficile immaginare che se in futuro dovessero essere scoperte forme di vita su altri pianeti, queste potrebbero essere molto diverse dagli organismi che conosciamo e forse basate su princìpi, elementi e meccanismi differenti, al punto che potrebbe essere necessario “elaborare una nuova definizione operativa di vita per individuare nuove forme viventi. Per affrontare temi come questi bisogna avere idee nuove e anticonvenzionali, ma soprattutto bisogna essere liberi da pregiudizi”.
Proprio la riflessione sul rapporto tra vivente e non vivente è stata il punto di partenza delle ricerche sulla vita sintetica condotte da Venter. È accaduto molto prima che intraprendesse la sua carriera scientifica, nel pieno della guerra in Vietnam: “Come addetto alla sanità militare – racconta – ho imparato con stupore che la differenza fra animato e inanimato può essere sottile”.
Addentrarsi in questo territorio incerto al confine tra vita e non vita è tutt’altro che facile: è un terreno accidentato che la conoscenza scientifica ha cominciato a esplorare solo recentemente, mentre letteratura e fantascienza ne hanno subìto il fascino da tempo. Uno degli esempi citati dallo stesso Venter è Frankenstein, il romanzo scritto da Mary Shelley fra il 1816 e il 1817, ispirato agli esperimenti sull’elettricità animale condotti in Italia da Luigi Galvani nella seconda metà del Settecento. Se il galvanismo era apertamente citato da Mary Shelley, non lo erano gli esperimenti fatti a Londra dal nipote di Galvani, Giovanni Aldini, ma probabilmente sono stati proprio questi ultimi a ispirare il romanzo. Professore di Fisica a Bologna nel 1798, Aldini aveva viaggiato in tutta l’Europa tenendo dimostrazioni pubbliche sull’elettrificazione di corpi senza vita di animali e di esseri umani. Erano presentazioni a metà fra la conferenza e lo spettacolo, le più celebri delle quali erano state organizzate a Londra all’inizio dell’Ottocento. Nel 1802 Aldini induceva con l’elettricità movimenti spasmodici nei muscoli facciali di teste decapitate di bovini, cavalli, pecore ed esseri umani; nel 1803, presso il Collegio Reale dei Chirurghi, esperimenti analoghi venivano condotti sul corpo di un uomo chiamato George Forster, subito dopo l’esecuzione della sua condanna a morte per impiccagione. Quando la stimolazione elettrica veniva applicata alla mandibola, questa cominciava a tremare, i muscoli a contrarsi e l’occhio sinistro si apriva. Applicando poi l’elettricità ad altre parti del corpo, si provocava un movimento convulso, che poteva far pensare a una rianimazione. Il riferimento al probabile legame con il Frankenstein di Mary Shelley è ancora più evidente nel libro che Aldini pubblicò nel 1807, sempre a Londra, e intitolato An account of the late improvements in Galvanism, nel quale affermava che in particolari condizioni sarebbe stato possibile riportare in vita un cadavere per mezzo della stimolazione elettrica. Quell’affermazione era destinata ancora di più a destare scalpore in quanto all’epoca i confini tra la vita e la non vita erano decisamente marcati. La chimica stessa li aveva sanciti con uno dei suoi personaggi più autorevoli, lo svedese Jöns Jacob Berzelius, che nel 1810 aveva proposto che gli organismi viventi fossero tali in virtù di quella che chiamava “forza vitale”. Questa forza misteriosa era diventata la base di una teoria più generale chiamata “vitalismo” e costituiva lo spartiacque tra il mondo animato, fatto di composti organici, e quello inanimato, fatto di composti inorganici. Una delle conseguenze fondamentali di questa immagine del mondo era stata l’affermazione dell’impossibilità di ottenere un composto organico in laboratorio. In altre parole, produrre un composto organico sintetico era considerato impossibile.
Un errore fatto durante un esperimento, però, diciotto anni più tardi faceva tremare dalle fondamenta quella teoria, con un impatto molto più dirompente di quello che fino ad allora avevano avuto il Galvanismo, gli esperimenti di Aldini e il romanzo di Mary Shelley. Nel 1828 il chimico tedesco Friedrich Wöhler, allievo di Berzelius, nel suo laboratorio nel Politecnico di Berlino era alle prese con una reazione chimica nella quale cercava di preparare un sale inorganico chiamato cianato di ammonio, a partire da cianato d’argento e cloruro d’ammonio. Una contaminazione, però, costringeva il chimico a ripetere la prova utilizzando sostanze diverse: il cianato di piombo e una soluzione acquosa d’ammoniaca. Nemmeno quella volta il risultato fu quello atteso: quello che Wöhler vedeva erano “cristalli incolori, limpidi e lunghi anche oltre un pollice”. La loro analisi non lasciava spazio a dubbi: quello che aveva ottenuto era una sostanza organica che coincideva perfettamente con l’urea, la sostanza che permette all’organismo dei mammiferi di eliminare i prodotti azotati e che si trova nelle urine. “Le comunico che sono in grado di preparare l’urea senza l’intervento del rene…”, scriveva Wöhler a Berzelius.
Sebbene il primo composto organico ottenuto in laboratorio fosse un fatto incontrovertibile, la teoria del vitalismo non era stata scalfita e continuò ad avere credito anche nel mondo scientifico. È stato così anche quando, nei decenni successivi, furono ottenuti in laboratorio molti altri composti organici a partire da sostanze inorganiche. D’altro canto non è certamente la prima volta che risultati scientifici portatori di idee radicalmente innovative debbano faticare non poco nel competere con idee radicate da tempo nella cultura e funzionali a una particolare visione del mondo. Il lavoro della scienza però continua a procedere, spesso seguendo più di un sentiero. È accaduto così anche nella vera e propria rivoluzione avvenuta nella biologia a partire dalla fine dell’Ottocento e che nei primi anni Duemila ha cominciato a produrre risultati molto concreti. Andiamo a esplorare allora i tanti sentieri aperti e a vedere come alcuni si siano incrociati per un breve tratto e altri si siano incontrati, confluendo in una strada più grande.
Un sentiero importante nell’esplorazione del territorio al confine tra il mondo inorganico e quello dei viventi è quello che avrebbe portato alla nascita della genetica e, nell’arco di alcuni decenni, a scoprire come un cristallo possa racchiudere il segreto della vita. Lo aveva inaugurato nella seconda metà dell’Ottocento Johann Mendel, che aveva preso il nome Gregor quando era entrato a far parte dei frati agostiniani. In Moravia, nell’Abbazia di San Tommaso a Brno, Mendel aveva trovato l’ambiente ottimale per proseguire gli studi naturalistici che aveva cominciato nell’università di Olomouc. Arrivato a Brno come professore di Fisica, Mendel aveva inizialmente scelto i topi come i soggetti migliori per studiare i meccanismi dell’ereditarietà. Ma i suoi superiori non vedevano di buon occhio che un frate facesse esperimenti basati su incroci di animali e Mendel si trovò costretto a obbedire, ripiegando sui vegetali. Aveva scelto di seguire l’andamento di sette caratteristiche delle piante di piselli: l’altezza della pianta, la forma e il colore del baccello, la forma e il colore dei semi, la posizione e il colore dei fiori. Per ognuna aveva registrato ogni minimo cambiamento osservando circa 28.000 piante per sette anni, fra il 1856 e il 1863. I dati che registrava indicavano che alcuni di quei tratti si trasmettevano da una generazione all’altra, ma rimaneva un mistero il motivo che spiegasse quello che vedeva. Tutto quello che allora Mendel era in grado di vedere erano delle regolarità nella trasmissione di alcuni tratti, che chiamò recessivi e dominanti. Tutto questo accadeva però in un assoluto silenzio. Non erano riuscite a risvegliare l’attenzione né le conferenze pubbliche tenute da Mendel nel 1865, né la pubblicazione nella quale nel 1866 presentava i suoi risultati e che aveva inviato ai ricercatori europei più prestigiosi del tempo per invitarli a riprodurre i suoi esperimenti.
Solo una trentina di anni più tardi altri ricercatori, in modo indipendente, giungevano alle stesse conclusioni di Mendel. Erano l’olandese Hugo de Vries, il tedesco Carl Correns e l’austriaco Erich von Tschermak. I loro studi li avevano portati a riscoprire il contributo di Mendel e ad attribuirgli il merito di avere gettato le basi di quel nuovo campo di ricerca. Era il 1900 e la nuova disciplina riceveva un nome sei anni più tardi, quando il biologo britannico William Bateson usava per primo il termine “genetica”, nel suo intervento alla Terza conferenza internazionale sull’ibridazione delle piante, tenuta a Londra nel 1906. Nel 1905, intanto, il botanico danese Wilhem Johannsen introduceva il concetto di “gene” nel libro Gli elementi dell’eredità, tradotto in tedesco nel 1909. A imprimere un nuovo corso alla biologia e alla nuova scienza della genetica era stato però il biologo americano Thomas Hunt Morgan. Lavorava alla Columbia University di New York e il suo laboratorio si trovava al nono piano, nella stanza 613, diventata famosa come la “stanza delle mosche”. Si chiamava così perché i suoi sette banconi di laboratorio erano stracolmi di bottiglie di coltura nelle quali i moscerini della frutta (Drosophila melanogaster) vivevano e si moltiplicavano, di generazione in generazione. Quegli insetti erano già utilizzati nei primi laboratori di genetica, ma fu Morgan a trasformarli in alcuni dei migliori alleati dei genetisti. Nella stanza delle mosche Morgan e il suo gruppo di giovani collaboratori cercavano di rispondere alle domande più ambiziose della loro giovane disciplina: che cos’erano i fattori ereditari? Dove si trovavano? Come venivano trasmessi da una generazione all’altra? Per trovare quelle risposte il gruppo di Morgan lavorava
come fosse un’unità. Ognuno conduceva i suoi esperimenti, ma sapeva esattamente che cosa stessero facendo gli altri e ogni nuovo risultato veniva discusso apertamente. Non si faceva troppo caso alla priorità o a chi fosse la fonte delle nuove idee. Quello che contava era andare avanti con il lavoro. C’era tanto da fare, c’erano nuove idee da sperimentare e tante nuove tecniche da sviluppare. Sono stati rari i laboratori scientifici ad avere un’atmosfera simile di eccitazione e un tale entusiasmo.
A descrivere così la stanza delle mosche era uno degli studenti di Morgan, Alfred Sturtevant, il primo nella storia della genetica ad avere ricostruito una mappa cromosomica. Gli esperimenti condotti in quella stanza dal 1911 al 1928 studiando migliaia e migliaia di moscerini, osservandoli con lenti d’ingrandimento e microscopi e registrandone le caratteristiche, avevano portato Morgan e il suo gruppo a scoprire che i geni si trovavano nei cromosomi. Per questo Morgan è stato premiato con il Nobel per la Medicina nel 1933.
Figura 1.1 – Erwin Schrödinger (fonte: Nobel foundation).
Restava ancora da scoprire il responsabile della trasmissione ereditaria. Un indizio importante, lungo quest’altro sentiero della ricerca, era stato raccolto nel 1928 dal biologo britannico Frederick Griffith, che aveva osservato come, dopo la morte, i batteri riuscivano a trasferire il loro materiale genetico a batteri vivi, modificandoli: era la cosiddetta “trasformazione batterica”. L’esperimento di Griffith era stato condotto sullo Streptococcus pneumoniae, il batterio principale responsabile della polmonite e, in seguito, il “principio trasformante” che i batteri si trasmettevano fra loro venne identificato come l’acido desossiribonucleico (DNA). Si cominciava a entrare in un campo nel quale non solo diventava possibile trovare nuove definizioni della vita, da più punti di vista, ma in cui era inevitabile che entrasse in gioco anche un punto di vista filosofico. Lo sapeva bene un fisico come Erwin Schrödinger, quando nel 1943 tenne a Dublino le conferenze intitolate Che cos’è la vita?, raccolte l’anno successivo nel libro dallo stesso titolo, destinato a condizionare le ricerche di molti protagonisti della biologia del Novecento. La domanda che Schrödinger si poneva era:
In che modo possono essere spiegati con i concetti della fisica e della chimica gli eventi che hanno luogo all’interno dei confini di un organismo vivente?
In un’epoca in cui il codice genetico non era stato ancora scoperto, l’ipotesi di Schrödinger guardava lontano e suggeriva l’esistenza di una sorta di “cristallo aperiodico”, ossia una grande molecola dalla struttura non ripetitiva nella quale era contenuta l’informazione genetica. Identificarla era tutt’altro che semplice, ma il cammino che avrebbe portato a scoprire la molecola della vita era cominciato. Tanti ricercatori, tra Europa e Stati Uniti, cominciavano la caccia a quella sorta di Sacro Graal della biologia. Uno dei primi indizi lo aveva fornito negli anni Trenta il biologo tedesco Joachim Hämmerling: studiando un’alga unicellulare, l’Acetabularia, aveva individuato il nucleo della cellula come la struttura che controlla lo sviluppo degli organismi. Un altro passo importante arrivò negli anni Quaranta dai canadesi Oswald Theodore Avery e Colin MacLeod, che con l’america...

Table of contents

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Introduzione
  6. Capitolo 1: Ai confini della vita
  7. Capitolo 2: Re, forbici e servitori
  8. Capitolo 3: L’era digitale della biologia
  9. Capitolo 4: Una mappa dopo l’altra
  10. Capitolo 5: Il cerchio blu
  11. Capitolo 6: Syn 3.0, l’Abc della vita
  12. Capitolo 7: Niente di simile in natura
  13. Capitolo 8: Giocare a essere Dio?
  14. Capitolo 9: Vaccini, enzimi e biosensori, sognando Marte
  15. Capitolo 10: Chi avrà il controllo?
  16. Informazioni sul Libro
  17. Circa l’autore