Performance ADS con Google e Facebook
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Performance ADS con Google e Facebook

Il ruolo dell'advertising nel marketing omnicanale

Andrea Testa, Carmelo Samperi

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  1. 272 pages
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Il ruolo dell'advertising nel marketing omnicanale

Andrea Testa, Carmelo Samperi

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Google e Facebook Ads sono la risposta "olistica" al superamento dellevsole piattaforme di keyword advertising e dell'uso esclusivo dei motori di ricerca come strumenti di marketing vincenti. Oggi, infatti, a essere indispensabili sono le strategie omnicanale: YouTube, Instagram, Messenger e WhatsApp devono essere tutti compresi in un'unica strategia di marketing perché diventi veramente efficace.Questo manuale aggiornato alle ultime modifiche delle piattaforme di advertising consente di apprendere gli strumenti tattici in materia di funnel marketing e advertising messi a disposizione da Google e Facebook.Dai marketer freelance ai piccoli medi imprenditori, fino ai responsabili advertising di grandi aziende e multinazionali, tutti i professionisti troveranno in questo libro soluzioni strategiche e operative – oltre ad alcuni casi di studio – pensate appositamente per ottimizzare le proprie strategie di marketing, inserendo la giusta piattaforma di advertising in ogni gradino del customer journey.

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Information

Publisher
Hoepli
Year
2020
ISBN
9788820398163
Capitolo 1
Da AdWords a Google Ads
Durante il Web Marketing Festival 2019, sapendo che avrebbero partecipato decine di colleghi, ho cercato1 di inventarmi qualcosa per unire il classico concetto di utile a quello più fumoso e soggettivo di dilettevole. Era da un po’ di tempo che avevo ripreso a girare dei brevi video sulle caratteristiche di Google Ads e, come per fortuna quasi sempre è avvenuto, stavano riscuotendo un discreto successo. Se vado a guardare il numero delle interazioni mi accorgo che ne registrano sempre molto poche, ma poi quando poi sento i colleghi sui vari canali mi accorgo che tanti li guardano, e da quella visualizzazione concentrata in un paio di minuti nascono sovente interessanti suggestioni e confronti.
Basandomi su questo assunto del “tutti vedono, a tanti piace”, ho quindi organizzato una serie di incontri: dei video uno contro uno nei quali ho affrontato – con colleghi quali Simone Cornelio, Filippo Trocca e Matteo Zambon – temi di varia natura, ma sempre collegati al soggettivo modo di intendere il marketing e le sue varie sfaccettature. Abbiamo discusso senza freni di modelli di attribuzione, sistemi di tracciatura e interesse crescente per tutto il comparto del marketing digitale.
Forse questo ultimo aspetto, che in realtà nei video avevo affrontato per primo insieme a Trocca, è quello che più mi ha acceso lampadine in testa. Parlando con un cliente, scherzosamente mi ero sentito dire che chi lavora nel marketing è solitamente persona noiosa, ma io in questa descrizione non mi ci ritrovo affatto. Mi sento da sempre una persona curiosa e, anche se molto del mio lavoro dipende dalla matematica, l’ho sempre visto come una serie di enigmi più o meno complicati da risolvere. Tutto questo ritengo faccia di me qualcosa di opposto a una persona noiosa. Leggo libri di qualsiasi genere, fumetti italiani e non, anche se ultimamente mi sono concentrato nel consumo quasi compulsivo di testi o fiction collegati alla fantascienza, complice anche il fatto che su Netflix si trova veramente un po’ di tutto.
Avendo iniziato a conoscere il cosmo attraverso saghe quali Star Wars o telefilm come Spazio 1999, ed essendo un tipo per cui la letteratura ideale era tarata su Arthur C. Clarke o sui romanzi di Philip K. Dick, guardare il marketing contemporaneo, con tutti quei paroloni ammiccanti all’inglese, o il perfetto vocabolario del passeggero spazio-temporale, da un po’ di tempo mi ha portato a riflettere ancora più a fondo sugli sviluppi futuri del mio lavoro. Per questo motivo, sicuramente un po’ per gioco, ma soprattutto per alleggerire il carico di informazioni e nozioni sulla moderna concezione di marketing, l’ultimo video della serie a coppie l’ho fatto insieme a un collega che si sposa completamente con l’idea del quadro futuristico, Alessio Semoli.
Il marketing moderno sembra il brutto riassunto degli input coi quali la letteratura di fantascienza ci ha catechizzato. Quasi che la tecnologia si muova sulla base delle intuizioni degli scrittori piuttosto che su effettive necessità delle persone. Dove la letteratura diventa sterile, lo sci-fi diventa una dozzinale carta carbone. Oggi tutto racconta di viaggi spaziali, nei quali la matrice è “ho impostato le coordinate, ma mi sono perso a causa di un errore”. La cosa interessante è che, seppur le tracciature delle rotte ormai da diversi anni anche nell’aeronautica terrestre avvengano al computer, gli errori di rotta nella fantascienza sono sempre causati dall’incuria dell’uomo.
L’uomo quindi è da sempre predisposto a essere fallace e la macchina è destinata a correggerne gli errori quando il primo non riesce a raggiungere l’obiettivo. In tutto questo ci dimentichiamo troppo spesso che lo straordinariamente funzionale e funzionante concetto di machine learning nell’advertising – filo conduttore di questo libro – nasce proprio dalla capacità di fornire il miglior messaggio pubblicitario all’utente umano che sta navigando sul proprio dispositivo. In pratica si usa l’infallibilità della macchina per venire incontro alla fallibilità dell’uomo. Ma cosa succede se e quando il comportamento dell’uomo diventa nevroticamente caotico? Questo dubbio un po’ amletico si riscontra soprattutto in coloro che storcono il naso a prescindere su tutti i temi collegati al machine learning o intelligenza artificiale.
Modelli predittivi passivi
Tornando ai video, quando uscì quello con Alessio Semoli, rimasi stupito dalla spaccatura nei commenti. I detrattori sostenevano che il video trattasse in modo troppo scherzoso e superficiale un tema di importanza critica, ovvero il subentrare della macchina nei compiti dell’uomo, mentre chi era a favore sosteneva che il modello colloquiale usato fosse un ottimo spunto per alleggerire la pressione, spesso deviata, con la quale l’intelligenza artificiale viene raccontata.
Ecco, dal mio punto di vista l’idea era proprio quella di parlare in modo leggero del machine learning e dell’intelligenza artificiale perché, forse proprio per la mia matrice curiosa e fantascientifica, non mi aspetto mai da Google Ads o dal machine learning la nascita di una specie di Terminator o di Robocop. Ritengo che si debba sempre e comunque parlare di qualcosa nel quale l’uomo mette il dito e l’anima e fa sì che la macchina produca nel modo più veloce possibile, e magari senza errori, un modello funzionale e funzionante efficace, replicabile e ottimizzabile col tempo.
Attenzione qui, perché non si sta parlando di un sistema attivo, vale a dire di un modello impositivo che obbliga il consumatore a seguire uno stesso schema ciclicamente. Si tratta invece di un sistema passivo, vale a dire che accoglie le variazioni comportamentali dell’uomo permettendogli – in funzione delle sue azioni e dei suoi umori – di indurre la macchina a sviluppare modelli predittivi tali da ottenere la miglior proposta possibile e nei tempi più rapidi.
Chi di voi ha a che fare con i bambini probabilmente sa per esempio che quelli un po’ più schizzinosi cambiano diligentemente gusti ogni mattina. Oggi gradiscono la cipolla, domani no. Il risultato è che per quanto un bravo genitore si sforzi di cucinare sempre il piatto preferito del figlio, il monello cambierà preferenze così velocemente da rendere impossibile il menù perfetto. Il modello predittivo del machine learning, giusto per renderlo più “fi” che “sci”, è invece in grado, attraverso illimitati indicatori prestazionali, di capire che quello che ieri era il piatto preferito da mia figlia oggi non lo sarebbe affatto. In genere a questo ragionamento mi viene fatto presente quanto sia inquietante che la macchina possa essere così incisiva nelle nostre azioni e inoltre che in questo modo l’uomo perde il controllo delle proprie scelte. Personalmente trovo più inquietante che qualcuno possa ancora oggi comprare beni attraverso un imbonitore in una televendita e trovo ancora più inquietante che si parli sempre di imporre, partendo dal presupposto che, se qualcosa mi viene suggerito, lo devo comprare per forza. Qui secondo me c’è uno dei punti cardine del marketing in tutte le sue forme. Il marketing – e attenzione, non la comunicazione – ha il dovere morale di suggerire soluzioni nel modo più eticamente e strutturalmente corretto, ma l’uomo, o per meglio dire il consumatore, ha ancora il potere di scegliere se farsi sedurre da un consiglio. L’educazione – termine che ritroveremo spesso nel libro – deve consistere nel raccontare un prodotto, un servizio o qualsiasi cosa possa essere veicolata da un annuncio sulla base delle sue caratteristiche, affinché questo qualcosa si configuri come un’opzione verosimile in risposta a una necessità.
Educare il prospect
Un recente articolo su Think With Google2 ha raccontato che le aziende hanno finalmente capito che la miglior risposta a una query digitata sul motore di ricerca non è la proposta di un prodotto, ma la soluzione al problema stesso. Che la scoperta sia avvenuta ora è oltremodo inquietante, perché significa che fino a oggi le aziende hanno imposto soluzioni commerciali in qualsiasi fase del funnel di acquisto, accorgendosi solo adesso che, se il consumatore ha un problema, la prima cosa che si aspetta di capire è come risolverlo e perché si sia verificato.
Se un bambino cade e si graffia un ginocchio, verrà da noi piangendo e mostrando la ferita. Guai a deriderlo dicendogli che la “bua” è cosa da poco. Per il bambino quella è la Ferita, con la “f” maiuscola. Da bravi genitori chiederemo subito come è successo e, sulla base dell’incredibile e cataclismatico accadimento che ha portato al taglio, sceglieremo la migliore soluzione possibile, prima di tutto per tranquillizzare il piccolo.
Nessuno di noi dirà mai al bambino la marca del cerotto. A cosa servirebbe? Il nostro compito sarà sempre quello di spiegare che un cerotto è la migliore soluzione. Se poi il cerotto è dotato di poteri magici grazie al fatto che sopra c’è l’immagine del cartone animato preferito, tanto meglio. Sarà la nostra piuma magica di Dumbo.
Perché allora questo bisogno innato di essere tranquillizzati, questa sorta di dono fatato, fino a oggi si è ipocritamente pensato che potesse essere collegato solo alla marca o al nome del prodotto? Perdi i capelli? Compra questo prodotto! Nell’imperativo di acquisto è insita la cura, ma ciò, come converrete, è assolutamente sbagliato. Se invece indaghiamo sul perché la persona stia perdendo i capelli, il ventaglio delle possibilità diventa illimitato. Caldo, stress, mare, sole, freddo sono tutti possibili cause. Ma come facciamo ad arrivare alle cause se la risposta è sinteticamente “compra”? Ecco che il consumatore, prima di essere un portafogli, avrà bisogno di essere nutrito con informazioni e, esattamente come detto prima, dovrà essere educato. Fornito l’input, sarà lui a capire che il nostro prodotto è il migliore per il suo scopo.
La demonizzazione delle moderne forme di marketing nasce proprio dalla cattiva gestione delle risorse messe a disposizione del sistema.
Questo è molto importante, perché la demonizzazione delle moderne forme di marketing nasce proprio dalla cattiva gestione delle risorse messe a disposizione del sistema. Dal mio ruolo ormai decennale di Product Expert di Google Ads, ho infatti imparato che molte delle modifiche dei product manager di Google nascono da due errori critici di comprensione del sistema AdWords da parte degli inserzionisti.
Il primo è rappresentato dall’ancora attuale “non riesco a vedere il mio annuncio”, il secondo dalla incompatibilità intrinseca tra i sistemi SEO – verso i quali si approcciano come entry level i neofiti della piattaforma Google Ads – e quelli di keyword bidding.
I due fraintendimenti hanno la stessa matrice, vale a dire che l’inserzionista medio crede che Google AdWords serva per comparire a prescindere, sulla base del fatto che il servizio ha un costo. Annoso vizio dei fruitori della piattaforma, che ingenuamente non considerano la possibilità che per la stessa ricerca ci siano centinaia di altri inserzionisti e che il sistema d’asta sia un vantaggio qualitativo, e non di meno economico, per tutti i concorrenti stessi. Poco vale il ricordare che c’è un budget e un indice di qualità definito “ranking”, dei quali molto ho parlato anche nei miei libri precedenti3 e per cui in questa occasione non credo si debba più tornare.
Lo spettacolo che si presenta quindi ai nostri occhi non solo presenta diversi attori, ma prevede anche molteplici copioni. Il palcoscenico è costituito da publisher che devono raggiungere l’obiettivo fissato dall’azienda e da aziende che non riescono ancora bene a comprendere quali sono gli obiettivi raggiungibili. La colpa delle aziende a mio parere è secondaria, perché viziata da vecchi retaggi old school e dall’evidente proposta da parte di alcune agenzie di lavorare solo in fase alta o in fase bassa del funnel.
È opportuno ricordare sempre che in una moderna concezione di marketing il funnel (o, come è più sovente chiamato, il customer journey) ha tre distinte fasi – sulle quali torneremo approfonditamente nei prossimi capitoli: alta, media e bassa – e che in ciascuna è necessario dare informazioni diverse e aspettarsi azioni diverse.
Tornando all’esempio dell’azienda che a fronte della richiesta sulla caduta dei capelli risponde col prodotto, di fatto ritengo che sia abbastanza evidente che il prospect – vale a dire quell’utente che ha dato segnali di poter diventare un cliente – che effettua la domanda è in fase alta (inizia a cercare), mentre la risposta è già in fase bassa (quando è pronto all’acquisto). Non a caso ormai da qualche anno tutti gli operatori sono abbastanza d’accordo col chiamare la fase bassa dell’imbuto come brandizzata, mentre prima assumeva il nome evocativo di fase di purchase, cioè fase di acquisto. Preso per buono che alla fine di un percorso che porta all’acquisto ci sia una vendita, parlare di fase di brand è sicuramente più indicato. Perché in quell’ultimo scalino del funnel, altro non c’è che il nome esatto del prodotto o della marca che vende il prodotto. Quello che sta sopra è invece un’opera di convincimento e assunzione di consapevolezza, che porta il navigatore a diventare prospect e quindi a farsi un’idea trasformandola poi in un acquisto.
Le confortevoli corsie del marketing
Sinteticamente, quindi, le fasi partono dalla consapevolezza, poi si passa all’interesse, quindi si tocca la considerazione, arrivando all’intento e alla fine all’acquisto. Ogni fase è come una stanza di una confortevole casa nella quale entriamo, viviamo e poi andiamo a dormire. Vi aspettereste mai di trovare sulla soglia di ingresso una camera da letto? Oppure pensate ai supermercati: da sempre la dislocazione delle merci nelle varie corsie cerca di essere simile da negozio a negozio per non produrre quello stato di spaesamento e mancanza di orientamento che nasce quando siamo abituati a fare la spesa sempre nello stesso posto. Se ci riflettete sono i prodotti meno costosi, ma di uso quotidiano, quelli che in realtà vengono sparpagliati tra gli scaffali. Quante volte vi è capitato di chiedere dove fosse il sale? E perché mai il reparto surgelati dovrebbe essere all’inizio, col rischio che arrivati alle casse ormai la merce sia tutta da buttare? E chiaramente, chissà perché, l’acqua è sempre in fondo. Inserirla subito in carrello lo riempirebbe troppo e non lascerebbe spazio per altri oggetti. Insomma, per quanto normali o abituali, tante azioni che compiamo quotidianamente sono viziate da uno schema che accettiamo e probabilmente lo facciamo perché è così che deve essere. Ci siamo nati e non ci poniamo il problema se le scelte fatte in un negozio fisico siano effettivamente solo nostre o viziate dal comportamento di altri, mentre col mondo digitale è diverso. A...

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