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Gli Smartphone fra noi e la vita

Monica Bormetti

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  1. 176 pages
  2. Italian
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Gli Smartphone fra noi e la vita

Monica Bormetti

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Lo smartphone è una protesi del nostro esistere. Le ricerche dicono che la media italiana trascorre quasi due ore al giorno sui social media. Non ne possiamo più fare a meno.È diventato più potente dei computer che ci hanno portato sulla Luna. Eppure per moltissimi di noi è solo intrattenimento. Ma pensiamo mai agli effetti di tutto questo? Dove si pone il confine tra necessità e benessere? Tra ciò che siamo e lo strumento che adoperiamo. Questo libro propone una riflessione sul come noi esseri umani utilizziamo lo smartphone e su come potremmo usarlo più consapevolmente.

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Information

Publisher
Hoepli
Year
2019
ISBN
9788820389970
CAPITOLO 1
IDENTITÀ DIGITALE
NEL 1921 A JERSEY CITY, USA, ci fu un evento sportivo molto particolare. Si trattava di uno scontro di boxe tra Jack Dempsey e Georges Carpentier e la rivista americana “The Wireless Age” lo descrisse come la battaglia del secolo. Perché una rivista che si occupava di tecnologia e comunicazioni radio dedicò undici pagine a un incontro di boxe? Semplicemente perché quello fu il primo evento sportivo trasmesso via radio dal vivo in cui il numero degli ascoltatori superò quello di chi vi aveva assistito di persona. Si trattava di un cambiamento culturale e sociale notevole. Pare che in 300.000 abbiano seguito la diretta radio e meno di un terzo siano stati i presenti nell’arena. L’invenzione della radio probabilmente non aveva in sé l’obiettivo di rivoluzionare i comportamenti sociali dei cittadini americani, ma questo fu uno dei suoi effetti. Ecco che per una persona appassionata di uno sport ma che non poteva recarsi allo stadio ad assistere all’evento per ragioni economiche, logistiche o chissà cos’altro, ora diventava possibile seguire in tempo reale l’avvenimento.
Non era più necessario attendere la pubblicazione di un giornale l’indomani o sentirne parlare da chi vi era stato. La diffusione delle comunicazioni radio ebbe un impatto nella quotidianità che toccava aspetti di vita comune (Chatfield, 2013). E così cambiava anche la percezione del sé: persone che fino a quel momento non avevano potuto seguire in diretta un match di boxe vedevano profilarsi nuove possibilità, che portavano anche a nuove sfaccettature della propria identità.
La stessa cosa è avvenuta per tante altre evoluzioni tecnologiche. Si pensi per esempio alla diffusione delle automobili nel secondo Dopoguerra: improvvisamente le persone comuni iniziavano ad avere un mezzo di trasporto che permetteva loro di immaginarsi in prospettive completamente diverse, perché potevano spostarsi in modo del tutto autonomo. Ciò introdusse una dimensione alquanto nuova nella vita: la vacanza e il viaggio. Dunque un’evoluzione tecnologica in un settore molto spesso ha un impatto sulla vita quotidiana degli individui e quindi sul modo in cui percepiscono lo stare nel mondo.
Lo smartphone che tutti noi abbiamo in mano è nato da quello che era un telefono cellulare e oggi è uno strumento che ci ha trasportato nella cosiddetta “gig economy”, fatta di lavori realizzabili grazie alla continua connettività e con una flessibilità un tempo inimmaginabile. Questo ovviamente ha un’incidenza a diversi livelli della società: dal mercato del lavoro alle relazioni interpersonali, dall’educazione al chi ci sentiamo di essere. Legati allo smartphone ci sono ovviamente i social network che, inizialmente vissuti come uno spazio di intrattenimento, oggi sono il luogo o nonluogo in cui ci si forma, informa e costruiscono opinioni. Probabilmente chi ha inventato il cellulare, lo smartphone e i social media non aveva fin dagli albori l’intenzione di influenzare con tanta forza diversi aspetti della nostra vita. Di fatto però questo è accaduto: oggi usiamo i device mobili per comunicare, svegliarci al mattino, fare luce al buio, trovare la strada giusta, giocare, informarci e far di conto.
Sean Parker, cofondatore ed ex presidente di Facebook, nel 2017 fece delle dichiarazioni per certi versi inaspettate (Solon, 2017): “Ai tempi in cui stavamo mettendo in piedi Facebook mi trovavo con persone che venivano da me e mi dicevano ‘Io sui media sociali non ci sono’, io rispondevo ‘Va bene, ma in futuro ci sarai’. Quelli allora dicevano ‘No, no, no: io ci tengo ai rapporti che ho nella vita vera. Io ci tengo al singolo momento. Io ci tengo alla presenza concreta. Io ci tengo all’intimità’. Io gli dicevo ‘Beh, alla fine ti beccheremo’. Non so se davvero avevo compreso le implicazioni delle mie parole; una delle non volute conseguenze dell’esistenza di una rete che arriva a comprendere uno o due miliardi di persone è che essa cambia, letteralmente, i rapporti che si hanno con la società e con gli altri… probabilmente interferisce con la produttività, e lo fa in modo strano. Dio solo sa che cosa sta facendo al cervello dei nostri figli”. Lo smartphone ha un effetto su come interagiamo con il mondo, come ci immaginiamo di essere, su cosa sogniamo di diventare.
LA CATEGORIZZAZIONE DEL PROPRIO SÉ
“Tutto scorre” affermava Eraclito, tutto è in continuo movimento. Eppure abbiamo la forte sensazione che molte delle cose che percepiamo, compresi noi stessi, siano dotate di una stabilità interna, siano per certi aspetti permanenti. Dove sta la verità? Osservando attentamente il mondo intorno a noi ci rendiamo conto che in effetti i corpi, gli oggetti, i fenomeni e le relazioni sono in perenne mutamento, ma l’impressione prevalente è di una certa costanza. Si tratta di una forma di cecità di fronte alla natura delle cose, necessaria alla sopravvivenza, che il nostro cervello opera per riuscire a orientarsi nella complessità dell’ambiente molto ricco di sfaccettature.
J.S. Bruner, psicologo americano che si è dedicato in particolare allo studio dell’età dello sviluppo, già negli anni ’50 diceva che ogni percezione del mondo intorno a noi implica un processo di etichettamento. Vediamo un oggetto nell’ambiente in cui ci troviamo e tramite le sue caratteristiche lo classifichiamo in una casella della nostra mente (per esempio la mela va nella categoria ortaggi e la sedia nei mobili). L’essere umano applica il medesimo processo anche al sé (per esempio, io sono curioso e Adele è studiosa). Categorizziamo il nostro io percependolo come qualcosa di stabile e questo è utile al fine di avere un senso di continuità riguardo a se stessi e alla propria esistenza. Non percepiamo il nostro progressivo invecchiamento, che avviene minuto dopo minuto e nemmeno ci servirebbe essere consapevoli di questa profondità di osservazione. La conseguenza però è anche che, percependoci come un io stabile, fatichiamo a portare un cambiamento in questa continuità. Una volta che etichettiamo il nostro io con determinate caratteristiche è difficile mutarle: per esempio, se ci percepiamo come persone sensibili, anche nell’occasione in cui adottiamo un comportamento di indifferenza o superficialità continuiamo a etichettare il nostro come un sé sensibile. Oltre al processo di etichettamento, applichiamo a noi stessi quello di inclusioni in classi. Questo è molto chiaro per esempio nei tifosi sportivi: essere appassionati di una certa squadra e seguirla ci colloca all’interno del gruppo sociale dei supporter di quel club.
Il processo di categorizzazione porta con sé il principio di similarità: gli elementi di una stessa categoria sono percepiti come simili, soprattutto in contrapposizione ad altre categorie. Quindi per esempio un italiano all’estero, tendenzialmente, percepisce con più forza la propria italianità rispetto a quando è in patria. Andando in un caffè italiano a Berlino, prova per il cameriere un senso di vicinanza più marcato rispetto a quello che sentirebbe se incontrasse quella stessa persona in un bar a Milano. Quindi la nostra percezione di appartenere a una categoria è determinata anche dall’ambiente in cui ci troviamo e da come categorizziamo tutti gli elementi in esso. Online definiamo la nostra appartenenza a determinate classi continuamente: tramite i Like, l’ingresso in un gruppo Facebook, la frequentazione di un sito e via dicendo, benché molto spesso sia un processo non del tutto consapevole.
La categorizzazione conduce a due effetti valutativi: appartenenza intracategoriale e differenziazione intercategoriale. In altre parole, una volta inseriti due elementi in una stessa categoria ne percepiremo maggiormente le somiglianze, mentre quando poniamo due elementi in categorie differenti vediamo maggiormente le differenze. Se entriamo in un gruppo Facebook di “appassionati di lettura”, il mondo esterno percepirà la nostra identità come molto simile agli altri profili appartenenti a quel gruppo. E quindi, per quanto lì ci possano essere persone di differenti età, professioni e provenienze, il mondo tenderà a vedere come più significative le somiglianze, facendo per così dire “di tutta l’erba un fascio”. Per fare un esempio estremo, potremmo essere visti come dei “topi da biblioteca” perché siamo all’interno di quel gruppo di lettura, e magari la nostra passione per lo sport e la natura risulterebbe meno visibile agli occhi dell’altro.
Tutti questi processi applicati alla definizione della nostra identità sono assolutamente normali e necessari per farci districare nella complessità del mondo. È importante però esserne consapevoli, perché poi questi hanno degli effetti veri e tangibili sulla nostra vita: un esempio è la profezia che si auto-avvera, concetto teorizzato da T.L. Rosenthal negli anni ’60 secondo cui le nostre credenze (riguardo a noi stessi, a un’altra persona o all’ambiente in cui ci troviamo) finiscono per avere un impatto sulle condizioni di realizzazione di un evento. Quando per esempio veniamo etichettati come “bravi in matematica” e il contesto lo conferma, anche noi stessi confermiamo tale credenza, attraverso pensieri e comportamenti di cui possiamo talvolta essere inconsapevoli. Tutto ciò avviene offline e la psicologia sociale studia questi processi da decenni, da molto prima del web. Oggi però questi stessi meccanismi ovviamente si ripropongono nella Rete e nelle nostre relazioni digitali.
CHE COSA ACCADE ALLA CATEGORIZZAZIONE DEL SÉ ONLINE?
G.H. Mead, all’inizio dello scorso secolo, fu uno dei primi studiosi di psicologia sociale che considerava l’ambiente di contorno come una sorta di specchio nel processo di costruzione della propria identità. Dunque “io sono” anche in relazione al contesto in cui mi muovo e ai feedback che esso mi rimanda. Oggi, in un’epoca di iperconnessione, la funzione di specchio del contesto sociale assume proporzioni che Mead non poteva certo immaginarsi. La nostra identità online si costituisce in un processo di continuo feedback e rielaborazione interna in un ambiente però che ha delle differenze rispetto a quello fisico. Oggi, per certi versi, noi siamo ciò che compriamo su Amazon, i Like che lasciamo su Facebook e le Stories che visualizziamo su Instagram.
Online e offline differiscono però su due piani: il tempo e lo spazio (Figura 1.1). Online il contenuto è persistente nel tempo e raggiunge un pubblico infinitamente più ampio, tanto da non poterlo controllare. E quindi, se ci immaginiamo un continuum di queste due dimensioni, possiamo dire per esempio che scrivere una lettera cartacea abbia una durata e una “reachability” (per rubare un inglesismo al mondo del marketing che indica la quantità potenziale di persone raggiunte) a un estremo, mentre un post su un social è all’estremo opposto. Il fenomeno delle Stories e quindi dei contenuti effimeri sui social network è interessante proprio perché in qualche modo si pone a metà di questo continuum, o meglio cerca di dare all’online alcune sfumature dell’offline. Non scordiamoci però che anche un contenuto effimero è comunque in Rete e non sarà mai come un pezzo di carta che una volta buttato nel camino veramente non esiste più.
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FIGURA 1.1 Ampiezza del pubblico e durata nel tempo tra online e offline.
Nel “mondo fisico” possiamo cambiare gusti, hobby, lavoro, città nel tempo e mano a mano la nostra identità si costruisce e si trasforma intorno ai vari elementi della nostra vita. Per cui si viene identificati come “quello a cui piace il calcio” oppure “quella che va spesso a ballare”, ma poi si può anche cambiare; certo, con fatica, dato ciò che abbiamo visto prima, ma in una qualche misura è fattibile. Nel mondo online, viste le differenti condizioni dell’ambiente in cui ci muoviamo, tutta questa malleabilità non c’è. In alcuni casi poco importa: se veniamo identificati come persone che amano il cioccolato non ci sono implicazioni particolarmente negative in cui poter incorrere. Se però veniamo ritenuti poco affidabili sulla scorta di contenuti pubblicati relativi a un comportamento ritenuto tale (mancato pagamento dell’affitto, ubriacatura di una sera, commenti astiosi in un blog ecc.), ecco che un episodio, seppure temporaneo e circostanziato, rischia di dare adito a una generalizzazione che non ci giova. Si parla di impronta digitale per indicare l’insieme di tracce che lasciamo online e che un pezzo alla volta vanno a costituire la nostra reputazione e quindi “chi siamo”. L’impronta digitale è costituita sia da elementi palesi (una foto che pubblichiamo) sia più nascosti (i cosiddetti “metadati”: in che orari ci connettiamo, da che luogo, che strade percorriamo, con chi interagiamo maggiormente ecc.). Un’altra dimensione che pervade la vita digitale, a proposito di categorizzazione di informazioni, è la raccolta dati a fini di profilazione degli utenti. Tutto ciò che facciamo online e come lo facciamo lascia appunto delle tracce che formano il tipo di personalità con cui veniamo identificati. Questo è palese, per esempio, con il sistema di credito sociale in Cina, che verrà attivato in via definitiva dal 2020. Incrociando i dati provenienti da ciò che ricerca online, i comportamenti per strada (visionabile dalle telecamere con riconoscimento facciale piazzate nei luoghi pubblici) e in generale il tipo di vita vissuta, un algoritmo elaborerà l’indice di affidabilità di una persona sul territorio cinese. Ecco che il sistema di categorizzazione del sé diventa particolarmente rigido.
COERENZA ONLINE E REPUTATION ECONOMY
Potremmo anche pensare: “Che mi importa dell’identità online? In fondo, chi mi conosce sa chi sono veramente”. Il punto però è che tutto ciò che facciamo in Rete viene registrato e analizzato e va a costruire la nostra (web) reputation. Il “chi sono” è definito in buona parte dalla mia reputazione online oggi, che mi piaccia o meno. E così sempre di più l’identità digitale che ci costruiamo determina il tipo di persone che incontriamo e le nostre possibilità professionali.
Prendiamo uno degli esempi più eclatanti, in quanto uno dei primi casi di stravolgimento veloce e forte (per il tempo e lo spazio della Rete) della vita di qualcuno a seguito di un tweet. Il 20 dicembre 2013 Justine Sacco, allora a capo delle pubbliche relazioni di IAC (società americana che comprende olt...

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