Rita Levi Montalcini
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Rita Levi Montalcini

L'irresistibile fascino del cervello

Enrica Battifoglia

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Rita Levi Montalcini

L'irresistibile fascino del cervello

Enrica Battifoglia

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Dai tempi del laboratorio in camera da letto, dove da giovane era costretta a lavorare per le leggi razziali, gli ostacoli non erano mai stati un problema per Rita Levi Montalcini. Così come non le è mai mancata la determinazione a seguire la sua passione per il più complesso degli organi, il cervello, tanto da sospingerla ad affrontare esperimenti noiosissimi nella fucina di Nobel dell'anatomista Giuseppe Levi. Con la stessa tenacia, la Montalcini ha dedicato la sua lunghissima vita alla scoperta che le ha fruttato il Nobel per la Medicina nel 1986, ossia quella che definì 'una molecola meravigliosa', il fattore di crescita delle cellule nervose (NGF). Si tratta di una scoperta dalle mille implicazioni, dal momento che interessa lo sviluppo del sistema nervoso come quello endocrino e immunitario, ed è perfino in grado di far luce su fenomeni da sempre sfuggiti a ogni formula biochimica, come per esempio l'innamoramento.

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Information

Publisher
Hoepli
Year
2018
ISBN
9788820385064
Capitolo 1
LA RITA NON SA DARE UN BACIO
No, decisamente non l’aveva immaginato così, ma nonostante tutto non avrebbe potuto sperare in niente di meglio. Lavorare in un laboratorio era diventato soltanto da poco il suo sogno e forse, se le cose fossero andate diversamente, avrebbe studiato filosofia. Chissà. Difficile dirlo quando non si è completamente liberi di scegliere.
Rita era contenta di essere lì, e questo era un dato di fatto. Era la primavera del 1932, ma il laboratorio dell’Istituto di anatomia dell’Università di Torino era ancora decisamente freddo, sebbene non gelido come la biblioteca, dove il suo professore faceva tenere la temperatura sui dodici gradi per scoraggiare gli “sfaticati” e gli “impiastri.” Il suo professore si chiamava Giuseppe Levi e non aveva il carattere migliore del mondo. Lo temevano tutti, le timide matricole e i “fagioli”, come venivano chiamati gli studenti del secondo anno. I suoi scatti di collera e il suo linguaggio senza mezzi termini sono probabilmente rimasti scolpiti nella memoria di ogni suo allievo. Le parole “somaro”, “imbecille” e “impiastro” le usava così di frequente da non considerarle nemmeno offensive. Erano solo un modo con cui esprimeva la sua disapprovazione, probabilmente animato dagli stessi sentimenti che in famiglia lo portavano a urlare “Non fate malagrazie!” se i suoi figli combinavano qualche pasticcio a tavola, e ancora “Non fate sbrodeghezzi!”, “Non fate potacci!”. Sua figlia, Natalia Ginzburg, ne dà un ritratto vivacissimo in Lessico famigliare, descrivendo i suoi urlacci, “tonanti” quanto le sue risate. Era un uomo imponente e intimidiva chi gli stava accanto, anche se i suoi folti capelli rossi gli avevano fatto guadagnare tra gli studenti il nomignolo di LeviPom, dove “Pom” stava per “pomodoro.” Era temuto, indubbiamente, ma il sentimento che prevaleva era un grande rispetto per la sua competenza e il suo valore scientifico. Molti anni più tardi, Rita Levi Montalcini dirà di lui: “Aveva per la ricerca un rispetto morale, che mi auspico di trovare anche negli scienziati di oggi.”
Figura 1.1 – Il cortile dell’Università di Torino. Fonte: Franco56, Wikipedia.
Nato a Trieste nel 1872, Giuseppe Levi si era laureato in biologia nel 1895 a Firenze, dove la sua famiglia si era trasferita dopo la morte del padre. In questo periodo aveva cominciato a studiare le cellule nervose, mettendo a confronto la loro forma, la loro organizzazione e le proprietà biologiche in specie diverse. Era un tema nuovo e avvincente, che sapeva di futuro e nel quale Giuseppe Levi era destinato a diventare un’autorità. Dopo un breve periodo in Germania, nell’Istituto di anatomia dell’Università di Berlino, nel 1900 era tornato a Firenze come assistente dell’anatomista ed embriologo Giulio Chiarugi. Nove anni più tardi era stato incaricato dell’insegnamento di anatomia umana normale presso l’Università di Sassari, dove era rimasto fino al 1914, per poi trasferirsi all’Università di Palermo. Con l’inizio della Grande Guerra si era arruolato volontario e aveva combattuto sul Carso come maggiore medico, prima di arrivare a Torino nel 1919 come direttore dell’Istituto di anatomia. Era un pioniere nelle colture in vitro dei tessuti, così come nelle ricerche sullo sviluppo embrionale e sulla plasticità delle cellule nervose: si trattava di ricerche davvero all’avanguardia, considerando i pochi strumenti, quasi artigianali, che fino ad allora erano stati disponibili per studiare la forma e il comportamento di oggetti minuscoli come le cellule.
All’epoca, scriverà Rita Levi Montalcini, “l’istologia era un’arte più che una scienza, poiché non si disponeva delle tecniche altamente elaborate di oggi”. Basti pensare che il microscopio elettronico era stato inventato soltanto nel 1931 e che allora questo strumento rivoluzionario non era che un prototipo. Il primo microscopio elettronico sarebbe entrato in commercio e nei laboratori soltanto nel 1938. Tuttavia, con gli strumenti che aveva a disposizione, Giuseppe Levi era riuscito a raggiungere risultati davvero notevoli: aveva studiato le strutture delle cellule esterne al nucleo che funzionano come centraline energetiche, i mitocondri, aveva osservato i cambiamenti che avvengono nei tessuti quando invecchiano e, soprattutto, non aveva mai smesso di dedicarsi all’analisi comparata delle cellule nervose. Proprio queste ultime ricerche lo avevano portato a stabilire, con una legge che porta il suo nome, che il numero delle cellule nervose è analogo in tutti i mammiferi, mentre la loro dimensione varia al variare delle dimensioni dell’animale.
Fu nel bel mezzo di questi studi che il “maestro”, come lo chiamavano i suoi studenti, assegnò a una delle sue studentesse più giovani, Rita, il compito di determinare se le cellule nervose fossero presenti nello stesso numero e con una distribuzione analoga nei vertebrati, a partire dai topi. In particolare, si trattava di controllare se il numero dei gangli nervosi, che si aggirava fra diecimila e ventimila, fosse uguale o meno nella stessa nidiata e in nidiate diverse.
Per questo, con gli occhi fissi al microscopio, Rita continuava a osservare il midollo spinale degli embrioni di topo per contare, sui lati, quelle innumerevoli e minuscole protuberanze ovali che erano i gangli nervosi. Doveva contarli a uno a uno… ma con quali garanzie di precisione? Come verificare che il numero fosse corretto e che, in un momento di stanchezza, gli occhi non le avessero giocato uno scherzo? Nessuno avrebbe potuto controllare, se non a patto di ricominciare da zero quel lavoro “tediosissimo” e alienante.
Un lavoro inutile, per molti suoi compagni di corso, che ammettevano senza problemi di inventare i numeri di sana pianta: una sincerità che stupiva Rita. Lei i gangli nervosi li contava davvero, anche se con la consapevolezza che il suo conteggio non avrebbe mai potuto avere la precisione necessaria. Per sua cugina Eugenia era la stessa cosa: come Rita, contava e ricontava e, per fortuna, nulla al mondo le avrebbe tolto la voglia di sorridere. Eugenia accolse con un bellissimo sorriso spigliato anche un ex studente di Levi, passato a Torino per salutare il suo “maestro”, quando questi si avvicinò a lei e a Rita sussurrando: “Terminata questa ricerca potreste iniziarne un’altra non meno interessante di quella che state portando avanti. Potreste, con l’aiuto di una scala, contare tutte le foglie che ci sono sui rami dei due platani di fronte alla finestra e scrivere poi una breve nota con il resoconto dei vostri conteggi del numero delle foglie dell’albero di sinistra e di quello di destra.”
Anni più tardi Rita Levi Montalcini osserverà che l’oggetto di quella ricerca era “molto meno futile” di quanto molti ritenessero. L’obiettivo del suo “maestro” era capire se a determinare la quantità dei gangli nervosi fosse la genetica oppure l’ambiente. Un obiettivo altamente ambizioso, che probabilmente precorreva i tempi e di sicuro era troppo avanzato rispetto agli strumenti dei laboratori di allora. “Le tecniche di cui disponevamo erano troppo primitive” dirà mezzo secolo più tardi, ma nel 1932 Rita era una ragazza di soli ventitré anni che stava realizzando il suo sogno e che vedeva in quel lavoro impossibile una nuova sfida da accogliere. Nonostante tutto, per lei essere lì era un’enorme conquista.
L’iscrizione all’università, per di più in una facoltà come quella di Medicina, quasi mai scelta dal sesso femminile, se l’era guadagnata duramente sfidando la sua famiglia “vittoriana”, come la definirà in futuro, nella quale le donne avevano un unico destino possibile: diventare mogli devote e madri premurose, magari colte e appassionate di arti, ma niente di più. Soprattutto, secondo la sua famiglia, mai e poi mai le donne avrebbero potuto intraprendere un lavoro maschile come la carriera medica né, peggio ancora, la ricerca scientifica. Nonostante questo, nella sua casa di Torino, in corso Vittorio Emanuele, regnava quella che Rita definiva “una meravigliosa atmosfera di famiglia, piena di amore e dedizione reciproca” e ricca anche di un grande amore per la cultura. Tuttavia, quando si trattava di prendere decisioni la parola spettava al padre in quanto capofamiglia. Suo padre si chiamava Adamo Levi.
Nella sua autobiografia, scritta nel 1986 in occasione della cerimonia di consegna del premio Nobel per la medicina, Rita lo descriverà come “un ingegnere elettrotecnico e un abile matematico”. Un ritratto necessariamente sintetico, forse un po’ asettico rispetto a quello che nella stessa occasione aveva fornito della madre, “una pittrice di talento e una persona splendida”. Di lei Rita Levi Montalcini conserverà sempre un ricordo dolcissimo, come dei suoi baci e dei suoi sorrisi. Rita è sempre stata molto affezionata a tutta la sua famiglia, anche nei lunghi anni in cui lavorò oltreoceano. Era molto legata al fratello Gino, di sette anni più grande e diventato “uno dei più noti architetti italiani”: uno dei ricordi più vivi di lui è l’odore della plastilina che modellava da bambino e che pervadeva la casa. Così come era legata alla sorella Anna, Nina per la famiglia, di cinque anni più grande. Nina amava leggere ed era un’appassionata dei libri di Selma Lagerlöf, la scrittrice svedese che nel 1909 fu la prima donna a vincere il Nobel per la letteratura: il suo entusiasmo, racconterà Rita molti anni più tardi, “era contagioso al punto che avevo deciso di diventare una scrittrice e di raccontare una saga italiana à la Lagerlöf”. Tuttavia, poi le cose avrebbero preso una direzione diversa. Rita era legatissima anche a Paola, la sua gemella, appassionata di pittura e scultura. Erano nate il 22 aprile 1909 ed erano le più piccole della famiglia. Di lei parlerà sempre con grande affetto: la considerava “la persona più eccezionale” che avesse mai conosciuto. Con lei condivise per molti anni la casa romana di via di Villa Massimo, con la bella terrazza il cui pavimento era stato decorato dai mosaici disegnati da Paola. “È stata davvero una grande artista” dirà Rita molti anni dopo averla perduta “e una donna dalle grandi capacità non solo intellettuali, ma anche umane. L’ho sempre adorata, dal giorno in cui siamo nate fino a quando il suo polso si è fermato sotto la mia mano, il 29 settembre 2000.”
Il legame che le aveva sempre unite era fortissimo e profondo, proprio per questo talvolta difficile da afferrare in pieno. Eppure, erano senza dubbio molto diverse: “Mia sorella” raccontava Rita Levi Montalcini, ormai avanti negli anni “era molto legata a mio padre. Io invece più a mia madre. Con lei il legame era meraviglioso.” D’altro canto, la propensione di Paola per l’arte non le aveva mai procurato conflitti in famiglia ed era bene accetta al padre. Per Rita, invece, le cose non erano altrettanto semplici: ciò che la legava a lui era un rapporto tanto profondo quanto tormentato. Fin da bambina qualcosa aveva disturbato anche le manifestazioni di affetto più semplici e spontanee; i baffi foltissimi di cui Adamo Levi andava fiero, per esempio, la infastidivano terribilmente. Se in futuro vedrà nei baffi un modo per “mettere in risalto i caratteri sessuali secondari” allo scopo di “sottolineare la differenza dei ruoli” maschile e femminile, da bambina provava una “repulsione” profonda, al punto che ogni volta che suo padre la prendeva sulle ginocchia o quando era il momento della buonanotte lei voltava la testa e spediva il suo bacio in aria. Adamo Levi era costretto ad arrendersi quasi subito: non c’era niente da fare e, con “marcato disappunto”, finiva col ripetere: “La Rita non sa dare un bacio. Preferisce baciare l’aria invece che suo padre”, una frase rimasta scolpita nella memoria della bambina e che probabilmente le lasciò un misto di amarezza e rammarico. Tuttavia, lei era fatta così e fin dai primissimi anni della sua vita era stata insofferente a qualsiasi cosa percepisse come un ostacolo alla realizzazione delle sue aspirazioni.
Figura 1.2 – Neuroni. Fonte: Pixabay.
“Sono stata una bambina molto infelice perché la mia famiglia era autoritaria” racconterà molto tempo dopo in un’intervista. Della sua infanzia ricordava le angosce che nascevano dalla sua grande timidezza, dalla sfiducia in se stessa e dalle tante paure, da quella dei mostri che avrebbero potuto saltare fuori dal buio a quella degli adulti in generale e di suo padre in particolare. Se è vero che era timida e schiva, è altrettanto vero che era determinata: lei stessa confesserà che fin da quando era molto piccola non vedeva di buon occhio il matrimonio, tanto che all’età di nove anni aveva dichiarato apertamente di non essere interessata a un futuro da buona moglie o madre, ossia al futuro che il padre avrebbe voluto per lei. Era un solco, quello che la divideva da lui, che di anno in anno sarebbe diventato sempre più profondo. “Non sono potuta andare alle scuole superiori, ma ho studiato da sola. Era una cosa che non sopportavo e che mi rendeva molto infelice” dirà più tardi. “Alla mia scelta di voler studiare mio padre obiettava che per una donna non era necessario essere un professore, ma io mi sono opposta, volevo essere libera nella mia scelta.” Per tre anni aveva sperato nel permesso del padre a iscriversi all’università, ma inutilmente. Soltanto un grande dolore le aveva dato la forza di ribellarsi e andare avanti.
La doccia fredda era arrivata insieme a una lettera del medico di famiglia, scritta dopo avere visitato la governante Giovanna, da giorni sempre più pallida e senza forze: “Giovanna Buatto, da me visitata, presenta tutti i sintomi di una grave malattia. Temo si tratti di cancro allo stomaco. È urgente il suo ricovero in ospedale.” Figlia di contadini, Giovanna aveva lasciato Rivarossa, il paesetto non lontano da Torino dove abitava con la sua famiglia, quando era ancora molto giovane. Se ne era andata per sfuggire al padre “duro e manesco” e aveva cominciato a lavorare a casa Levi Montalcini prima della nascita di Rita e Paola. All’epoca della lettera del medico, Giovanna aveva quarantacinque anni.
Dopo tanto tempo e grazie al suo carattere dolce, Giovanna era diventata uno degli “angeli” dell’infanzia di Rita, insieme alla mamma e alla zia Anna. Per Rita la notizia della malattia era insopportabile e lo era ancora di più non potere fare nulla per salvarla. Così decise che avrebbe studiato medicina e che sarebbe riuscita a convincere suo padre e ad avere la sua autorizzazione. Lo dichiarò prima di tutto alla mamma, che la spinse a parlare con lui. Quando Rita affrontò l’argomento, Adamo Levi non si oppose: “Se questo è veramente il tuo desiderio non te lo impedisco, anche se ho molti dubbi sulla tua scelta” fu la sua risposta. All’inizio dell’autunno del 1930 Rita era pronta per entrare nel “lugubre e solenne” anfiteatro dell’Istituto di anatomia di Corso Massimo D’Azeglio e nel novembre dello stesso anno Giovanna se ne andava.
La vita di Rita cambiò radicalmente, con le lezioni da seguire, le nuove amicizie, le esercitazioni in laboratorio e gli insegnamenti del suo “maestro” Giuseppe Levi. Due anni dopo il suo ingresso all’università, a tenerla tante ore china sul microscopio era l’istologia, la disciplina che studia i tessuti, analizzandone e descrivendone le caratteristiche sia nelle condizioni naturali sia in quelle alterate dalla malattia. Era stata la possibilità di fare questi confronti a rendere l’istologia una disciplina importante per la medicina come per l’embriologia: era la chiave per studiare tutte le trasformazioni che avvengono durante lo sviluppo di un individuo e che, nella vita embrionale, gettano le basi delle sue caratteristiche al momento della nascita e nella vita adulta. Studiare i tessuti significava osservarli al microscopio, come Rita faceva con il tessuto nervoso degli embrioni di topo, preparandoli sulla base di precise “ricette” che gli studenti si scambiavano volentieri. Preparare un tessuto significava trattarlo in modo da conservare inalterata la sua struttura e poi sezionarlo in sottilissime fettine, che venivano colorate e posizionate sui vetrini per osservarle al microscopio. Tutto ciò non era per niente facile: le tecniche ancora rudimentali di quel periodo dipendevano molto dall’abilità manuale dei ricercatori. Per questo, scriverà Rita Levi Montalcini, “l’istologia era un’arte più che una scienza”. Per lo stesso motivo i preparati degli studenti più giovani, come lei, molto spesso venivano bollati impietosamente come “pasticci”. Probabilmente Rita portò con sé per molto tempo questo spirito di artigiana della ricerca, anche quando lavorò nei laboratori più all’avanguardia.
L’istologia
L’istologia (il cui nome deriva dai termini greci histos, “tessuto”, e logos, “conoscenza”) è la disciplina che studia i tessuti e ne descrive le caratteristiche a livello microscopico. Per questo motivo il suo sviluppo è andato avanti di pari passo con quello del microscopio, la cui invenzione risale al periodo compreso fra la fine del XVI secolo e l’inizio del XVII. Un passo fondamentale era avvenuto nel 1673, quando il commerciante di tessuti olandese Antoni van Leeuwenhoek (1632-1723) aveva perfezionato la tecnica di costruzione delle lenti per poter esaminare al meglio la qualità della merce che acquistava. Le sue erano le lenti più potenti mai costruite e, delle cinquecento che aveva fabbricato nella sua vita, almeno venticinque erano dedicate ai microscopi. Erano state sue le prime descrizioni degli insetti, così come quelle degli anfibi e poi del corpo umano, in particolare delle arterie e delle vene. Il suo più grande merito è stato quello di avere aperto la strada a sviluppi fondamentali, come l’opera Micrographia, pubblicata nel gennaio 1665 dall’inglese Robert Hooke (1635-1703), uno dei grandi “filosofi della natura” del XVII secolo. I...

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