Diciamolo in italiano
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Diciamolo in italiano

Gli abusi dell'inglese nel lessico dell'italia e incolla

Antonio Zoppetti

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Diciamolo in italiano

Gli abusi dell'inglese nel lessico dell'italia e incolla

Antonio Zoppetti

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Nell'era del web e di internet, le parole inglesi si insinuano sempre più nella nostra lingua senza adattamenti e senza alternative.Spesso rendono gli equivalenti italiani obsoleti e inutilizzabili, cambiando e stravolgendo il nostro parlare in ogni settore. La politica è infarcita di tax, jobs act, spending review e di inutili anglicismi che penetrano persino nel linguaggio istituzionale (welfare, privacy, premier) e giuridico (mobbing, stalking) amplifi cati dai mezzi di comunicazione. Il mondo del lavoro è ormai fatto solo di promoter, sales manager e buyer, quello della formazione di master e di tutor, e tutti i giorni dobbiamo fare i conti con il customer care, gli help center o le limited edition delle off erte promozionali. Il risultato è che mancano le parole per dirlo in italiano.Questo saggio, divulgativo ma al tempo stesso rigoroso, fa per la prima volta il punto su quanto è accaduto negli ultimi 30 anni: numeri alla mano, gli anglicismi sono più che raddoppiati, la loro frequenza d'uso è aumentata e stanno penetrando profondamente nel linguaggio comune. Il rischio di parlare l'itanglese è sempre più concreto, soprattutto perché, stando ai principali dizionari, dal 2000 in poi i neologismi sono per quasi la metà inglesi.Finita l'epoca del purismo, la nuova prospettiva è il rapporto tra locale e globale: dobbiamo evitare che l'italiano si contamini e diventi un dialetto d'Europa, dobbiamo difendere il nostro patrimonio linguistico esattamente come proteggiamo l'eccellenza della nostra gastronomia e degli altri prodotti culturali.

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Information

Publisher
Hoepli
Year
2017
ISBN
9788820380434
1
L’INGLESE
PLANETARIO
Globalenglish e itanglese
Italia-Spagna 0 a 2
Italia-Francia 0 a 1
Italia-Germania 0 a 0?
Globalenglish e itanglese
Espansione e contaminazioni
Quel ramo del lago di Como sud coast oriented, tra due catene non-stop di monti tutte curvy, a seconda dell’up-down di quelli, divien quasi a un tratto small-size e a prender un look da fiume, tra un promontorio a destra, e un’ampia costiera overside; e il ponte, che ivi linka le due rive, par che renda ancor più friendly all’occhio questo effetto double face, e segni lo stop del lago e il restart dell’Adda, fino al remake del lago dove le rive, sempre più extralarge, lascian lo spread dell’acqua rallentarsi in un relax di nuovi golfi curvy.”
Dopo aver sporcato i panni nel Tamigi, ecco il famoso incipit de L’Innominato Wedding Planner for Renzo & Lucia, by Alex A. Manzoni, nella traduzione in itanglese che sto scrivendo per meglio rendere comprensibile alle nuove generazioni un testo ormai datato nel suo linguaggio ottocentesco, visto che il globalenglish avanza e si espande in tutto il mondo. Lo so, non è bello cominciare con parolacce del genere un libro che si prefigge di dimostrare che il numero degli anglicismi è insopportabile, e bisognerebbe evitare questo linguaggio che sta compromettendo seriamente il nostro lessico. Prometto di non farlo più. Ma è diventato difficile fare a meno dell’inglese, e soprattutto in certi ambiti è un esercizio di stile che mette a dura prova, come quegli scritti senza la lettera “e”, i lipogrammi di Georges Perec o di Umberto Eco. Persino uno dei linguisti più importanti e popolari, Tullio De Mauro, nel 2010 ammetteva di non saper “come sostituire, ormai, parole come monitor”,1 ma non se preoccupava granché. Forse un anglolatinismo come video, che per lo meno ha un suono italiano e passa inosservato, è troppo ambiguo. O forse termini come schermo o visore sono ormai antiquati.
L’inglese è la lingua planetaria, dicevo, e il suo influsso si osserva in ogni idioma. Parole come bed and breakfast, business, design, fast food, web e altre, dalla A di abstract alla Z di zoom, formano un vocabolario sovranazionale o quasi. Un glossario sempre più ricco che si rintraccia nell’italiano, nel francese, nello spagnolo e nel tedesco. E ovunque, anche nei Paesi meno intaccati del nostro, tutti ricorrono all’inglese e tutti si lamentano e si preoccupano per gli inquinamenti lessicali.
In Francia si parla del franglais almeno dagli anni Sessanta.2 Il termine è formato dalla contrazione di français e anglais, se non si fosse capito. In Germania si biasima il Denglish (alla tedesca Denglisch), ma ci sono molte altre coniazioni di questo stampo,3 in una gara per dare un nome alla “cosa” in cui ognuno si inventa la sua. In Spagna tutto ciò si chiama per lo più spanglish, e negli Stati Uniti non è solo una definizione astratta, scherzosa e sprezzante, ma un fenomeno linguistico reale, con le proprie caratteristiche che sono oggetto di studio e allo stesso tempo di indignazione e allarmismi. Si è diffuso da tempo nelle comunità bilingui tra ispanici, portoricani, messicani e cubani e ha dato vita addirittura alle prime testimonianze letterarie.4 Alcuni personaggi di fama internazionale sono diventati veri e propri punti di riferimento di questo ibridismo, per esempio Jennifer Lopez o Ricky Martin, che in molte canzoni alternano inglese e spagnolo un po’ come da noi aveva fatto Pino Daniele con l’anglonapoletano di “Yes I know my way, ma nun’ è addò m’aie purtato tu”.5 Recentemente, attraverso la Rete, lo spanglish sta dilagando ben oltre i confini territoriali e i quartieri ispanici di città come New York o Los Angeles in una versione definita cyberspanglish.
Come il latino del periodo della grande espansione di Roma, anche l’inglese, quando arriva a lambire i confini del globo, conquista terreno ma allo stesso tempo si sporca, si ibrida e si reinventa in chi lo impiega. Uno di questi segnali è l’apparire degli pseudoanglicismi. Quelle parole che usiamo ogni giorno e suonano inglesi come tutte le altre, eppure non si usano né in Gran Bretagna né negli Stati Uniti. Beauty case per esempio, che oltremanica si dice vanity case o in altri modi. Oppure smoking, che è presente nei divieti di fumare ma non indica l’abito elegante. E non si usano autogrill, slip né tante altre parole che nascono in modo misterioso e si diffondono come le leggende metropolitane, correndo veloci di bocca in bocca. Le reinvenzioni dal suono anglicizzante e le unioni miste di radici inglesi come autostop o footing (che in inglese esiste ma non nell’accezione sportiva che gli diamo noi) non sono i soliti “matrimoni” all’italiana: si celebrano ovunque.
Tutto il mondo è paese
L’irruzione dell’angloamericano nelle altre lingue travalica i confini della piccola Europa e coinvolge tutto il pianeta. Dall’altra parte del mondo c’è il chinglish, un miscuglio di inglese e cinese che ha dato origine anche a colorate varietà locali che ricordano l’italiano broccolino dei nostri emigranti quando, prima dell’era della fuga di cervelli, le navi attraversavano l’oceano stipate di italiani in cerca di lavoro. Una manovalanza che per sopravvivere in un mondo di cui non conosceva la parlata riportava i suoni angloamericani a quelli del proprio dialetto pugliese, calabrese, napoletano o siciliano. Brooklyn era così simile a broccolo che sembrava quasi facile dirlo. In questo modo nasceva un lessico anglo-italo-dialettale in cui la macchina lavatrice (washing machine) era vascinga mascina, il negozio (shop) scioppa, il lavoro (job) giobba, buonanotte (good night) cunnàite.
In Asia c’è anche l’hinglish per l’hindi, il konglish per il coreano e il tinglish per il thai.6 E poi ci sono il japish o l’englanese per indicare la contaminazione con il giapponese. Il caso nipponico è particolarmente interessante, visto che si tratta di un popolo tradizionalmente combattivo e storicamente segnato in modo profondo dalle bombe atomiche e dall’umiliante resa agli americani. Nel 2013, un settantunenne giapponese ha intentato una causa contro l’emittente di Stato NHK per il continuo uso di “prestiti” linguistici trascritti nell’alfabeto del katakana.7 “Chi, al giorno d’oggi, userebbe il termine shukyu (antico lessema che significa ‘calciare una palla’) per indicare il gioco del calcio?”, si chiedeva in un cinguettìo (tweet) di qualche anno fa l’antropologo Ichiro Numazaki, per poi dichiararsi contrario a tradurre con gli ideogrammi una parola come supporter (tifoso). Da tempo l’Agenzia per gli Affari Culturali Giapponesi denuncia l’uso crescente delle parole straniere che intaccano la bellezza della lingua tradizionale e creano un ostacolo per la comunicazione tra giovani e anziani. Ma gli anglicismi prevalgono ancor di più nel settore tecnologico. Una parola come walkman è un marchio registrato nel 1979 dalla giapponese Sony, anche se viene considerato un termine inglese. E lo è, nella sua struttura e formazione, esattamente come slow food, la risposta made in Italy al fast food.8
A questo punto è palese: tutto il mondo è paese. E bisogna tenere ben presente questo scenario internazionale, prima di domandarsi cosa stia avvenendo, e cosa è già avvenuto, in Italia.
All’inizio degli anni Settanta il giornalista Nantas Salvalaggio aveva definito italese “il linguaggio semicomico – un intruglio di italiano e inglese – che progressivamente invade le nostre case attraverso le riviste e i fumetti dei figli.” Una denuncia un po’ moralistica e basata sulle impressioni e il fastidio, più che sui numeri. Al 1977 risale invece la coniazione di itangliano,9 annoverato come voce del vocabolario Treccani (2000), e poi si è parlato di italiaricano, italiese, itenglish, mentre nel dizionario Gabrielli si è ritagliato il suo spazio il lemma itanglese che suona più in sintonia con il franglese da cui eravamo partiti.
Comunque lo si chiami, il problema è sempre lo stesso, quello denunciato nel 1987 da Arrigo Castellani in un articolo che sarebbe passato alla storia: il “Morbus anglicus” che affliggerebbe la nostra lingua.10
Angloscettici e angloentusiasti
Le posizioni storiche in campo sono due, semplificando un po’ quel che ne pensano i linguisti. Da una parte ci sono i “negazionisti”. Ritengono che la penetrazione dell’inglese nell’italiano sia normale e non ci sia nulla di cui preoccuparsi, perché non è in grado di intaccare o stravolgere la nostra lingua, né strutturalmente né per la quantità di parole che entrano. Questa schiera ha visto tra i suoi più illustri rappresentanti Tullio De Mauro, che nel 2010 ha esposto lucidamente una sintesi divulgativa di come la pensava in un’intervista (Gli anglicismi? No problem, my dear) diventata una sorta di manifesto, in Rete.11
Uno dei punti forti di queste tesi è che ciò che accade oggi con l’inglese sia già accaduto tra Settecento e Ottocento, quando il Paese culturalmente dominante, per l’Europa, era la Francia. Ma l’italiano ha saputo assorbire tutti i francesismi e ne è uscito più ricco. Niente di nuovo sotto il sole, dunque. Sopravviveremo senza accusare troppo il colpo. Il “liberismo linguistico” minimizza, parte dalla convinzione che una lingua abbia in sé gli anticorpi per assorbire le contaminazioni e autoregolamentarsi senza essere snaturata, e non va protetta né difesa. Guai a farlo! È un tabù. In questa schiera si annidano anche gli “angloentusiasti” cui non importa se migliaia di parole angloamericane colonizzano il nostro lessico, anzi le accolgono come doni e come il segno di un internazionalismo linguistico indice di modernità. Qualcuno preferirebbe persino insegnare in lingua inglese nei corsi universitari, e si schiera a favore dell’abbandono dell’italiano nella scienza e in altri settori dove riterrebbe più opportuno passare alla lingua sovranazionale.
Sull’altro fronte ci sono le posizioni etichettate come “puriste” e “neopuriste”, che hanno i loro autorevoli precedenti in studiosi come Bruno Migliorini e nel grido di allarme di Arrigo Castellani con il suo morbus anglicus: l’eccessivo uso degli anglicismi e la facilità con cui si accolgono senza adattarli e italianizzarli sono un virus in grado di accumulare parole dal suono lontano dalla nostra cadenza, dai nostri vocaboli che terminano in vocale e dalla loro musicalità. Questa massa di “corpi estranei” sempre più fitta sta snaturando la nostra parlata e la nostra storia. Castellani sottolineava anche una profonda differenza con quanto era avvenuto all’epoca dello splendore del ...

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