La guerra della plastica
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La guerra della plastica

Un materiale straordinario o un nemico da combattere?

Guido Fontanelli

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La guerra della plastica

Un materiale straordinario o un nemico da combattere?

Guido Fontanelli

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Può assumere qualsiasi forma, è indistruttibile e costa pochissimo. Ed è finita dappertutto: nelle case, nelle auto, negli aerei, nei vestiti, perfino nelle creme solari e nei dentifrici. È la plastica: un materiale fantastico che ha alimentato il boom della società dei consumi.Ma ora è diventata un nemico. Ne produciamo troppa e gli oggetti monouso inquinano l'ambiente. I fiumi e i mari ne sono pieni. E abbiamo scoperto che anche l'acqua del rubinetto contiene microparticelle di plastica. Per questo città, governi nazionali e sovranazionali come l'Unione europea le hanno dichiarato guerra. Con interviste a esperti, ambientalisti, manager e imprenditori, questo libro conduce il lettore in un appassionante viaggio alla scoperta delle origini della plastica, spiega perché è diventata un problema per l'ambiente e infine presenta le possibili soluzioni: dalla bioplastica all'utilizzo della plastica riciclata fino al riciclo chimico.

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Information

Publisher
Hoepli
Year
2020
ISBN
9788820396008
1
Che cos’è la plastica
Palle da biliardo, guerra e Nobel
“Voglio dirti solo una parola, ragazzo. Solo una parola.” “Sì, signore.” “Mi ascolti?” “Sì, signore.” “Plastica.” Pausa. “Credo di non avere capito, signore.” “Plastica, Ben. Il futuro è nella plastica.”
Molti di voi avranno riconosciuto queste battute. Provengono da un mitico film del 1967: Il laureato interpretato da un giovane Dustin Hoffman e da Anne Bancroft. A un certo punto, durante la festa che celebra la laurea di Benjamin (Hoffman), un amico di suo padre lo avvicina, gli mette un braccio sulle spalle e con fare solenne gli pronuncia quella parola: “plastica”. Già, perché è proprio in quegli anni che uno dei materiali più fantastici mai creati dall’uomo sta avendo la sua affermazione globale.
Forse avrei potuto iniziare questo libro con una citazione meno banale. Ma la battuta del Laureato è davvero perfetta. E la previsione “il futuro è nella plastica” si è rivelata fin troppo azzeccata. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta schiere di scienziati sono riusciti a sviluppare una serie di materiali straordinari derivati dal petrolio chiamati polietilene, polipropilene (inventato dal premio Nobel Giulio Natta nel 1954), polistirolo, PVC, PET (brevettato nel 1973), PMMA (polimetilmetacrilato). Oggi l’85 per cento del petrolio serve per produrre combustibili, il resto viene usato dall’industria petrolchimica per sfornare nuovi materiali. Questi polimeri si sono insinuati dappertutto, nell’arredamento, nell’edilizia, nei computer, nelle auto, negli aerei, nei vestiti, negli imballaggi, perfino nei bicchieri di carta, nelle sigarette, nelle vernici, nei cosmetici e nei dentifrici. I materiali in plastica possono assumere qualsiasi forma, sono elastici o rigidi a seconda delle necessità, hanno una buona resistenza meccanica, proteggono gli alimenti, sono leggeri e costano poco. Talmente poco da aver creato un’intera generazione di prodotti usa e getta: come i bicchieri, le bottiglie o il rasoio monouso, lanciato nel 1971. Il risultato è stato un aumento vertiginoso della produzione: l’ultimo rapporto realizzato dal WWF sull’argomento ricorda che dal 1950 la quantità di plastica vergine uscita dagli stabilimenti petrolchimici è cresciuta di 200 volte, raggiungendo nel 2017 la quota di 350 milioni di tonnellate. Secondo le previsioni, la produzione di plastica potrebbe ulteriormente aumentare del 40 per cento entro il 2030.
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Figura 1.1 Distributore di gomma da masticare in polistirene (1950).
Ma da dove nasce esattamente la plastica? Iniziamo con le definizioni. L’enciclopedia Treccani descrive così le materie plastiche: “Prodotti costituiti o contenenti, come ingrediente principale, una sostanza organica ad alto peso molecolare (polimero) e che, per quanto solidi allo stato finale, durante alcuni stadi della loro fabbricazione sono abbastanza plastici per poter essere foggiati, sfruttando nella maggior parte dei casi l’effetto della temperatura o della pressione o di ambedue.” Istintivamente siamo portati a collegare la plastica al petrolio ed è abbastanza corretto perché il boom della plastica è effettivamente legato al mondo delle raffinerie. Ma la plastica ha una storia più lunga che muove i primi passi nel 1800.
Come prova questo racconto:
Alexander Parkes, nato a Birmingham nel 1831, fu cresciuto nel culto dell’ideologia dell’invenzione, pur senza aver una formazione scolastica specifica nel campo della chimica e della fisica. Era una condizione abbastanza comune a quell’epoca. Parkes si occupò per qualche tempo della lavorazione della gomma naturale, in un momento in cui in questo campo si facevano grandi passi avanti con la scoperta della vulcanizzazione e delle prime macchine di lavorazione. Di qui il suo interesse per altre sostanze che potessero dare risultati simili a quelli della gomma in alcuni impieghi sempre più richiesti dalle industrie. Studiando il nitrato di cellulosa ottenuto nel 1845 a Basilea da C.F. Schoenbein, Parkes ottenne un nuovo materiale che poteva essere “usato allo stato solido, plastico o fluido, si presentava di volta in volta rigido come l’avorio, opaco, flessibile, resistente all’acqua, colorabile e si poteva lavorare all’utensile come i metalli, stampare per compressione, laminare”. Con queste parole l’inventore descriveva la Parkesine, cioè un tipo di celluloide, brevettata nel 1861, in un foglietto pubblicitario diffuso nel 1862, in occasione dell’Esposizione Internazionale di Londra dove furono esposti i primi campioni di quella che possiamo considerare a buon diritto la materia plastica primigenia, capostipite di una grande famiglia di polimeri che oggi conta alcune centinaia di componenti.
Questa lunga citazione proviene da un luogo molto speciale, che mi ha permesso di vedere e quasi toccare con mano l’infanzia e l’età adulta della plastica: il museo della plastica. Un luogo che ho raggiunto al termine di un viaggio in macchina verso le montagne piemontesi: il museo si trova a Pont Canavese, in provincia di Torino, alle pendici del parco del Gran Paradiso. Attraversate le vie del paese incorniciate da case eleganti e un po’ vintage, parcheggio davanti a un cancello dove mi aspetta la mia guida, Lara Carbonato. Il cancello si apre su un giardino curatissimo circondato da alberi e da tre edifici ottocenteschi. Nell’ultimo, quello in fondo, c’è il museo, una semplice ma elegante casa di tre piani. Ma che ci fa qui un museo della plastica? “Questo complesso”, mi spiega la guida, “nasce nell’Ottocento per ospitare una manifattura tessile le cui origini risalgono addirittura al XVII secolo. La manifattura subisce varie vicissitudini e nel 1966 cessa l’attività. Al suo posto si insedia nel 1971 la Fratelli Sandretto, fondata negli anni Quaranta dai fratelli Dino e Modesto, entrambi di Pont. L’azienda si occupa di stampaggio di lamiere e di plastica. E negli anni Novanta Gilberto Sandretto, figlio di Modesto, inizia a raccogliere oggetti di plastica in giro per il mondo.” Anche la Sandretto andrà a gambe all’aria e le subentrerà la Cannon di Peschiera Borromeo, vicino a Milano, specializzata in impianti per la produzione di materie plastiche, in particolare poliuretano (lo trovate nei sedili delle auto e nei volanti, nei frigoriferi, nelle cover per i telefonini e in tante altre applicazioni) e compositi. La Cannon ha un fatturato di 270 milioni, dà lavoro a mille persone, è presente in ventuno Paesi ed esporta l’80 per cento dei ricavi. La collezione avviata da Gilberto viene conservata e arricchita dalla Cannon, controllata dai due soci Carlo Fiorentini e Marco Volpato. “E continuano ad arrivare nuovi reperti”, racconta Lara mentre mi introduce nella casa che fungeva da foresteria. Il museo oggi ospita oltre 2500 pezzi, di cui solo una parte è visibile nelle sue sette sale che abbracciano la storia della plastica dal 1800 fino a oggi. Si tratta di oggetti di uso comune, che accendono la fantasia dei visitatori.
Iniziamo dalla prima sala che copre il periodo 1839-1920: c’è un giocattolo a forma di barchetta che sembra fatto in avorio ma in realtà è in acetato di cellulosa, una plastica di origine organica. Mi colpisce poi un elegante ventaglio di celluloide. E la mia guida mi fa notare un breviario con una copertina molto elaborata che simula nuovamente l’avorio: “La plastica nasce come materiale economico che sostituisce materiali più pregiati come l’avorio, il marmo, la porcellana o l’ebano. Per chi aveva tra le mani questo breviario era come possedere un oggetto molto prezioso ma in realtà è una copertina economica e replicabile all’infinito.” Aggirandomi nelle prime sale mi rendo conto che in effetti all’inizio la proto-plastica cercava di imitare altri materiali. E Lara mi accenna a una storia che viene raccontata in modo esaustivo sui pannelli appesi alle pareti: parla di un giovane tipografo americano di nome John Wesley Hyatt. “Aveva letto ad Albany, nello stato di New York, un bando di concorso promosso dalla ditta Phelan & Collander, produttrice di palle da biliardo, nel quale si prometteva un premio di diecimila dollari a chi avesse sviluppato un materiale capace di sostituire l’avorio nella fabbricazione delle palle da biliardo, in quanto la materia prima naturale stava scarseggiando. A partire dal 1863 quindi Hyatt si buttò a capofitto nella ricerca dell’avorio artificiale o comunque di un qualsiasi nuovo materiale capace di soddisfare le richieste delle industrie. Ebbe successo intorno al 1869 con un composto a base di nitrato di cellulosa, proprio come era accaduto a Parkes poco tempo prima. Nasceva così la celluloide con un brevetto depositato il 12 luglio 1870. La prima fabbrica della nuova materia plastica artificiale si chiamò Albany Dental Plate Company e fu fondata nel 1870. Il suo nome si spiega col fatto che uno dei primissimi impieghi della celluloide fu sperimentato dai dentisti, felici di sostituire la gomma vulcanizzata, allora molto costosa, usata per ottenere le impronte dentarie. Due anni più tardi la Dental Plate Company si trasformò in Celluloid Manufacturing Company e aprì uno stabilimento a Newark, nel New Jersey. È questa la prima volta, siamo nel 1872, che compare il termine celluloide (derivato chiaramente da cellulosa), marchio depositato destinato ad avere molta fortuna negli anni successivi, tanto da diventare un nome comune per designare, in generale, le materie plastiche a base di cellulosa e non soltanto quelle.”
Il fiume delle invenzioni continua in quegli anni a sfornare novità su novità. Nel 1912 un chimico tedesco, Fritz Klatte, scopre il processo per la produzione del polivinilcloruro (PVC), che avrà grandissimi sviluppi industriali solo molti anni dopo, come scoprirete nelle prossime pagine. Pochi mesi dopo, nel 1913, è la volta del primo materiale flessibile, trasparente e impermeabile, che trova subito applicazione nel campo dell’imballaggio: lo svizzero Jacques Edwin Brandenberger inventa il cellophane, un materiale a base cellulosica prodotto in fogli sottilissimi e flessibili.
Nelle sale che descrivono gli anni Venti e Trenta del secolo scorso gli oggetti in celluloide o in galatite (unendo la caseina del latte alla formaldeide) assumono nuove forme: occhiali, aerei giocattolo, vasi in simil-cristallo o in simil-ceramica, gioielli, macchine fotografiche.
Ma è nella sala successiva, che copre il periodo a cavallo tra gli anni Trenta e i Quaranta, che si vede l’esplosione della prima, vera plastica ottenuta per via di sintesi: la bakelite. Così spuntano i telefoni neri, le macchine fotografiche, un ventilatore bianco, un aspirapolvere. Ora la plastica non si vergogna più e si mostra in tutta la sua potenzialità. Tanto che in una teca è conservata una macchina fotografica in metallo che simula la bakelite: grazie a questo nuovo, straordinario materiale, la plastica è diventata grande. Nel sito Bakelite.it si sottolinea che “nella storia della chimica la bakelite è il primo materiale termoindurente, cioè è un prodotto che una volta fuso, raffreddato in uno stampo e indurito, non può più essere riscaldato né rimodellato”.
I pannelli lungo le pareti del museo mi ricordano che “per circa mezzo secolo la bakelite dominerà il mondo delle materie plastiche e dischiuderà loro una quantità enorme di applicazioni in tutti i settori della tecnologia industriale”. L’inventore della bakelite fu il chimico belga Leo Hendrick Baekeland, nato a Gand il 14 novembre 1863. Nel 1891 si trasferì negli Stati Uniti dove lavorò dapprima alla Anthony & Co., industria di materiale fotografico, quindi costituì la Nepera Chemical Co., che venne poi acquistata dalla Eastman Kodak per la bella cifra di 750 mila dollari. “Ciò assicurò al trentaseienne chimico belga l’indipendenza economica per il resto dei suoi giorni. Ma non era certo un personaggio capace di dormire sugli allori. Nel 1910 creò la General Bakelite Company per la produzione di una nuova resina sintetica. Dagli Stati Uniti la nuova industria si estese alla maggior parte degli altri paesi industriali. Nel 1936 la produzione mondiale di bakelite superava già le 90 mila tonnellate l’anno, mentre la produzione complessiva di tutte le materie plastiche (celluloide, caseina, fenoliche) si aggirava sulle 250 mila tonnellate. Alla morte di Baekeland nel 1944, la produzione mondiale di resine fenoliche aveva raggiunto le 175 mila tonnellate.”
Intanto l’industria petrolifera cresce sempre di più e dalla nafta i chimici riescono a estrarre come per magia centinaia di prodotti (ovvero polimeri) diversi e a basso costo: non solo la benzina, ma anche il nylon, la gomma, la plastica, perfino le medicine. Nella sala del museo che arriva fino al 1940 compare un piccolo oggetto, un frollino, che è di un materiale diverso: il PVC. Industrializzata alla fine degli anni Venti, questa plastica è diventata una delle più diffuse al mondo e oggi viene usata per fare le finestre, i tubi per l’edilizia e anche tessuti. Con la Seconda guerra mondiale, poi, lo sviluppo delle plastiche riceve una spinta fenomenale: “Era necessario fornire alternative sintetiche a quelle sostanze naturali (come la gomma) che scarseggiavano o le cui fonti di approvvigionamento venivano boicottate”, mi spiega la guida. “I poliuretani, scoperti nel secolo precedente e sviluppati nei laboratori della AG Farben da Otto Bayer dal 1938, vengono utilizzati in sostituzione delle gomme naturali (per ricoprire i palloni frenati che proteggevano Londra dalle incursioni delle V1 e delle V2) e come schiume isolanti per sottomarini e aerei tedeschi. La crescita di questo settore in Italia è stata sorprendente, soprattutto nel corso degli anni Cinquanta. Prima dell’ultimo conflitto operavano nel nostro Paese soltanto dodici officine meccaniche che producevano macchine per materie plastiche. La maggiore industria italiana in questo campo è proprio la Sandretto Industrie, nata nel 1946 con presse per termoindurenti e passata successivamente alla produzione di macchine per l’iniezione.” Con la guerra si diffondono materiali sintetici famosissimi, come il nylon, inventato nei laboratori della americana DuPont. La leggenda vuole che gli americani avessero bisogno di un materiale sostitutivo della seta per produrre i paracadute, poiché le importazioni della seta erano state bloccate dalla Cina. Nel 1939 viene avviata l’industrializzazione del polietilene (PE), che nel 1965, grazie all’invenzione di un ingegnere svedese, si trasforma nel primo sacchetto di plastica usato successivamente nei supermercati di tutto il mondo. Nel 1941 gli inglesi Rex Whinfield e James Tennant Dickson brevettano il polietilene tereftalato (PET): nel dopoguerra questo poliestere ha grande successo nella produzione di fibre tessili artificiali, settore nel quale è largamente impiegato tuttora, è il tessuto noto come pile. Il suo ingresso nel mondo dell’imballaggio alimentare risale al 1973, quando Nathaniel Wyeth della Du Pont brevetta la bottiglia in PET come contenitore per le bevande gassate. Leggera, resistente agli urti e trasparente, la bottiglia inventata da Wyet è oggi lo standard per il confezionamento delle acque minerali e delle bibite.
Dopo la guerra la chimica lavora a spron battuto alla ricerca di nuovi polimeri: negli anni Cinquanta l’ingegnere chimico Giulio Natta, nato a Imperia nel 1903, inventa il polipropilene, diventato famoso con il nome Moplen (qualcuno di voi si ricorderà le pubblicità in tv con Gino Bramieri) che gli valse il premio Nobel per la chimica nel 1963. “Il polipropilene”, si legge sulle pareti del museo, “si rivelò subito un polimero di grande importanza industriale e la sua produzione aumentò rapidamente in tutto il mondo, particolarmente negli Stati Uniti, nonostante alcune controversie legali in merito alla priorità dell’invenzione, in Giappone, in Gran Bretagna e, ovviamente, in Italia. Nel 1962 la produzione mondiale era di circa 300 mila tonnellate mentre oggi si producono complessivamente circa 15 milioni di tonnellate e il tasso di crescita previsto per questo polimero è il più elevato fra tutte le termoplastiche di grande consumo.” Nel 1959 in Germania e, pressappoco negli stessi mesi, negli Stati Uniti, inizia la produzione del policarbonato, considerato un tecnopolimero con prestazioni superiori alla media; usato, fra l’altro, per produrre i caschi degli astronauti, le lenti corneali che sostituiscono gli occhiali e gli scudi antiproiettile.
Le ultime sale del museo mi proiettano in quest’epoca di grande sviluppo, i cosiddetti “Anni della plastica”: nelle teche sono esposti tacchi, oggetti di design come l’orologio Solari, portagioielli a forma di mani in stile anni Settanta, poltrone, il parafango della Fiat Ritmo del 1980, fino alle ultime realizzazioni con i materiali compositi, costruiti cioè unendo fibre di vetro o di carbonio a polimeri come il poliuretano. Sembrano oggetti in plastica ma sono più leggeri, elastici e resistenti: trovate esposto per esempio il muso di una vettura sportiva, accanto a un serbatoio di un’auto e a uno skateboard.
Uscito dal museo mi dirigo verso Milano, dove un professore ritratto su “Topolino” (il celebre giornalino a fumetti compare due volte in questo libro, lo ritroverete nei prossimi capitoli) mi aspetta in una sede storica. Il professore è Maurizio Masi, direttore del dipartimento di Chimica, materiali e ingegneria chimica del Politecnico di Milano. E il suo ufficio si trova nell’edificio 6 del complesso universitario, un palazzotto costruito nel 1949 dalla Montecatini proprio per il premio Nobel Giulio Natta. Siamo insomma in un luogo-simbolo della storia della plastica. Durante la nostra chiacchierata, a un certo punto il professore mi mostra un numero di “Topolino” dove compare un papero che assomiglia proprio a lui, a Masi: “Era un’avventura in cui si parlava della plastica e hanno inserito un personaggio che mi rappresenta”, mi dice sorridendo. Con Masi provo a tirare le somme dopo il mio primo approccio con la nascita di questo materiale: “La plastica è un polimero”, esordisce il professore, “cioè una molecola pesante formata da tanti monomeri. Esistono polimeri naturali, come il caucciù, polimeri derivati dal legno, come la celluloide. E polimeri derivati dagli idrocarburi, come il polipropilene nato proprio qui, in queste stanze. Oggi il polimero inventato da Natta ha un’importanza enorme nell’economia, rappresenta da solo lo 0,3 per cento del PIL mondiale.” Il successo del polipropilene, spiega Masi, è dovuto alle sue grandi proprietà meccaniche: non serve solo a fare le bacinelle, ma anche le fibre per l’abbigliamento tecnico, i giocattoli, i mattoncini di Lego, gli oggetti di arredamento, le parti interne dei frigoriferi (è anti-muffa) e migliaia di altre cose. “Un altro polimero di grande successo è il PET: costa pochissimo e ha l’effetto barriera, cioè protegge molto bene i cibi e le bevande.” Per questo viene usato per le bottiglie tanto detestate dal movimento plastic free.
A Masi chiedo come mai la plastica sia finita addirittura nei detersivi o nelle creme solari e lui mi risponde che il fenomeno è incominciato una ventina di anni fa quando si è iniziato a lavare a temperature più basse. “Ci voleva qualcosa di abrasivo per migliorare l’efficienza del detersivo”, risponde, “e si provò il carbonato di calcio, che però incrosta le lavatrici. Si scoprì che le sferette in polietilene potevano sostituire il carbonato di calcio e avevano il vantaggio di ridurre il volume del detersivo e di potersi mischiare anche a un liquido. Nelle creme solari invece la plastica è stata introdotta per sostituire l’ossido di zinco, che unge ed era finito sotto accusa per i danni alla salute: le micropl...

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