Filosofia medievale
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Filosofia medievale

Questioni e risposte nelle parole dei filosofi

Maurizio Pancaldi, Mario Trombino, Maurizio Villani

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Filosofia medievale

Questioni e risposte nelle parole dei filosofi

Maurizio Pancaldi, Mario Trombino, Maurizio Villani

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I filosofi del Medioevo senza interpretazioni e apparati, ma in presa diretta attraverso i loro scritti e le loro parole.Boezio - Dionigi - Scoto Eriugena - Gregorio Magno - Fredegiso di Tours - Pier Damiani - Guglielmo di Conches - Ugo di San Vittore - Anselmo d'Aosta - Abelardo - Bernardo di Chiaravalle - Ildegarda - Alano di Lilla - I Catari - Gioacchino da Fiore - Avicenna - Averroè - Maimonide - Avicebron - Grossatesta - Ruggero Bacone - Innocenzo III - Bonaventura da Bagnoregio - Tommaso d'Aquino - Lullo - Pietro Olivi - Alberto Magno - Duns Scoto - Sigieri di Brabante - Giacomo da Viterbo - Ockham - Marsilio da Padova - Dante - Eckhart - Buridano.

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Information

Publisher
Hoepli
Year
2013
ISBN
9788820360337

Capitolo

1

L’età barbarica e carolingia

Con la crisi e la dissoluzione dell’Impero Romano d’Occidente, anche il patrimonio culturale dell’antichità sembra essersi disperso irrimediabilmente. Se alcuni (Boezio, Gregorio Magno), durante l’età barbarica, cercano di raccoglierne l’eredità, è solo con il ristabilimento dell’ordine per mano di Carlo Magno che anche la ricerca filosofica riprende vita, sia pure con i pochi strumenti rimasti e nell’angusto ambito della corte e dei monasteri. Ciò non ha impedito l’emergere di una figura di grande spessore speculativo come quella di Scoto Eriugena, ma anche di personaggi di profilo inferiore che comunque hanno partecipato ai grandi dibattiti del tempo (su eucaristia, predestinazione ecc.) con contributi importanti.
Inoltre che i rapporti con l’Oriente proseguissero con fecondi risultati, è documentato dal cosiddetto corpus dyonisianum, ritenuto di autorevolezza pari agli altri scritti neotestamentari, e come tale studiato e tradotto.

BOEZIO, La consolazione della filosofia

SE LA FORTUNA INGANNA, QUAL È IL VERO BENE?
Di nobile famiglia, assurse alle più elevate cariche pubbliche sotto il re goto Teodorico: accusato di tradimento, in carcere, attendendo l’esecuzione capitale, ebbe modo di meditare sulla condizione umana, sulla precarietà e illusorietà dei beni terreni, sulla mutevolezza della fortuna, sulla vera felicità e l’autentico Bene. La sua opera più celebre è la testimonianza dell’ultimo sussulto della cultura antica ormai al tramonto di cui costituisce una sorta di summa: malgrado sulla sua tomba egli venga qualificato come santo, in realtà egli chiede consolazione non alla fede ma alla filosofia. Fu dunque l’ultimo dei saggi antichi, che di fronte alla morte né si lascia intimorire né si abbandona a un irrazionale intervento della divinità, ma con supremo gesto di coraggio fa appello alla ragione investigando sulle supreme questioni teoretiche per trovare il senso della vita e delle proprie vicende.
Perché dunque, o uomini mortali, cercate al di fuori quella felicità che è posta dentro di voi? Vi confondono l’errore e l’ignoranza. E voglio mostrarvi brevemente il cardine della felicità somma. C’è qualcosa per te più pregiata di te stesso? Nulla, risponderai tu. Ordunque, se tu avrai il possesso di te, possederai ciò che né tu vorresti mai perdere né mai la fortuna potrebbe toglierti. E perché tu venga a riconoscere che la beatitudine non può consistere in queste cose fortuite, ragiona così: se la beatitudine è il sommo bene della natura procedente secondo ragione, e sommo bene non può essere ciò che in qualche modo può essere tolto, – giacché gli è superiore ciò che essere tolto non può, – riesce palese che la instabilità della fortuna non può aspirare al conseguimento della beatitudine. Inoltre, colui che è trasportato da codesta caduca felicità, o sa che essa è mutabile, ovvero non lo sa. Se non lo sa, qual sorte potrebbe essere beata in grazia della cecità di tale ignoranza? Se poi lo sa, necessariamente egli dovrà temere di perdere ciò che non dubita che perder si possa: e perciò, il continuo timore non gli permette di essere felice. Oppure egli pensa che, anche se perderà quel suo avere, la perdita sarà trascurabile? Ma in tal caso, viene ad essere un bene assai esiguo quello la cui perdita si può sopportare con serenità.
E poiché tu sei quel medesimo che so persuaso e profondamente convinto, per via di molte dimostrazioni, che le anime umane non siano in alcun modo mortali, – e poiché d’altra parte è chiarissimo che la felicità dovuta al caso termina con la morte del corpo, – non si può dubitare che, se la felicità suddetta può procurare la condizione beata, tutto il genere umano piombi nell’infelicità al momento della morte. E se poi ci ricordiamo che molti hanno cercato di cogliere il frutto della beatitudine non solo affrontando la morte, ma anche col sostenere dolori e supplizi, – in qual modo, dimmi, potrebbe con la sua presenza rendere beati gli uomini quella felicità che, una volta passata, non li rende infelici? […]
Poiché dunque tu hai veduto qual sia la forma del bene imperfetto, ed anche qual sia la forma del bene perfetto, ora credo si debba dimostrare dove si trovi questa perfezione di felicità. E in proposito penso che si abbia da indagare anzitutto se nella fortuna possa esistere qualche bene così fatto quale poco fa tu lo hai definito; – e ciò perché noi non restiamo ingannati, contro la verità dei fatti, da un’immagine vana. Ma che tal bene esista, e che esso sia come la fonte di tutti i beni, non si può negare. Infatti, tutto ciò che dicesti imperfetto vien considerato imperfetto perché vi si trova una diminuzione del perfetto. Onde avviene che, se in qualsiasi genere di oggetti alcunché sembra imperfetto, necessariamente ci debba essere in quel genere anche qualcosa di perfetto. Infatti, tolta la perfezione, non si può nemmeno immaginare donde sia venuto fuori quel che si considera imperfetto. […] E se veramente, come abbiam mostrato or è poco, c’è una certa felicità imperfetta inerente ai beni fragili, non si può dubitare che ci sia una felicità salda e perfetta. – «Questa conclusione» dissi allora io «è fermissima e verissima». E lei «Considera ora dove questa felicità abiti. Che Dio, Principe di tutte le cose, sia buono, è ben provato dalla concezione comune delle menti umane. Di fatti, dato che non si può concepire nulla che sia migliore di Dio, chi potrebbe dubitare che quello di cui nulla è migliore sia buono? E d’altra parte, la ragione dimostra che Dio è buono con un’argomentazione tale da persuaderci altresì che in Lui è il bene perfetto. Infatti, se tale Egli non fosse, non potrebbe essere il Principe di tutte le cose. Invero, vi sarebbe alcunché di Lui più pregevole, che avrebbe il possesso del bene perfetto, e pertanto apparirebbe precedente e più antico rispetto a Lui. […] Perciò, per evitare che il nostro ragionamento proceda all’infinito, si deve ammettere che Iddio, sommo qual è, sia pienissimo del bene sommo e perfetto. – Ma abbiamo stabilito che il bene perfetto è beatitudine vera: dunque necessariamente ne consegue che la vera beatitudine è riposta nell’altissimo Iddio […]. È manifesto, allora, che tutte le altre cose si riferiscono al bene. Difatti, si ricerca la sufficienza onde uno basta a se stesso proprio perché la si giudica un bene; e si ricerca la potenza proprio perché si crede che sia un bene essa pure; e ciò medesimo si può congetturare circa la rispettabilità, circa la fama illustre, circa il godimento. Dunque, il bene è la somma e la causa di tutto ciò che è desiderabile. Invero, ciò che non possiede entro di sé alcun bene, né in realtà, né per una somiglianza d’aspetto, non può in nessun modo essere ricercato. E per contro, anche quelle cose che per natura non sono buone, pur tuttavia, se buone ci sembrano, vengono desiderate come se fossero buone veramente. Sicché a buon diritto si crede che la somma, il cardine e la causa di tutte le cose desiderabili sia giustappunto la bontà. E quello a causa del quale si ricerca una cosa, proprio quello appare come oggetto massimo del desiderio. – Come per esempio, quando uno vuol cavalcare in grazia della propria salute, non tanto desidera il moto del cavalcare, quanto l’effetto che per la sua salute ne ha da conseguire. E poiché dunque le cose tutte si ricercano in grazia del bene, non sono esse che da ognuno vengono soprattutto desiderate, ma viene piuttosto desiderato da ognuno il bene stesso. Ma ciò per causa del quale si desiderano le altre cose già abbiamo riconosciuto che è la beatitudine; e perciò, anche in tal modo si cerca la beatitudine. Dal che appare chiaramente che la sostanza del bene stesso e della beatitudine è una e identica […]. Ma noi abbiamo mostrato che Iddio e la vera beatitudine sono una sola e identica cosa […]. Dunque ci è lecito concludere con sicurezza che anche la sostanza di Dio è riposta nel bene stesso e non altrove».

NOTA BIO-BIBLIOGRAFICA

Anicio Manlio Severino Boezio (Roma 480 ca. - Pavia 526) scrisse De consolatione philosophiae (La consolazione della filosofia) tra l’inverno del 523 e la primavera del 524, mentre era in carcere.
Il testo riportato è tratto da: A.M.S. Boezio, La consolazione della filosofia, a cura di R. Del Re, Edizioni dell’Ateneo & Bizzarri, Roma 1977, pp. 93-95, 177-187.

DIONIGI, La teologia mistica

COME POSSIAMO CONOSCERE DIO SE È AL DI LÀ DEL PENSIERO E DEL LINGUAGGIO UMANO?
La riflessione filosofica si è resa conto, fin dai suoi esordi, dell’impossibilità di parlare adeguatamente di Dio, che è al di là delle capacità umane di comprensione ed espressione: partendo da una critica alle raffigurazioni antropomorfe proprie del mito, essa è giunta a posizioni monoteiste e impersonali, in cui il divino è insieme principio primo del cosmo nonché fine dell’attività teoretica e pratica dell’uomo. Dunque, se Dio è sommo bene e verità, si richiede da un lato che la mente lo conosca e lo raggiunga al di là di tutte le limitazioni mondane, salvo però scoprire, dopo aver percorso tutti i gradi della realtà mondana, fisica e intelligibile, che Dio resta lo sconosciuto, che la sua essenza è inaccessibile alla ragione umana, la quale man mano che si avvicina a Lui deve spogliarsi di ogni capacità conoscitiva e linguistica, fino a entrare come in una nube, in una tenebra dove si perde e viene posseduta da “colui che è” fino alla completa identificazione.
[…] la buona causa universale è insieme di molte parole, di poche parole e addirittura muta, giacché ad essa non si possono applicare nessun discorso e nessun pensiero: essa trascende infatti in maniera sovraessenziale tutte le cose, e si rivela senza veli e veracemente solo a coloro che, dopo aver attraversato tutte le cose impure e pure, dopo essersi lasciata dietro ogni ascesa che porta alle sante vette, e dopo aver abbandonato tutte le luci, tutti i suoni e tutte le parole celesti penetrano nella tenebra dove si trova, come affermano gli oracoli, colui che è al di sopra di tutto. Non senza ragione il divino Mosè riceve innanzitutto l’ordine di purificarsi e poi quello di separarsi da coloro che non sono puri; dopo essersi del tutto purificato, sente il molteplice suono delle trombe, e vede molte luci, irradianti raggi puri e diffusi, quindi si separa dalla moltitudine, ed assieme ai sacerdoti scelti procede verso la sommità della divina ascesa. Ma anche a questo punto non si trova assieme a Dio: ciò che contempla non è Lui (Egli è incontemplabile), ma il luogo in cui si trova. A mio avviso, tutto questo significa che le cose più divine e più alte tra quelle visibili e pensabili sono soltanto parole che suggeriscono alla mente le realtà che rimangono sottoposte a colui che tutto trascende e che rivelano la sua presenza superiore ad ogni pensiero, situata al di sopra delle vette intelligibili dei suoi luoghi più santi. Allora egli si distacca da ciò che è visibile e da coloro che vedono, e penetra nella tenebra veramente mistica dell’ignoranza. Rimanendo in essa, chiude ogni percezione conoscitiva ed entra in colui che è del tutto intoccabile ed invisibile: [allora] appartiene veramente a colui che tutto trascende, senza essere più nessuno, né di se stesso né di altri; fatta cessare ogni conoscenza, si unisce al principio del tutto sconosciuto secondo il meglio delle sue capacità, e proprio perché non conosce nulla, conosce al di sopra dell’intelligenza. […]
Quanto più alziamo lo sguardo verso l’alto, tanto più i discorsi vengono contratti dalla contemplazione delle realtà soltanto; così pure anche ora, nel momento in cui penetriamo nella tenebra superiore all’intelligenza, noi troviamo non più discorsi brevi, ma la totale assenza di parole e di pensieri. In quell’altro caso [cioè nella teologia positiva] il discorso, scendendo dall’alto verso il basso, si allargava in proporzione alla discesa; ora invece, elevandosi dal basso verso la sfera superiore, si contrae in proporzione dell’ascesa, e dopo averla compiuta diventa completamente muto, per unirsi interamente all’ineffabile. Tu mi chiederai: ma come mai, dopo aver fatto le divine affermazioni partendo dal primo principio, iniziamo [il processo delle] negazioni divine partendo dalle cose ultime? Perché nel momento in cui affermavamo ciò che si trova al di sopra di ogni affermazione, dovevamo fare queste affermazioni ipotetiche partendo da ciò che era più affine ad esso; ma nel momento in cui neghiamo ciò che si trova al di sopra di ogni negazione, dobbiamo negarlo partendo da ciò che è più lontano. Non è forse esso più vita e bontà che aria o pietra? Ed il fatto che non gozzoviglia e non va in collera non è forse più vero del fatto che non è oggetto di discorsi o di pensieri? […]
Diciamo dunque che la causa universale, superiore a tutte le cose, non è priva di essenza, di vita, di ragione, d’intelligenza; non è neppure un corpo, e non possiede né una figura, né una forma, né una qualità, né una quantità, né un peso; non si trova in nessun luogo, non è visibile, né può essere toccata materialmente: non ha sensazioni, né è oggetto di sensazioni, né disturbata da passioni materiali, né fa albergare in sé il disordine e la confusione; non è neppure priva di forza, come se fosse soggetta alle vicissitudini del mondo sensibile, né ha bisogno della luce; non ammette in sé né il cambiamento, né la corruzione, né la divisione, né la privazione, né lo scorrimento, né alcun’altra cosa sensibile; e non è neppure qualcuna di queste cose. […]
Procedendo quindi nella nostra ascesa diciamo che [la causa universale] non è né anima, né intelligenza, e non possiede né immaginazione, né opinione, né parola, né pensiero; che essa stessa non è né parola, né pensiero; e che non è oggetto né di discorso, né di pensiero. Non è né numero, né ordine, né grandezza, né piccolezza, né uguaglianza, né disuguaglianza, né somiglianza, né dissomiglianza; non sta ferma, né si muove né rimane quieta, né possiede una forza, né è una forza; non è luce; non vive e non è vita; non è essenza, né eternità, né tempo; non ammette neanche un contatto intelligibile; non è né scienza, né verità, né regno, né sapienza; non è né uno, né unità, né divinità, né bontà; non è neppure spirito, per quanto ne sappiamo; non è né figliolanza, né paternità, né qualcuna delle cose che possono essere conosciute da noi o da qualche altro essere; non è nessuno dei non-essere e nessuno degli esseri, né gli esseri la conoscono in quanto esiste; neppure essa conosce gli esseri in quanto esseri. A proposito di essa, non esistono né discorsi, né nomi, né conoscenza; non è né tenebra, né luce; né errore, né verità; non esistono affatto, a proposito di essa, né affermazioni, né negazioni: quando facciamo delle affermazioni o delle negazioni [a proposito delle realtà che vengono] dopo di essa, noi non l’affermiamo, né neghiamo. In effetti, la causa perfetta e unitaria di tutte le cose è al di sopra di ogni affermazione; e l’eccellenza di colui che è assolutamente staccato da tutto e al di sopra di tutto è superiore ad ogni negazione.

NOTA BIO-BIBLIOGRAFICA

Dionigi Areopagita, pseudonimo di un filosofo e teologo cristiano ignoto, visse probabilmente tra il V e il VI secolo d.C. Non si conosce di conseguenza la data di composizione di questa opera breve.
Il testo riportato è tratto da: Dionigi Areopagita, La teologia mistica, trad. it. di S. Lilla, Città Nuova, Roma 1986, pp. 106, 108-110.

SCOTO ERIUGENA, La divisione della natura

SE È DIO ALFA E OMEGA DEL TUTTO, QUAL È LA STRUTTURA DELLA REALTÀ?
Vissuto alla corte di Carlo il Calvo, con il suo capolavoro ha costruito un sistema metafisico del tutto nuovo in cui si interpretava l’intera realtà alla luce del messaggio cristiano. Attraverso l’impiego costante e programmatico della razionalità, viene indagata la Scrittura e l’essenza divina fino a far coincidere “vera teologia e vera filosofia”: infatti dal momento che da Dio deriva ogni verità, sia quella razionale sia quella rivelata, si potranno conciliare all’interno di un quadro unitario in cui l’essenza divina costituisce il punto focale da cui intendere anche la realtà mondana, compreso l’uomo, che ne occupa la posizione centrale. Se tutto deriva da Dio e tutto ritorna a Dio, non solo la natura è una grande teofania, ma l’uomo si pone al centro di questo processo circolare: da lui in particolare ha inizio il processo del ritorno e della deificazione.
Maestro: – Questa dunque, è, credo, la quadriforme divisione della natura universale di cui si diceva: in quella forma cioè – se forma può dirsi la causa prima di tutte le cose che supera ogni forma o specie pur essendo l’informe principio di tutte le forme e specie – che crea e non è creata. Principio senza forma in effetti noi chiamiamo Dio, perché non si creda che possa annoverarsi tra le forme, mentre in realtà è causa di tutte le forme. A lui infatti tende ogni cosa formata, mentre egli per sé è infinito e più che infinito: è l’infinità di tutte le infinità. Infatti ciò che non è limitato o definito da nessuna forma, in quanto non conosciuto da nessun intelletto, viene detto più razionalmente senza forma anziché forma, giacché, come spesso s’è detto, di Dio possiamo predicare qualcosa più veracemente per negazione che per affermazione. La seconda divisione è quella della forma che è creata e crea. Segue la terza, della forma che è c...

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