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‘O SOLE MIO
LA CANZONE NAPOLETANA
L’epopea di un’epoca irripetibile
“Napule è mille culure / Napule è mille paure / Napule è a voce d’‘e criature / che saglie chiano chianu / e tu saje ca nun si sulo”
— PINO DANIELE
DALLE ORIGINI ALLE VILLANELLE
Il legame tra Napoli e la musica si protrae fin dalle sue origini leggendarie, ma saranno le eco della scuola siciliana a promuovere anche nella vecchia Partenope l’attitudine al canto e alla poesia. È l’inizio di un’avventura che attraverso le villanelle e la tarantella porterà all’epoca d’oro della canzone napoletana.
Fino a poco più di cinquant’anni fa la canzone napoletana era talmente radicata nell’immaginario comune del nostro paese da essere spesso confusa con quella italiana. All’estero, poi, questa sorta di pregiudizio attecchì a tal punto da far sì che ancora oggi permanga una certa confusione.
GIOVANNI DA COLONIA
E LE CANZONI VILLANESCHE ALLA NAPOLETANA
La nascita della villanella ha una data fittizia: la si fa risalire al 23 ottobre 1537 e cioè alla pubblicazione da parte di Giovanni da Colonia della raccolta Canzoni villanesche alla napoletana che conteneva una quindicina di brani anonimi. Di fatto, questo primo corpus, peraltro fondamentale, era in realtà una riedizione di un testo precedente di cui si è persa l’origine. Il volume – conservato nella Herzogliche Bibliothek di Wolfenbuttel, in Germania – presenta testi scritti in napoletano, in italiano e altri in una specie di ibrido tra i due, e ha il pregio di farci conoscere quella che viene considerata dalla maggior parte dei critici la prima composizione già prossima all’attuale canzone, strutturata con un medesimo ritornello ricorrente tra strofa e strofa: Voccuccia de nu pierzeco apreturo.
I preconcetti, però, esistono solo se c’è un motivo che li giustifica, e a questo proposito basterebbe pensare ai milioni di uomini e donne che dal porto di Napoli partono, a cavallo dei due secoli scorsi, per varcare l’oceano con la prospettiva di crearsi un futuro migliore. Ad accompagnare queste persone c’é il ricordo straziante degli affetti e dei luoghi che stanno abbandonando. Una tristezza che ben presto si trasforma in nostalgia e si compendia nei testi delle canzoni napoletane, che proprio in quegli anni fioriscono numerose nella loro migliore espressione e diventano di grande notorietà anche presso la gente di quelle terre lontane. Ma a supporto dell’idea che la canzone partenopea sia sempre esistita ci sono anche ragioni più antiche. A questo proposito ci si affida a una leggenda popolare assurta presto a mito dal sapore squisitamente classico. Il primo canto geograficamente napoletano lo si vuole attribuire niente meno che a una sirena di nome Partenope (in greco antico significa “vergine”), delusa per non essere riuscita ad ammaliare Ulisse con il proprio canto. L’eroe omerico, come sappiamo, si fa legare all’albero maestro della sua nave per non cedere alle lusinghe di quel richiamo. Partenope si lascia morire in un luogo della costa tirrenica che, in onore alla sua sofferenza, ne avrebbe poi preso il nome. Napoli è dunque battezzata dal triste canto di una sirena, e da allora la musica non l’ha più abbandonata.
“I napoletani non sono né greci, né oschi, né romani: sono dèi che per vivere sulla terra si sono fatti come sono”
PAOLO MONELLI
Al di là della leggenda, che continua nel tempo a eleggere la città partenopea come sede delle esibizioni dell’imperatore Nerone, o di Petronio, il cui Satyricon sembra sia stato ambientato proprio lì, i prodromi della canzone napoletana vanno ricercati in tempi meno remoti: i documenti trovati dagli studiosi la fanno risalire al XII-XIII secolo, quando a Napoli regna Federico II, mecenate sensibile nei confronti della cultura. Sotto di lui fiorisce la scuola siciliana, la prima forma di letteratura italiana, in grado di integrare molti aspetti della precedente dominazione araba in Sicilia e di prendere una propria direzione sempre più decisa. Quasi certamente le prime poesie d’amore vengono recitate in forma cantata con l’accompagnamento di uno strumento musicale e, possiamo immaginare, interpretate sotto la finestra dell’amata o in chissà quale altro posto magari più compromettente. Il famoso Cielo d’Alcamo, o Ciullo d’Alcamo, come sarebbe più corretto dire, che tutti abbiamo studiato a scuola, con buona probabilità non fa difetto con la sua Rosa fresca aulentissima.
Nel 1224 Federico II istituisce a Napoli l’università che eguaglierà presto i fasti di quelle già esistenti a Pavia, Bologna e Padova. Il sovrano vuole che siano affittati agli studenti i migliori alloggi della città, e che sia creata una struttura in grado di procurare loro i libri necessari e di provvedere a eventuali prestiti o a qualsiasi altra necessità.
È in questa epoca di straordinaria apertura nei confronti della cultura che viene scritta la prima canzone napoletana che ci sia pervenuta: Jesce sole, o meglio l’unico frammento di quel canto intonato coralmente dalle lavandaie del Vomero che si recano ai ruscelli delle campagne per lavare i panni dei “signori”. L’origine della composizione, anche se non se ne conosce l’autore, è chiaramente di matrice popolare ed è facile cogliere nel testo, oltre all’invocazione al sole perché asciughi velocemente i panni, anche una sorta di rito propiziatorio pagano finalizzato a godersi l’esistenza (il che spiega molto bene il clima di libertà religiosa vissuta dai napoletani al tempo del re svevo).
Jesce sole, jesce sole
Nun te fa’ cchiù suspirà
Siente maie ca le ffigliole
Hanno tanto da prià?
Esci o sole, esci o sole
Non ti far più sospirare
Hai mai sentito che le figliole
Ti debbano pregare tanto?
Difficile dire se testo e musica di Jesce sole appartengano allo stesso autore o a persone diverse. Non manca nemmeno qualche illazione che l’attribuisca allo stesso Federico II, ipotesi che però gli studiosi tendono scartare.
A farla da padrone è il dialetto napoletano, che proprio nel XIII secolo comincia a codificarsi affrancandosi definitivamente dal latino che fino ad allora è stato la lingua ufficiale. I dialetti peraltro iniziano a imporsi anche in tutto il resto d’Italia, compreso il fiorentino, che fungerà poi da base della formulazione della lingua italiana.
La canzone napoletana in quegli anni comincia a imporsi sempre con maggiore vigore, tanto che i giovani napoletani si dilettano a cantare fino a tarda notte, creando disturbo tra la gente che dorme. È a questo proposito che Federico II si trova costretto a promulgare, anche se con poco successo, un decreto che vieta le cosiddette “mattinate”. Non si ha una grande documentazione di cosa canti esattamente il popolo napoletano, ma, da ciò che abbiamo a disposizione, emergono tematiche amorose, sociali e anche di rivendicazione. Ne è un esempio Muccaturo, un canto sempre attribuito alle lavandaie del Vomero:
“Nessuno è mai riuscito a governare Napoli”
FERNAND BRAUDEL
Me prumettiste quatto muccatora
Io so’ venuto si me li vuò dare
Si nun zò quattro e tu dammenne doie
Quanto m’annetto sti lacreme amare?
Mi avevate promesso quattro fazzoletti di terra
Sono venuto a vedere se me li date
Se non quattro, datemene almeno due
Quanto tempo ci vuole per asciugare
queste lacrime amare?
La richiesta delle terre è fatta direttamente al re Federico, che le ha promesse perché un solo “muccaturo” non basta per vivere. La condizione di miseria viene sottolineata dalle “lacrime amare”.
LA TRISTE STORIA DELLA REGINA ISABELLA DI LORENA
La regina Giovanna II nel 1434, ormai anziana e senza eredi diretti, indicò come successore del Regno di Napoli Renato D’Angiò, che si trovava allora prigioniero dei borgognoni per avere invano difeso il Ducato di Lorena, legittimamente suo in virtù del matrimonio con Isabella figlia del defunto duca Carlo II. Fu allora che la stessa Isabella (1400-1453) si recò a Napoli per assumere il titolo di regina e per governare con equità e giustizia fino al 1443, anno in cui venne scalzata da Alfonso d’Aragona. Isabella fu una sovrana molto amata dal popolo, tanto da essere rappresentata in varie commedie popolari e canzoni come quella che narra della sua disperazione per dovere rinunciare ai suoi possedimenti di Puglia e Basilicata. Re Alfonso ebbe però grande rispetto per lei e la fece riportare in Provenza, ossia in un ambiente culturale e artistico molto simile a quella che lei stessa aveva saputo promuovere a Napoli. Isabella passò gli ultimi dieci anni della sua esistenza in mezzo a poeti, pittori e musicisti che le fecero rivivere canti e balli popolari simili a quelli di cui poteva godere quando era regina.
Il Regno di Sicilia ha termine nel 1266, quando Carlo I d’Angiò sconfigge Manfredi, figlio illegittimo di Federico II e Bianca Lancia, e instaura la dominazione angioina prima sul Regno di Sicilia e poi, in seguito ai Vespri Siciliani, solo sul Regno di Napoli. Le notizie sul canto popolare dell’e...