Filosofia e sapere della città antica
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Filosofia e sapere della città antica

Mario Vegetti

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Filosofia e sapere della città antica

Mario Vegetti

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Un classico della storia della filosofia antica, che ritorna finalmente in libreria a più di 40 anni dalla sua prima apparizione. Pubblicato come testo scolastico nel 1975 da Zanichelli, il contributo di Mario Vegetti costituiva la prima parte del primo dei tre volumi che formavano il manuale Filosofie e società, opera che ebbe poi altre due edizioni (nel 1981 e nel 1992, sempre da Zanichelli).Dalla metà degli anni '70 alla fine degli anni '90, la storia della filosofia antica di Mario Vegetti è stata il libro di testo su cui si sono formate diverse generazioni di studenti. Ma quasi subito si è trasformata in qualcosa di più: un libro cult, che presentava e proponeva, in modo innovativo, i filosofi del mondo antico sotto una luce inedita e meno stereotipata. Questo gioiello della manualistica scolastica viene ora riproposto in una nuova veste grafica, rivolgendosi a un pubblico di lettori più ampio. E ha tutte le carte in regola per farlo: l'autore, con uno stile accattivante e una straordinaria chiarezza espositiva, illustra le dottrine filosofiche sempre all'interno del preciso contesto culturale e sociale da cui scaturiscono le linee problematiche, i campi teorici, le conflittualità ideologiche. Un'esposizione della filosofia antica vista nelle sue relazioni concrete e variabili con le diverse forme del sapere (la matematica, la biologia, l'etnologia, la storia, l'antropologia, la sociologia, l'economia), ma anche con le forme della vita sociale e politica, e con le istituzioni culturali.Vegetti offriva e offre tuttora un'immagine della filosofia antica ricca, variegata e quanto mai convincente.Uno strumento di conoscenza, di informazione e di cultura che ha aperto ed è ancora in grado di dischiudere ai giovani e a un pubblico più maturo lo spazio della filosofia.

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Information

Publisher
Hoepli
Year
2018
ISBN
9788820386023
1
Società e cultura in Grecia dal VII al V secolo
La civiltà micenea, che riproduceva in Grecia un’organizzazione sociale tipicamente orientale, crollò intorno all’XI secolo, dopo che il suo equilibrio interno si era gravemente logorato, a causa di una serie di invasioni di popoli stranieri, fra cui quella dei Dori. Uno dei principali effetti di queste invasioni fu la migrazione dalla madrepatria verso le coste egee dell’Asia Minore di una popolazione che poi avrebbe assunto il nome di Ioni. Fino alla fine dell’VIII secolo, nessuna nuova organizzazione sociale unitaria sostituisce la distrutta civiltà micenea. Ne restano piuttosto i frammenti: villaggi isolati, raccolti attorno al palazzo del signore locale (basileus, re) e al tempio, spesso governato dalla stessa famiglia del signore. Nella loro migrazione, gli Ioni riproducono inizialmente le stesse forme di organizzazione. Per tutto questo periodo, la Grecia appare svolgere, nel contesto del mondo mediterraneo, un ruolo assolutamente periferico. Fra l’VIII e il VII secolo affluiscono però dall’Oriente, passando in primo luogo attraverso la Ionia, una serie di innovazioni tecnico-economiche destinate ad avere profonde ripercussioni sociali. Innanzitutto, la tecnologia dell’estrazione e della lavorazione del ferro, che veniva a sostituire quella del bronzo, il metallo usato fino a quel momento nelle civiltà orientali e micenea. Non essendo una lega, il ferro è di lavorazione più semplice; i suoi giacimenti sono assai più largamente diffusi, ciò che liberava i produttori dalla dipendenza forzosa nei riguardi di chi controllava le lunghe vie commerciali del rame e dello stagno; gli utensili prodotti, infine, risultavano più resistenti ed economici di quelli in bronzo. Tutto ciò determinava la possibilità, anche per comunità non integrate in vaste organizzazioni politiche come gli imperi orientali, di procurarsi attrezzi agricoli ed armi in quantità sufficienti; nei villaggi e nelle nascenti città si aprivano rapidamente le fucine dei fabbri, di cui abbiamo già una eco, verso la fine dell’VIII secolo, nei poemi di Esiodo.
Una seconda, fondamentale innovazione fu costituita dal conio della moneta metallica (oro, argento), da cui gli scambi internazionali ricevettero un fortissimo impulso. Fra le prime a trarne beneficio furono le comunità ioniche, che venivano a trovarsi proprio sulla cerniera fra i grandi itinerari commerciali dell’Est e dell’Ovest, e disponevano tutte, per la loro collocazione costiera, di porti eccellenti sull’Egeo. Lo sviluppo di un’economia monetaria ebbe presto profonde conseguenze sociali. Da un lato, esso indeboliva i medi e piccoli coltivatori, usi a procurarsi il necessario nei mercati locali mediante la pratica del baratto dei prodotti. Dall’altro, cominciava a determinare la formazione di ceti meno direttamente legati alla terra: commercianti, cambiavalute, usurai, professionisti che scambiavano il loro servizio non più contro cibo e doni, ma contro denaro, uno strumento socialmente assai più efficace.
Tutto questo dava luogo, a partire sempre dalla Ionia, alla rapida trasformazione delle iniziali comunità agricole in città ad economia mista. La città ionica è, fin dall’inizio, bipolare. Essa è fondata e diretta dall’aristocrazia (discendente in via più o meno diretta da quella micenea), che se ne serve come di un centro politico per la mediazione e l’armonizzazione degli interessi delle grandi famiglie, per il controllo unificato del territorio e dei traffici che incominciavano a svilupparsi nel porto e nel mercato, infine per i contatti, ormai indispensabili, con l’economia monetaria e i suoi agenti sociali. Il polo aristocratico della città è l’acropoli, una struttura religiosa (vi sono siti i templi maggiori), politica (vi siede il Senato cittadino) e militare (come fortezza sovrastante la polis) che assicura il dominio sulla città. Va sottolineato che per tutto il periodo che stiamo considerando, e salva qualche eccezione, l’aristocrazia rimane legata alla terra come fonte principale di ricchezza. Il suo rapporto con l’economia commerciale e monetaria non è di impegno diretto (non si ha cioè un’aristocrazia mercantile come quella che si sarebbe sviluppata nell’Europa medievale e rinascimentale), ma si risolve soprattutto nel prelievo fiscale (dazi, imposte, ecc.), e, qualche volta, nel prestito a interesse agli operatori commerciali. L’altro polo della città è la piazza del mercato (agorà), dove si muove una folla eterogenea di commercianti al minuto, di esportatori e importatori, di contadini impoveriti che hanno abbandonata la campagna, di artigiani, di stranieri privi di diritti politici (i meteci) attratti in città dalle possibilità di guadagno che essa offre. Questa aggregazione sociale forma il «popolo», il demos urbano, che si viene gradualmente, ma sempre più consapevolmente ponendo in antitesi all’aristocrazia egemone.
Un’altra innovazione, giunta fra l’VIII e il VII secolo dalla Fenicia, aiuta il demos urbano a far propri gli strumenti culturali necessari alla propria crescita sociale e politica: si tratta della scrittura alfabetica. La scrittura micenea, derivata dai modelli ideografici orientali, per la sua stessa difficoltà era rimasta patrimonio di un ceto chiuso di sacerdoti e scribi di palazzo, ed era andata perduta insieme con quella società. Per quasi tre secoli, dunque, la Grecia non aveva conosciuto alcun tipo di scrittura. La cultura era trasmessa in forma esclusivamente orale, ad opera dei sacerdoti e dei poeti che cantavano i loro racconti nei palazzi aristocratici. La scrittura alfabetica, di facile apprendimento e di agevole impiego, si rivelò uno strumento efficace per la diffusione della cultura tradizionale e anche per la costituzione, in forme nuove che essa stessa agevolava (la redazione delle leggi della città e del mercato, manuali professionali, rapporti di viaggio e così via), di una cultura diversa. Anche se l’insegnamento a livello elementare della scrittura sarebbe stato introdotto solo nell’ultima parte del V secolo, è certo che la diffusione dell’alfabeto rappresentò un veicolo potente per la laicizzazione ed una relativa democratizzazione della cultura.
La tensione politica, sociale e poi anche culturale fra aristocrazia e demos, fra acropoli e agorà, interessò in forme diverse, nel periodo in esame, tutte le città greche, determinando nel loro ambito una conflittualità ora latente ora acuta. Va però messa in rilievo una tendenza ad una distribuzione geografica relativamente omogenea delle forze. Nella fascia ionica, prima autonoma e poi, nel V secolo, sottoposta all’egemonia ateniese, il demos tende a prevalere, sia politicamente sia culturalmente, anche se l’aristocrazia non può certo mai dirsi del tutto sconfitta. Al contrario, in gran parte della madrepatria greca, della Sicilia e della Magna Grecia, l’aristocrazia terriera e militare continua ad esercitare una preponderante egemonia, solo a tratti interrotta da vicende interne e internazionali. Le contraddizioni raggiungono la massima tensione nell’Atene della seconda metà del V secolo. A livello internazionale, Atene guida una lega democratica in una guerra decisiva contro la coalizione aristocratica, la guerra del Peloponneso, da cui esce sconfitta. Sul piano interno, una potente aristocrazia vive un’alterna vicenda di alleanze e di scontri col demos; essa produrrà, prima, gli equilibri innovatori realizzati da Pericle, poi, alla fine del secolo, tutta una serie di tentativi per restaurare una tirannide aristocratica. Il IV secolo si aprirà dunque su queste tensioni irrisolte.
La distribuzione geografica di cui si è detto si riflette anche a livello culturale. Così nel VI secolo il filosofo Pitagora, legato alla cultura sacerdotale, abbandona la ionica Samo per trasferirsi in Magna Grecia, a Crotone; viceversa, il medico Democede lascia Crotone proprio alla volta di Samo, dove trova un ambiente più favorevole al suo tipo di cultura.
Quanto si è osservato finora sull’organizzazione sociale del mondo greco in questo periodo, e sulle sue contraddizioni, permette anche di identificare agevolmente i luoghi nei quali la cultura viene prodotta e recepita. Da un lato, vi è la cultura che potremmo definire sacerdotale, ramificata in ogni città ma raccolta intorno a un suo centro ideale, il santuario di Apollo a Delfi; questa tradizione viene profondamente innovata e potenziata – senza che ne siano smarriti i caratteri essenziali – nel VI e V secolo ad opera di pensatori come Pitagora, Parmenide ed Eraclito (di cui si dirà nel Capitolo 3 di questo libro). Al lato opposto vi è la formazione di una cultura nuova, a carattere prevalentemente tecnico-scientifico, che risponde alle esigenze maturate nel demos e nell’agorà. Questa cultura ha i suoi centri a Mileto nel VI secolo e ad Atene nel V (essa verrà trattata nel Capitolo 2). Naturalmente, queste due tradizioni non si sviluppano in un reciproco isolamento. Nel V secolo, anzi, si svolge un serrato dibattito da cui emergono risultati assai rilevanti sul piano teorico, soprattutto nel campo fisico-matematico e in quello della riflessione linguistico-logica, storiografica e politica. (A questi argomenti dedicheremo rispettivamente i Capitoli 4 e 5.) Vi è poi una terza forma di produzione culturale, quella poetica, che tende a seguire le dominanti ideologiche1 complessive; nel suo insieme, tuttavia, la poesia resta legata ai suoi committenti originari, gli aristocratici (con la parziale eccezione dei tragici ateniesi, più direttamente coinvolti nello scontro ideologico della città).
Va tenuto ben presente che per tutto il periodo che stiamo considerando non vi è in Grecia alcuna istituzione culturale e scientifica stabile, né pubblica né privata. È quindi improprio parlare di «scuole» filosofiche o scientifiche, almeno se al termine si dà il valore che esso avrebbe assunto a partire dal IV secolo (con Platone e Aristotele) e soprattutto nel III (con l’istituzione del Museo di Alessandria). In certi casi queste cosiddette «scuole» (ad esempio quella di Mileto), risultano solo dall’affinità fra pensatori diversi e indipendenti, affinità che deriva da un comune ambiente sociale, dall’accordo su prospettive ideologiche generali e da modalità omogenee nell’impiego delle tecniche razionali e conoscitive. In altri casi (ad esempio quello della «scuola» pitagorica), il legame fra i singoli pensatori deriva dall’appartenenza comune ad un’istituzione religioso-sacerdotale, un «tiaso», che affonda le sue radici nel tempio. Infine, altre «scuole», come quelle mediche, sono connesse all’esistenza di una corporazione di mestiere, e solo verso la fine del V secolo incominciano a costituirsi come centri scientifici stabili.
Un’ultima avvertenza necessaria riguarda la forma dei testi che assicuravano la trasmissione della cultura. Non bisogna pensare a libri o trattati di tipo moderno. Nella maggior parte dei casi, il testo filosofico e scientifico rappresenta ancora la trascrizione di una comunicazione nata in forma orale. Si tratterà così, per la cultura aristocratica, di testi di tipo profetico o oracolare, legati alla comunicazione tipica del tempio; per la cultura legata al demos, della trascrizione di «conferenze» pubblicamente tenute sull’agorà o nei ginnasi adiacenti. Fanno eccezione a questo stile ancora semi-orale i manuali relativi alla pratica professionale: si tratta, ad esempio, di testi di matematica e soprattutto di medicina, destinati alla circolazione all’interno dei rispettivi gruppi di tecnici.
1Nelle pagine che seguono il termine «ideologia» verrà usato nel suo significato più generale. Con esso si designano cioè concezioni del mondo, della storia, della vita, che non hanno un diretto riferimento scientifico alla realtà, e quindi non sono valutabili in termini di vero o di falso, ma piuttosto esprimono interessi, bisogni, aspirazioni dei diversi gruppi sociali e dei pensatori che li rappresentano. Naturalmente, non è possibile tracciare una rigida linea di demarcazione fra ideologia e teoria scientifica: seppure distinte, esse risultano sempre strettamente intrecciate nell’ambito del sapere sociale nelle varie epoche. Del resto, le formazioni ideologiche non hanno un carattere arbitrario e soggettivo, e neppure semplicemente propagandistico. Esse sono socialmente necessarie, nel senso che ogni gruppo sociale non può fare a meno di produrre, nel corso della sua vicenda storica, concezioni generali che, appunto, ne esprimano i punti di vista e le prospettive specifiche. Il compito di elaborare e sviluppare tali concezioni spetta, nelle diverse società, ad una gamma assai vasta di ruoli sociali e dei rispettivi rappresentanti (poeti, artisti, sacerdoti, filosofi, scienziati, ecc.).
2
Natura, scienza e città: il pensiero ionico del VI e V secolo
La nuova cultura che, come si è visto, viene alla ribalta nell’ambiente delle città ioniche come Mileto e Colofone durante il VI secolo, offre alla comunità un servizio in certo modo paragonabile a quello degli aedi e dei rapsodi.1 Essa si assume, cioè, il compito di elaborare il patrimonio delle conoscenze sociali, di farlo circolare, di proporre alla collettività un insieme di risposte ai problemi che questa si pone. Tuttavia qualcosa è mutato profondamente nella condizione dei nuovi operatori culturali. La diffusione della scrittura consente di redigere opere scritte che si sottraggono all’immediatezza della comunicazione orale propria del poeta. Questo determina, da un lato, una maggior individuazione dell’opera, che reca con sé, nelle vicende della propria circolazione, il nome dell’autore: dunque anche, da parte dell’autore stesso, un maggior senso della propria individualità, un distacco dai moduli fissi di una tradizione in cui il sapere sociale si trasmette anonimamente, la ricerca di un successo e di una fama dovuti alla propria personale ed originale ingegnosità. D’altro lato l’opera scritta, e per giunta in prosa, deve recuperare in termini di chiarezza, di ordine e di rigore concettuale quel che le manca in termini di pienezza emotiva, propria del rapporto che si instaura, grazie alla recitazione orale, fra il poeta e il suo ascoltatore. Di qui il nuovo tipo di comunicazione, al tempo stesso più individuale nella produzione dell’informazione, e più oggettivo nella sua trasmissione, che i pensatori ionici inaugurano. Tutto ciò corrisponde del resto alla diversa destinazione sociale del lavoro intellettuale cui sono chiamati.
Nell’orizzonte chiuso e insicuro della società seguita al crollo del mondo miceneo, una società legata alle campagne e ai palazzi di un’aristocrazia ancora nostalgica di quei passati splendori, il compito affidato ai poeti come gli Omeridi ed Esiodo era stato essenzialmente quello di fissare un sistema di valori individuali e di gruppo che garantissero la coesione sociale, di stabilire norme di condotta tali da assicurare un equilibrato rapporto fra l’individuo, la comunità e gli dèi. Ben diversi erano invece i problemi posti dalla società ionica del VI secolo, ormai avviata a raggiungere una piena maturità urbana, tecnica e commerciale.
Come meglio vedremo in seguito, questi problemi sono di due ordini: in primo luogo, quelli relativi all’appropriazione, sia conoscitiva sia tecnico-pratica, dell’ambiente naturale da parte dell’uomo della città; in secondo luogo, quelli relativi alla collocazione di questa nuova figura umana nel contesto dei valori etico-politici, della tradizione mitico-religiosa, delle ideologie sul destino dell’umanità. Il compito era, come è facile vedere, di grande portata: si trattava di ripensare il mondo, quello della natura e quello della tradizione, secondo l’ottica imposta da una società nuova; si trattava, dunque, di ricostituire il contesto naturale e storico a misura della città. A questo compito si dedicarono uomini come Talete, Anassimandro, Anassimene, Ecateo e Senofane, cui è dedicata la prima parte di questo capitolo.
A rigore, essi non possono venir chiamati «filosofi», se per filosofia si intende un’attività teorica sistematica qualitativamente diversa da quella che si produce nell’interpretazione dei problemi immediatamente posti dall’esperienza sociale e nell’ordinamento delle conoscenze ad essi relativi. La «filosofia» in senso stretto, come pure il termine che la designa e la somma di questioni che vennero a costituirne il campo, nacquero in un ambiente assai diverso da quello ionico, e cioè, come vedremo, nell’ambito del pensiero aristocratico-sacerdotale sviluppatosi inizialmente in Magna Grecia ad opera di uomini come Pitagora e Parmenide. Gli Ionici ignorano tutte le scissioni, le contrapposizioni, le gerarchie che quel pensiero avrebbe prodotto. È per esempio assente nel loro orizzonte concettuale l’opposizione di anima e corpo: invece che di anima essi parlano di vita, una vita che pervade in modo omogeneo l’intero organismo della natura. Pure assenti sono le classiche opposizioni «filosofiche» fra essere e divenire, apparenza e realtà, uno e molteplice, teoria e prassi, e così via. Il tipo di razionalità che è all’opera nella loro riflessione può piuttosto venir definita come «scientifica», almeno embrionalmente: e ciò nel senso che essi non esitano a ricorrere ad ipotesi generali adatte a spiegare vasti gruppi di fenomeni, a chiarire la natura di interi campi problematici. Ciò che nasce a Mileto nel VI secolo non è dunque propriamente la «filosofia», ma un’agile e spregiudicata forma di razionalità intesa a metter ordine in un mondo di esperienza sociale nuovo, ad assicurarne il controllo, mediante una stretta unione di capacità tecnicopratiche e di elaborazione intellettuale.
2.1 Gli dèi, la natura e la conoscenza
I problemi che la nascente riflessione ionica si trova ad affrontare sono quelli connessi con la tradizione religiosa, con la spiegazione del mondo della natura, e, a un diverso livello, con le stesse tecniche razionali che occorre mettere in opera per la soluzione di questioni di questo tipo. È importante tener presente che tali «problemi» non preesistono affatto allo sforzo di risolverli o almeno di interpretarli; essi emergono, in quanto domande, contemporaneamente alla forma di razionalità che ne viene elaborando le risposte. Per una società agricola, compattamente raccolta attorno al palazzo del signore e al tempio in cui i sacerdoti venerano gli dèi, natura e divinità non solo non costituiscono un problema, ma neppure sono pensabili a questo livello di generalizzazione; la natura si risolverà piuttosto nell’insieme dei fenomeni e delle forze che non dipendono dall’uomo, nel ciclo delle stagioni, nella necessità di una serie ben regolata e ripetitiva di pratiche indispensabili a far crescere i raccolti; la divinità, dal canto suo, consisterà nella presenza e nell’azione di una pluralità di dèi, e, anche qui, nella rich...

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