Quello che gli occhi non vedono
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Quello che gli occhi non vedono

Il microscopio: storia di un pezzo di vetro e dell'arcobaleno

Alberto Diaspro

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Quello che gli occhi non vedono

Il microscopio: storia di un pezzo di vetro e dell'arcobaleno

Alberto Diaspro

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Cos'hanno in comune un aforisma di Yogi Berra, giocatore di baseball americano, e la leggendaria lettura tenuta al Caltech nel 1959 da Richard Feynman? "Basterebbe osservare!", esortano entrambi."Basterebbe osservare" per capire il vivente, come si fa con un microscopio.L'occhio permette un dettaglio del decimo di millimetro ma la vita si svolge sulla scala del miliardesimo di metro tra DNA e proteine, cellule, tessuti e organi. Con un pezzo di vetro curvo e i colori dell'arcobaleno si può penetrare nel vivente svelando i segreti della vita.Alberto Diaspro conduce in un viaggio dal microscopio di Galilei ai super microscopi che consentono di muoversi nelle quattro dimensioni dello spazio e del tempo e di vedere oltre l'immaginabile. Ed ecco che gli occhi avranno super poteri. In fondo non è Magia ma Microscopia.

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Information

Publisher
Hoepli
Year
2020
ISBN
9788820395995
1
Premessa curiosa
Alta, solenne, vestita di nero
Parvemi riveder nonna Lucia;
[…]
O nonna, o nonna! deh com’era bella
Quand’ero bimbo! ditemela ancor,
Ditela a quest’uom savio la novella
Di lei che cerca il suo perduto amor!
[…]
Tu dormi a le mie grida disperate,
E il gallo canta, e non ti vuoi svegliare.
Giosuè Carducci, Davanti san Guido,
in Rime nuove (1906)
Mia nonna Anna era una donna bellissima (figura 1.1). Io ero un bambino curioso e vivace come tutti i miei coetanei. Quando la nonna morì di cancro mi salì dal cuore una promessa impossibile e le sussurrai un “Capirò perché, nonna cara, così non morirai più”. Non lo sapevo ma ero un giovane microscopista a quel tempo. Ero nato a Genova ma avevo passato buona parte della mia infanzia a Verona. Nevicava spesso e quei fiocchi che ammantavano tutto di bianco mi affascinavano. Un giorno nella mia collezione di francobolli, tra quelli staccati da una busta azzurrina, capitò un francobollo colorato con al centro un bianchissimo e bellissimo fiocco di neve (figura 1.2).
Fu allora che capii che vi sono delle cose che gli occhi non vedono, oltre a Babbo Natale e alle sue renne. Il fiocco di neve, in quelle giornate in cui tutto si copriva rapidamente di bianco intorno a me, non riuscivo a vederlo come in quel francobollo. Quando lo lasciavo poggiare sul palmo della mia mano, il fiocco di neve appena catturato diventava trasparente trasformandosi in goccioline d’acqua. Per quelle strane combinazioni della vita, in quell’inverno, per santa Lucia che a Verona mi permetteva di raddoppiare feste e regali di Natale, mi venne regalato un piccolo microscopio dotato di una scatola di legno di cedro che conteneva dei vetrini. “E neve, tanta neve bianca e fina, e neve, tanta neve fin a la Venturina (d’ed d’la dal fiumme a i era al monte dla mé Pavna, la sòo magia e la mé forza e la mé fantasia)” canterebbe Francesco Guccini (Natale a Pavana, “Note di viaggio”, 2019).
Figura 1.1Nonna Anna Mercurio in Arace.
Comunque, possedevo dieci vetrini rettangolari sui quali, protetti da un quadratino di vetro più sottile, erano state depositate le cose più strane: dalle ali di farfalla ai peli di gatto, da nervature di foglie a zampette di insetto o radici di cardo. Nella confezione anche cinque vetrini vuoti per dare spazio alla creatività dei microscopisti in erba. La creatività si sviluppava prevalentemente nel trovare qualcosa di attraente da osservare: un pezzetto di banana marcito, un po’ di sputo o qualche gocciolina di sangue. Roba da Tom Sawyer e Huckleberry Finn, ragazzini protagonisti di storie rocambolesche (Mark Twain, 1876 e 1884) o da Hardy Boys e Nancy Drew, giovanissimi investigatori dilettanti strappati dai loro libri e riuniti in un unico telefilm dalla Universal TV tra il 1977 e il 1979.
Ecco, ero pronto a osservare i fiocchi di neve. Catturati i fiocchi, si trattava di orientare uno specchietto che raccoglieva la luce del giorno e la inviava al vetrino su cui avevo lasciato cadere la neve per poterla osservare con quel pezzo di vetro curvo, la lente, che permetteva di formare l’immagine osservabile all’occhio resa nitida dallo spostamento della lente rispetto al vetrino. Tutte queste operazioni richiedevano tempo e, nel frattempo, la neve si scioglieva. Imparai che era fondamentale raffreddare il vetrino, magari lasciandolo immerso nella neve in giardino mentre ero a scuola. Il giardino di casa in via Fiume 2, quello con al centro un bellissimo salice, era il mio laboratorio (figura 1.3).
Figura 1.2Il fiocco di neve.
Dunque, condurre le misure al freddo, essere rapidi nelle operazioni manuali e sapere che il soggetto da osservare poteva cambiare nel tempo furono le prime tre cose imparate da microscopista in erba. A casa, in fondo, non avevo avuto tutti questi problemi con i preparati della scatola in legno di cedro. Il microscopio lo portavo in temperatura insieme ai vetrini nascondendolo sotto al salice, in modo da ritrovarlo alla temperatura giusta quando tornando da scuola, prima di salire in casa, potevo provare a osservare i fiocchi di neve. I motivi del mio ritardo a salire in casa venivano subito smascherati per via dei pantaloni bagnati all’altezza delle ginocchia su cui mi appoggiavo, immerso nella neve durante le osservazioni.
La passione per il microscopio rimase intatta negli anni diventando uno dei punti fermi nella mia carriera universitaria e di ricerca. Durante il terzo anno di ingegneria elettronica all’Università di Genova venni folgorato da una lezione sui campi elettromagnetici del professor Bruno Bianco. Il professor Bianco spiegò, partendo da quelle equazioni di Maxwell che erano croce e delizia degli allievi ingegneri, come la luce visibile fosse un’onda elettromagnetica di cui potevamo cogliere il modulo al quadrato con i nostri occhi come con una telecamera e come si trovasse in una porzione molto ristretta dello spettro di energie portate dalle onde elettromagnetiche. Poi, con un entusiasmante doppio salto mortale, spiegò che quello che avveniva nello spazio poteva essere trattato come la musica, con armoniche e frequenze spaziali. Poteva essere trattato con frequenze alte, medie e basse, le stesse che regolavo sull’amplificatore di casa quando passavo da Francesco Guccini ai Pink Floyd. Chiamateli suoni, vibrazioni o immagini ma possono essere tutti descritti in modo armonico come in fondo è la natura. Ecco che una immagine ben dettagliata di una fitta ragnatela può essere pensata come immagine di alte frequenze, spaziali piuttosto che temporali o musicali. Il suono di un violino. Una bella fotografia di un paesaggio con tramonto conterrà per lo più medie frequenze, il suono discreto di una chitarra classica. Mentre la scena finale tra la nebbia di Casablanca, con quel suo “Oggi forse noi inauguriamo una bella amicizia”, è dominata da basse frequenze, come il violoncello di Jacqueline Du Pré nel primo movimento del concerto per violoncello di Elgar. Si chiamava ottica di Fourier, le frequenze spaziali al posto delle distanze. Non vi era un vincolo matematico a trattare le immagini con la trasformata di Fourier (figura 1.4), lecita per qualunque fenomeno avvenga in natura.1
Figura 1.3Via Fiume 2 a Verona, il vecchio salice e la panchina. Disegno di Gianluigi e Lucio Perin, Verona, 6-5-1968.
Figura 1.4Un’immagine e la sua trasformata di Fourier in due dimensioni. Lo slancio in diagonale verso destra è “ribaltato” nella trasformata in alto a sinistra. Il punto brillante centrale, coordinata 0-0, raccoglie tutte le “energie” in gioco distribuite sulle varie frequenze.
Allora avevo solo la microscopia ottica nei miei pensieri di potenziale futuro ricercatore, quel suo trasformare le immagini reali in immagini al microscopio che potevo trattare usando la trasformata di Fourier (anzi l’ottica di Fourier), tema di un libro di Joseph W. Goodman che fu oggetto del mio primo acquisto professionale realizzato con i proventi del primo stipendio.2
Quello che gli occhi non vedono del vivente sono dettagli, perché troppo fini, e molecole, perché le molecole biologiche, per lo più, non assorbono la radiazione visibile, quindi non sono in grado di produrre un contrasto. Le molecole biologiche si comportano più o meno come un bicchiere di cristallo. La luce visibile, pensatela proprio come l’onda elettromagnetica che la propaga, entra nel bicchiere di cristallo ed esce inalterata in ampiezza e rallentata nel tempo. Ne cogliamo l’intensità ma non il rallentamento, visto che la velocità della luce è piuttosto elevata. Fu determinata da Ole Rømer, discepolo di Galilei, nel 1676 mentre lavorava all’osservatorio reale di Parigi diretto da Gian Domenico Cassini, che assieme a Robert Hooke nel 1664 scoprì la Grande Macchia Rossa di Giove e, nel 1690 circa, osservò per primo la rotazione differenziale dell’atmosfera di Giove.
Il fatto che le molecole biologiche non assorbano o assorbano pochissimo la luce nella regione visibile dello spettro elettromagnetico (figura 1.5) è ragionevole se pensate che stiamo sotto la luce visibile per buona parte del giorno. Se la radiazione fosse assorbita saremmo “cotti come dei polli allo spiedo”. Appena usciamo dalla regione visibile, per esempio ci spostiamo verso l’ultravioletto, la radiazione può essere assorbita. Molecole come il DNA e buona parte delle proteine assorbono energia nell’ultravioletto e il conseguente innalzamento di temperatura le potrebbe deteriorare. Il sole, stare all’aria aperta, è piacevole ma come sempre una esposizione eccessiva espone anche a radiazione ultravioletta che, non più filtrata per effetto dell’inqu...

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