La Biblioteca Orientale
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La Biblioteca Orientale

Illuminismo e Islam

Alexander Bevilacqua

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  1. 320 pages
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La Biblioteca Orientale

Illuminismo e Islam

Alexander Bevilacqua

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Tra Sei e Settecento, una comunità pionieristica di studiosi europei realizzò la prima traduzione accurata del Corano in una lingua europea, ricostruì l'evoluzione delle arti e delle scienze islamiche e scrisse la storia dei popoli musulmani attingendo a fonti arabe: nasceva così la visione contemporanea della civiltà islamica in Occidente. Alexander Bevilacqua racconta una complessa storia intellettuale ricostruendo - da documenti in arabo, inglese, francese, tedesco, italiano e latino - i viaggi e i percorsi di studio che eruditi cattolici e protestanti intrapresero per procurarsi manoscritti arabi e comprenderli. Ne risultò un patrimonio di conoscenze che aveva un grosso debito nei confronti delle tradizioni musulmane, soprattutto ottomane: traduzioni, antologie e opere storiche delle quali pensatori come Voltaire e Edward Gibbon assorbirono non solo i contenuti ma anche le interpretazioni, incorporandoli nel pensiero illuministico. Questo libro mostra come la curiosità dell'Occidente nei confronti dell'Islam e delle sue tradizioni religiose e intellettuali non fu figlia di un interesse laico, bensì dell'impegno di una comunità di dotti cristiani che seppe esprimere una visione nuova dell'Islam lasciandola in eredità all'Occidente.

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Information

Publisher
Hoepli
Year
2019
ISBN
9788820391928
1
Cacciatori di libri
Nel 1685, anni prima che la traduzione delle Mille e una notte gli valesse fama duratura, l’erudito francese Antoine Galland viveva a Istanbul. Conoscitore di arabo, persiano e turco, si avvicinava al termine di una missione per conto della Corona: era durata quasi cinque anni e lo aveva portato nella capitale ottomana in cerca di libri e monete antiche, che peraltro Galland collezionava anche per sé e per l’ambasciatore, il conte di Guilleragues. In veste ufficiale di interprete e compratore professionista, e in veste privata di studioso, era giunto a conoscere a menadito il mercato librario della città. La ricchezza dell’assortimento lo esaltava: «Non vi è luogo dove sia più facile acquistare [libri], poiché se ne vendono in numerosissime botteghe, e tutti i giorni ne arrivano di nuovi per i migliori offerenti.»1
Non era affatto bizzarro che Galland, sul quale ci soffermeremo più avanti, si interessasse ai libri islamici e ne acquistasse per conto del re di Francia. Infatti, tra Sei e Settecento in tutta Europa si collezionavano manoscritti arabi, persiani e turchi. In questo capitolo seguiamo viaggiatori collezionisti come Galland dalle botteghe di libri di Istanbul alle grandi biblioteche europee, conosciamo i loro mecenati e gli scopi che li guidavano, e i criteri cui si ispiravano le collezioni orientali. La costituzione di raccolte di manoscritti in vari contesti locali è stata oggetto di numerosi studi; tuttavia, se si adotta una prospettiva comparata, come facciamo qui, emerge che lo stesso processo si dispiegava in vari paesi europei – Francia, Paesi Bassi, Inghilterra e Italia – con una sostanziale comunanza di obiettivi, problemi e risultati.2
La Biblioteca reale francese, con sede prima a Blois, poi a Fontainebleau e infine a Parigi; l’Escorial, non lontano da Madrid; la Biblioteca imperiale di Vienna, fondata dagli Asburgo; la Biblioteca universitaria di Leida; la Bodleiana, a Oxford: nel Cinquecento in tutto il continente erano sorte grandi biblioteche, ma solo un secolo più tardi si arricchirono di collezioni orientali.3 (Fa eccezione la Biblioteca Vaticana, i cui fondi si andavano costituendo già prima della fondazione, nel 1475.) Allora la fisionomia del patrimonio librario europeo cambiò, con l’arrivo di migliaia di manoscritti arabi, persiani e turchi che avrebbero permesso di studiare approfonditamente le tradizioni letterarie e intellettuali islamiche. Quelle che abbiamo appena elencato erano senz’altro le biblioteche più ricche, ma non le uniche. Anche la Biblioteca Ambrosiana di Milano, fondata nel 1609, possedeva un fondo arabo, e il Granducato di Toscana custodiva a Palazzo Pitti una collezione orientale che Ferdinando I de’ Medici aveva portato da Roma.4 Alle grandi istituzioni se ne affiancavano di più piccole. Solo a Parigi, oltre che nella Biblioteca reale, si costituirono raccolte di manoscritti islamici alla Sorbona, all’abbazia benedettina di Saint-Germain-des-Prés (casa madre della Congregazione di San Mauro) e al collegio gesuita Louis-le-Grand; per non parlare poi della biblioteca privata del cardinale Mazzarino, del sovrintendente alle finanze Nicolas Fouquet e del ministro Jean-Baptiste Colbert. Gli studiosi erano ovunque i benvenuti.
I viaggiatori collezionisti vagheggiavano le grandi biblioteche delle terre dell’Islam – la collezione del sultano del Marocco, la biblioteca del Serraglio di Costantinopoli e della moschea di al-Azhar del Cairo –, ma i materiali di cui andavano in cerca finirono per scovarli altrove. Quand’era possibile, li acquistavano direttamente da monasteri o simili; quando poi ebbero imparato che cosa cercare e come, i loro fornitori più validi divennero i mercanti di libri.
Istanbul non era che una delle mete dei collezionisti. L’impero ottomano ebbe senz’altro un ruolo preponderante, sia nell’allestimento delle raccolte sia nella formazione delle preferenze dei bibliofili, ma in realtà le fonti degli studi occidentali sull’Islam giunsero da tre continenti. I materiali che gli eruditi europei avrebbero avuto a disposizione li selezionarono viaggiatori dotti e curiosi in giro per la Spagna, il Marocco, la Persia e persino l’Indonesia. Le collezioni europee devono molto alle loro missioni, ma non solo: se a Batavia, a Fort Saint George, ad Aleppo, a Smirne e a Istanbul non fossero state presenti, rispettivamente, la Compagnia olandese delle Indie Orientali, la Compagnia inglese delle Indie Orientali, la Compagnia del Levante inglese e la Camera di commercio di Marsiglia, gli studi orientali ne avrebbero perso molto; anzi, forse non si sarebbero mai sviluppati. Fu anche attraverso il collezionismo librario che le compagnie commerciali influenzarono la cultura europea coeva, in particolare i gusti del pubblico e la produzione di conoscenza.5
Naturalmente, ciò che arrivava in Europa dipendeva in primis dagli interessi dei copisti e dei lettori islamici, e solo in secondo luogo dalla selezione dei viaggiatori. L’assortimento di manoscritti che confluì nelle collezioni europee era dunque specchio dei principali temi che animavano la vita intellettuale e la cultura libraria islamiche tra Sei e Settecento. Va da sé che su quei temi si modellarono le conoscenze.
Le biblioteche sono realtà fragili. Allestire una collezione non è sufficiente, bisogna poi ordinarla e custodirla. Basta non catalogarlo o riporlo sullo scaffale sbagliato perché un libro vada praticamente perso. Soprattutto, i libri hanno bisogno di lettori, il che non è affatto scontato nel caso di lingue antiche o straniere. Portare in Europa testi scovati in terre lontane era solo un inizio, occorreva studiare le lingue in cui erano scritti. La costituzione di collezioni orientali fu dunque una tappa necessaria, ma non sufficiente, nel percorso di conoscenza delle tradizioni intellettuali islamiche. E non la si intenda come attività strumentale allo studio: fu piuttosto, e le pagine a seguire lo dimostrano, un fenomeno culturale a pieno titolo. Infatti, anche se i contenuti erano indecifrabili, i libri stranieri restavano beni pregiati. Mecenati, collezionisti e dotti credevano nell’ideale della biblioteca orientale e contribuirono tutti, a vario titolo, a trasformarlo in realtà. La biblioteca orientale era, come del resto ogni altra, un atto di fede nelle capacità e negli interessi dei lettori del futuro.
ISTANBUL
Oltre a essere la città più grande dell’Europa seicentesca, Istanbul vantava una ricca vita intellettuale. Attorno alle moschee sorgevano grandi complessi, dove avevano sede, tra l’altro, scuole di studi religiosi.6 Gli studenti, che giungevano anche dalle province, ambivano a entrare nella classe degli ulema, i dotti nelle scienze religiose al servizio dello Stato. Maestri, giudici e giuristi, gli ulema erano gli interpreti della şeriat (sharia), e in particolare della giurisprudenza e dei commentari coranici. Dei classici dei due generi gli allievi realizzavano copie da studiare, i maestri commenti e compendi. Ma i dotti scrivevano anche poesia, biografie e cronache.7 Alcuni traducevano in turco i capolavori della letteratura araba, come la Muqaddima di Ibn Khaldun, molti componevano opere storiche. Lo şeykhülislam (capo dei giureconsulti) Zekeriyāzāde Yaḥyā (m. 1644), per esempio, si distinse sia come esperto conoscitore del diritto sia come poeta.8
La poesia andava particolarmente in voga nella capitale ottomana – lì a ogni piè sospinto s’incontrava un poeta, ebbe a dire uno scrittore bosniaco in visita –9 e i temi erano i più disparati: si descrivevano la vita locale e l’amore, si componevano ritratti e satire di notabili, si celebravano le città ottomane e le feste di corte. I tanti dizionari biografici di poeti aprono squarci sulla vita letteraria di Istanbul e soprattutto della corte, dove chi ambiva a entrare nelle grazie del sultano mandava i propri scritti.10
L’attività letteraria ferveva anche altrove. Poeti e scrittori in cerca di fama e protezione frequentavano i cenacoli che, per iniziativa di altri letterati o di funzionari di alto rango, si riunivano nel selamlık (salotto) delle grandi yali, le ville affacciate sul Bosforo, o delle casette di legno assiepate lungo le pendici delle colline di Istanbul.11 Ai versi raffinati che circolavano nelle cerchie colte si affiancava la poesia popolare, recitata nei caffè e nei mercati con l’accompagnamento musicale del sāz, il liuto a manico lungo. Nei caffè, infatti, oltre che con la conversazione, ci si intratteneva con la recitazione di versi o con spettacoli di marionette e racconti.12 E poi c’erano la poesia religiosa dei sufi, che spesso aveva intento didattico, e i versi celebrativi in memoria dei dervisci più noti. Insomma, la poesia era una compagna costante di tutti gli abitanti della città, dall’élite al popolo, che ascoltava i versi recitati per strada e nei caffè. Incisi su fontane, lapidi e monumenti, i versi e la calligrafia erano parte della vita quotidiana.13
Il fermento intellettuale e letterario non restava confinato nelle scuole e nei salotti. I divani (dīwān, raccolte di poesie) circolavano tra gruppetti di scrittori e semplici appassionati; si componevano, si copiavano e si commentavano versi sufi; e attorno alle scuole, per esempio al complesso della moschea di Fatih, gravitavano copisti e mercanti di libri di seconda mano. Ricchi mecenati commissionavano e collezionavano album di miniature, arte ispirata al modello persiano che si andò perfezionando nel Seicento.14 I mercanti di libri usati stavano di bottega al Gran Bazar, il mercato coperto nei pressi della moschea di Bayezid, per la precisione nel bedesten (o bezistan), un’area riservata che ospitava anche i mercanti di gioielli.15 Nei giorni di festa, il bazar «era tutto un traboccare di incantevoli broccati; i turchi usavano tenere in bottega incensieri d’argento e boccette piene di acqua profumata per aspergere i passanti, e un imponente candelabro d’argento che sorreggeva una grande candela bianca accesa. Essendo il luogo alquanto angusto, la folla pareva più fitta di quel che era».16 Abbondavano i rilegatori, che offrivano i propri servigi a chi si dilettava a copiare manoscritti o commissionava il lavoro a copisti di professione.17 Ben prima che si diffondessero nell’Europa cristiana, a Istanbul erano comuni le biblioteche circolanti a pagamento:18 come attività principale, alcuni librai del bedesten prestavano i volumi di seconda mano per quattro o cinque akçe (aspri, monete d’argento di piccolo taglio).19 Facevano affari soprattutto in inverno, quando gli stambulioti trascorrevano lunghe serate riuniti a leggere ad alta voce.20 A fine Seicento, la potente famiglia Köprülü fondò una biblioteca lungo Divanyolu, la via che conduceva al palazzo imperiale; era la prima volta che in città si costruiva un edificio appositamente per ospitarvi una collezione di libri.21 Insomma, gli scaffali della capitale ottomana traboccavano di volumi, vecchi e nuovi: i classici della letteratura persiana e i capisaldi dell’esegesi coranica si contendevano lo spazio con le opere dei letterati locali.
A caratterizzare la vita intellettuale della Istanbul ottomana era il plurilinguismo. Gran parte dell’élite colta, infatti, parlava arabo, persiano e turco ottomano. Le prime due lingue vantavano una tradizione più antica e maggior prestigio, ma nel corso dei Seicento andò guadagnando importanza anche la produzione letteraria in turco ottomano.22 Siccome i lettori prediligevano i libri nella propria madrelingua, molto si traduceva dall’arabo e dal persiano.23 Gli europei che desideravano entrare nelle cerchie colte cittadine dovevano quindi destreggiarsi in un complesso panorama linguistico.
Nella cultura libraria islamica in generale e nell’impero ottomano, la stampa aveva un ruolo del tutto secondario. I libri, anche i più voluminosi, circolavano solo in forma manoscritta fino agli inizi del Settecento, quando dai torchi della prima stamperia commerciale ottomana – fondata nel 1727 dal rinnegato ungherese Ibrāhīm Müteferriqa a Istanbul e chiusa già nel 1729 – uscì un dizionario arabo-turco.24 Ma l’attività di Müteferriqa, che poteva pubblicare solo libri laici, non ebbe successo commerciale e non segnò l’inizio di una transizione al libro a stampa. I musulmani conoscevano le tecniche, si capisce: nel Medioevo, i mercanti arabi erano entrati in contatto con la xilografia in Cina; inoltre, nella Istanbul cinquecentesca, dalle stamperie di ebrei sefarditi e arabi cristiani erano uscite due Bibbie poliglotte e altre opere ambiziose.25 Benché pronti ad assorbire numerose innovazioni tecniche provenienti dall’estero, per esempio in ambito militare, l’impero ottomano e altri stati musulmani rimasero refrattari alla stampa suppergiù fino al 1800; sul perché si sono avanzate varie ipotesi: le resistenze opposte dalle potenti corporazioni dei copisti, il valore che si attribuiva alla scrittura manuale, specie del Corano, il rispetto per la pratica tradizionale di trasmissione diretta del sapere e, infine, la minaccia che la stampa sembrava porre all’autorità degli ulema.26
Ora che da secoli il libro è un prodotto a stampa, capita di dimenticare che i manoscritti sono nient’altro che libri e che in Europa certo non si passò dal racconto orale alla stampa. Bisogna tenere a mente che le culture manoscritte presentano dinamiche proprie: i libri si scrivono, circolano e si valutano secondo modalità diverse rispetto alle culture in cui predomina la stampa commerciale. Nella Istanbul ottomana, per esempio, «il successo di un autore si misurava dalla frequenza con la quale i suoi manoscritti circolavano presso la comunità dotta».27
A ogni modo, gli europei in missione nei territori ottomani non avevano alcuna difficoltà a riconoscere i libri di cui andavano in cerca, perché erano identici ai volumi che circolavano in Europa. Erano codici di carta (fasci di fogli rilegati), non rotoli di pergamena28 – oggetti assai più familiari, quindi, dei calendari dove gli aztechi riportavano la storia...

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