Storia del Punk
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Storia del Punk

Stefano Gilardino

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Storia del Punk

Stefano Gilardino

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LA GRANDE STORIA DEL PUNK, DALLE ORIGINI ALLO SCOPPIO DEL 1976, FINO ALLE ULTIME EVOLUZIONI STILISTICHE DEGLI ANNI DUEMILA."Nessun futuro" cantava Johnny Rotten mentre i Clash rispondevano a tono con "No a Elvis, no ai Beatles e ai Rolling Stones". Il 1976 è stato l'anno zero della storia del rock, quello in cui la musica è ripartita da capo, con nuove energie e influenze inedite. Il punk rock, al contrario del suo slogan più celebre – nessun futuro, appunto –, ha dimostrato invece di averne uno molto brillante e non solo in campo musicale.Memore delle proprie radici, quelle di Stooges, Velvet Underground, New York Dolls e MC5, il punk ha cambiato il corso della storia con i Sex Pistols e i Clash nel Regno Unito e con i Ramones negli Stati Uniti, prima di evolversi in decine di sottogeneri altrettanto rivoluzionari come hardcore, post-punk, emo, metalcore, ecc.Concepito a immagine e somiglianza de La storia del rock (con grandi sezioni e capitoli specifici arricchiti da box con curiosità, citazioni, analisi dei brani, luoghi cult, discografie e un'ampia sezione conclusiva dedicata alla scena italiana), il libro è un "must" per ogni appassionato di musica.

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Information

Publisher
Hoepli
Year
2017
ISBN
9788820381677
02
WHITE RIOT
IL SOGNO INGLESE
L’esplosione del punk nel Regno Unito
“Ho sempre detto che non era importante avere una cresta da moicano o indossare una t-shirt strappata. A me interessava il potenziale creativo insito nella distruzione”
— MALCOLM MCLAREN
Un segreto ben custodito diventa di dominio pubblico nel giro di una giornata, quella in cui i Sex Pistols dicono qualche parola di troppo in televisione.
Il mondo si accorge del punk nel dicembre del 1976.
“Non credo che il punk possa morire, perché si tratta di attitudine e non di musica”
BILLY IDOL
È nato prima negli Stati Uniti o nel Regno Unito? Domanda tendenziosa, ma quasi inevitabile, capace di accendere dibattiti tra chi vede nei Ramones il primo vero gruppo punk e chi invece ribatte coi Sex Pistols. Francamente, poco ce ne importa, perché le due storie, pur correndo parallele e intersecandosi spesso e volentieri grazie a dischi, tour, collaborazioni o semplici influenze reciproche, sono diverse e appassionanti allo stesso modo. Anticipato dal movimento glam e dalle decine di band pub rock che rappresentano il ritorno a un’energia primitiva e autenticamente rock’n’roll, il punk si espande a macchia d’olio grazie all’esempio di Rotten e soci, immediatamente seguiti da decine di giovani musicisti in erba, stufi delle atmosfere barocche del prog e disillusi da un contesto sociale che non offre alternative alla disoccupazione e alla povertà. Il “No Future” urlato dai Sex Pistols è una chiamata alle armi collettiva, così come l’incitazione alla “rivolta bianca” dei Clash, e fomenta un movimento che, invece che effimera moda, si rivelerà rivoluzione in ogni campo artistico e non solo in quello musicale. È un concetto abusato, ma questa volta, per davvero, nulla sarà più lo stesso, e il fatto che le scosse di quel terremoto si avvertano ancora a quarant’anni di distanza ne certifica la validità.
UNA SERATA AL PUB
Spesso dimenticato e relegato ai confini della storia, il pub rock è stato il vero precursore del movimento punk inglese, a cui ha donato energia e immediatezza, forma e sostanza. Vediamo come…
Prima di chiedervi quale misterioso collegamento possa unire una band di rozzo rhythm and blues ad altissimo tasso energetico all’irruenza del punk, alla Londra tutta anarchia, caos e distruzione, fate un salto su YouTube e cercate un video dei Dr. Feelgood. Non uno a caso, anche se già potrebbe bastare, ma quello che li immortala nel 1975 al Kursaal di Southend-On-Sea, un pub appunto, mentre eseguono una versione incredibile di Going Back Home, uno dei loro cavalli di battaglia. Osservate bene la foga con cui i quattro suonano, con un Wilko Johnson in botta da amfetamina alla chitarra e una sezione ritmica devastante. A guidarli, il cantante Lee Brilleaux, inguainato in un lercio completo bianco, sudato e paonazzo, pronto ad aizzare il pubblico e deciso a non perdere un beat con la sua armonica a bocca. A ben vedere, molto di ciò che sarebbe successo di lì a poco è racchiuso in quell’esibizione, in quella furia, in un’incredibile voglia di suonare a dispetto di tutto. Il passaggio dal pub alle prime pagine dei giornali, di musica e non, è appena dietro l’angolo.
Non deve essere facile crescere in un posto come Canvey Island, cittadina della contea dell’Essex situata nell’estuario del Tamigi e separata dalla costa da una serie di fiumi. Un’isola vera e propria, spesso devastata da incredibili alluvioni e mareggiate, con un panorama dominato da una raffineria di petrolio, poi chiusa in maniera definitiva nel 1975. Wilko Johnson, Lee Brilleaux (nato Lee John Collinson) e la sezione ritmica composta dal bassista John Sparks, detto Sparko, e dal batterista John Martin – conosciuto come The Big Figure – decidono di mettere in piedi un formazione di rhythm and blues e di chiamarsi Dr. Feelgood, omaggio a una canzone del pianista Willie Perryman. Che i quattro siano una band fuori dal comune è chiaro fin da subito, grazie alle prime serate dal vivo, in cui si percepisce la presenza scenica dei due leader, Brilleaux, cantante e poderoso armonicista, e Johnson, chitarrista talentuoso capace di suonare in contemporanea su una Fender Telecaster le parti ritmiche e soliste, come il suo idolo Mick Green di Johnny Kid & The Pirates, da cui ha mutuato lo stile. Dopo aver macinato migliaia di chilometri su un furgone scassato per esibirsi in ogni maledetto pub del Paese, i Dr. Feelgood riescono finalmente a spuntare un contratto discografico con la United Artists, interessata all’originale formula del quartetto, capace di donare una linfa particolare a un suono che non sembra avere più nessun appeal verso un pubblico giovane e affamato di novità. Al contrario della tecnica e della prolissità del prog, il pub rock – termine chiaramente spregiativo, tocca ricordarlo – riporta una ventata di eccitazione in un genere musicale diventato serioso. Su quei piccoli palchi di locali fumosi e ad altissimo tasso alcolico si azzerano le distanze col pubblico, si mette da parte l’abilità tecnica preferendo l’immediatezza della proposta sonora. Seppur senza grandi riscontri commerciali e nonostante cachet da fame, il circuito si anima di band come Count Bishops, Kilburn & The High Roads, Brinsley Schwarz e altri di cui parleremo tra poco, degni compagni di bevute dei Dr. Feelgood. I nostri arrivano al debutto sulla lunga distanza nel 1975, con lo scarno Down By The Jetty: dietro a una foto di copertina memorabile, scattata all’alba al ritorno da una data e che mostra i quattro musicisti in evidente stato confusionale, si cela una gemma di amfetaminico r’n’b, ricco di classici originali come Roxette, She Does It Right e Twenty Yards Behind, tutti opera di Johnson, o di omaggi al passato come Boom Boom di John Lee Hooker o Bony Moronie.
“Wilko Johnson non è famoso come altri chitarristi, ma io lo metto nella categoria dei migliori”
PAUL WELLER
L’album prende di sorpresa un po’ tutti, compresi i giovani virgulti della scena punk – che non si faranno problemi a elogiarlo pubblicamente. Paul Weller ammetterà a più riprese il proprio amore per i Feelgood, così come Jean-Jacques Burnel, bassista degli Stranglers, che finirà addirittura per diventare il coinquilino di Wilko. Dopo un secondo album, sempre del 1975 (Malpractice, leggermente meno riuscito), arriverà il vero momento di gloria dei quattro, ovvero il live Stupidity, pubblicato a settembre dell’anno successivo e destinato a un meritato, quanto improbabile, numero uno in classifica. È la consacrazione definitiva del talento della band, ma anche l’inizio della fine della classica line-up che resisterà giusto il tempo di un quarto disco, Sneakin’ Suspicion, prima che le divergenze artistiche e personali tra Wilco e Lee decretino la fuoriuscita del chitarrista. Difficile far convivere uno speed freak in perenne movimento con un bevitore professionista, specie quando a complicare tutto ci pensano successo, fama e pressione. Della separazione non beneficerà nessuno: il chitarrista continuerà una carriera dignitosa con i Blockheads di Ian Dury, prima, e poi come solista di culto, fino al recente album con Roger Daltrey degli Who e la sua vittoriosa battaglia contro un tumore. I Dr. Feelgood continueranno tra alti e bassi, con frequenti cambi di formazione fino alla morte di Lee Brilleaux nel 1994, a soli 41 anni.
OIL CITY CONFIDENTIAL
Troppo cinematografica per non attirare l’attenzione di qualcuno: stiamo parlando della vicenda umana e artistica dei Dr. Feelgood, eroi di Canvey Island. A raccontarla, per nostra fortuna, ci ha pensato un regista che con il punk e certe storie ha una particolare affinità, Julien Temple. Dopo aver raccontato le vite di Sex Pistols e Clash tra gli altri, Temple è riuscito a scovare una giusta chiave di lettura anche per i Dr. Feelgood, firmando con Oil City Confidential l’ennesimo miracolo cinematografico della sua carriera. Tra esibizioni dell’epoca, interviste inedite e tributi toccanti all’amico scomparso, il film è una visione obbligatoria per chiunque sia appassionato di Wilko e compagni.
Se la storia ci insegna che la parabola del quartetto di Canvey Island è forse la più fulgida del pub rock, non bisogna, però, dimenticare il sudore versato e l’energia trasmessa da decine di altri musicisti che hanno traghettato il rock degli anni Settanta verso il nascente movimento punk, finendo per diventarne parte (in un modo particolare e con le dovute riserve), come nel caso di Eddie & The Hot Rods, Ian Dury, Nick Lowe o Count Bishops. Incredibile a dirsi, ma pure gli Hot Rods provengono da Canvey Island e, ovviamente, condividono agli inizi il palco con Lee e soci, prima di percorrere una strada parallela che li condurrà a Londra, destinazione Marquee, leggendario locale di Soho in cui diventeranno un’attrazione di casa, registrando lì l’EP omonimo del 1976. Il successo arriverà con il bellissimo debutto a 33 giri, Teenage Depression, un lavoro che non è difficile trovare nelle liste dei migliori dischi punk del 1977, grazie a un sound energico, a una manciata di pezzi azzeccati – se non è punk la depressione adolescenziale, cos’altro lo è? – e, è giusto ricordarlo, alla congiuntura favorevole. Ci sarà tempo per un singolo da alta classifica, Do Anything You Wanna Do, un classico istantaneo e un buon secondo album, Life On The Line, prima di un inevitabile declino che porterà gli Hot Rods a un continuo cambio di formazione e a una carriera di basso profilo che procede tuttora con il solo cantante Barrie Masters degli originali. Parabola breve, ma intensissima, altra caratteristica punk che ce li rende particolarmente cari, allo stesso modo del personaggio di cui parleremo tra poco, Ian Dury, la cui interessante vicenda artistica solista viene approfondita in misura maggiore nel box a lui dedicato. Qui preme ricordare la sua prima band, una delle migliori del circuito dei pub, Kilburn & The High Roads, formata nel 1971. Due soli album all’attivo, Handsome del 1975 e Wotabunch! di due anni successivo, ma una gavetta infinita in ogni sorta di locale, palestra di esercitazione per il dispotico cantante, destinato al successo poco dopo assieme alla sua band di accompagnamento, i gloriosi Blockheads, in cui militeranno personaggi di spicco come Norman Watt-Roy (chi si ricorda che su molti dei brani di Sandinista! dei Clash il basso è proprio il suo?), Chaz Jankel, Mickey Gallagher (anche lui legato a filo doppio alla band di White Riot) e Charlie Charles.
SPASTICUS AUTISTICUS
Non è stata una vita facile quella di Ian Dury, tormentato da una poliomielite contratta a sette anni che l’ha reso fisicamente menomato, ma capace di superare la malattia e di reinventarsi come uno dei più incredibili e improbabili frontman della storia del rock. Dopo la gavetta con i Kilburn & The High Roads, Dury, finalmente leader in solitaria, si lega alla sua backing band, i Blockheads, con cui avvia una lunga collaborazione di successo. Scala le classifiche con il singolobomba Sex, Drugs & Rock’n’Roll, bissa con l’album d’esordio New Boots And Panties (in copertina con lui il figlio Baxter, cantante a sua volta) e consolida negli anni una posizione di venerabile della musica rock britannica. Hit strepitose come Sweet Gene Vincent, Hit Me With Your Rhythm Stick, Billericay Dickie e la polemica, amara e autobiografica Spasticus Autisticus e i suoi testi letterari e taglienti lo iscrivono alla stessa categoria di notabili di talento come Ray Davies, Elvis Costello (con cui divide palco, etichetta, la Stiff, e un memorabile tour collettivo in compagnia di Wreckless Eric, Larry Wallis e Nick Lowe) Paul Weller o Billy Bragg. Una malattia incurabile se lo porta via nel 2000, lasciando orfani i suoi amati Blockhead, che lo omaggiano con un concerto in piena regola al crematorio di Golders Green per i pochi intimi presenti. Nel 2010, la sua vita è diventata il soggetto di un biopic intitolato, ovviamente, Sex & Drugs & Rock’n’Roll.
“Quando Ian Dury scoprì di non poter essere bravo come Rembrandt, smise di fare il pittore, ma la decisione maturò anche quando si rese conto che i musicisti rimorchiavano molto di più”
CHAZ JANKEL (BLOCKHEADS)
Dr. Feelgood, Eddie & The Hot Rods, Kilburn & The High Roads sono quindi le storie fondamentali di questo sottogenere (una menzione a parte la meritano i 101’ers di Joe Strummer, di cui si parlerà diffusamente nel capitolo dedicato ai Clash), ma sarebbe ingiusto non citare tutto un contorno artistico che ha comunque una sua...

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