Non sono sessista, ma...
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Non sono sessista, ma...

Il sessismo nel linguaggio contemporaneo

Lorenzo Gasparrini

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Il sessismo nel linguaggio contemporaneo

Lorenzo Gasparrini

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La maggior parte delle volte non siamo noi a scegliere le parole che usiamo: il nostro linguaggio, fatto per lo più di stereotipi, modi di dire e luoghi comuni, deriva da una cultura patriarcale preesistente a noi. In questo libro Lorenzo Gasparrini analizza e studia le forme del linguaggio sessista, da dove hanno tratto origine e come sono cambiate negli anni, e come i femminismi abbiano portato avanti su questo tema le battaglie per la parità. Un libro che è una guida per riconoscere il sessismo insito nelle parole che scegliamo di usare, sia esso consapevole o inconsapevole, capire come ci viene imposto e realizzare come possa essere evitato.

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Information

Publisher
Tlon
Year
2020
ISBN
9788899684983

Capitolo 4

Sessisti quanto inconsapevoli?

Il mondo della comunicazione italiana è pieno di contenuti sessisti. Non sono il solo a dirlo, e neanche da pochi anni. Sta di fatto che, come abbiamo visto, per quanto è ancora difficile per molti e molte capire in cosa consiste il sessismo, questa comunicazione sessista ancora va per la maggiore. In questo ultimo capitolo si leggeranno una serie di esempi, più o meno illustri, con tanto di nomi e cognomi. Per tutti quelli espressamente nominati ce ne sono almeno dieci che fanno lo stesso lavoro e si esprimono in maniera sessista come loro: non c’è nessun intento delatorio o accusatorio. Sono solo esempi, che risalgono a mesi o anni fa, e come tali vanno presi; esempi di quante sono le persone con un ruolo sociale ben definito e visibile che dovrebbero lavorare molto di più sul loro linguaggio (e quindi sul loro pensiero), per rendersi conto che nessun episodio della loro storia personale può avergli conferito il permesso o il diritto di esprimersi nel modo che vedremo. Perché il diritto a poter essere sessisti – che è come dire razzisti, ricordiamolo – non è mai ammissibile.
Altro punto da toccare prima di fare nomi e cognomi è quello – in parte già affrontato – della responsabilità delle proprie parole, anche se dette nella totale inconsapevolezza del sessismo o di qualsiasi questione di genere. Ebbene, quella responsabilità rimane indipendentemente dalla consapevolezza, ed è ancora meno giustificabile quando dovrebbe essere assunta da persone che parlano in pubblico, che hanno un seguito di migliaia di lettori, che scrivono abitualmente su molti media, che si presentano a un pubblico radiofonico o televisivo. Nessuno ha in mente di limitare la libertà di espressione; ma in Italia è ormai passato il tempo nel quale tante persone, che usano le parole per lavorare, avrebbero dovuto imparare quanta violenza è possibile comunicare, diffondere e insegnare senza assumersi la responsabilità di ciò che si dice. Anzi, molti e molte continuano a sostenere che tutti gli argomenti presentati in questo libro – e in molti altri, da decenni – siano inconsistenti, siano solo fuffa. Una fuffa parecchio violenta, a quanto raccontano professionisti e professioniste che con quella violenza ci lavorano da anni, ma che non vengono ascoltati né interrogati sull’argomento.
Un’altra premessa. Alcune delle critiche che state per leggere a personaggi pubblici sono già apparse in un mio libro precedente. A questo proposito una recensione, pure favorevole al mio testo, deplorava che io facessi nomi e cognomi – nello specifico, quello di Michele Serra – perché ciò dimostrava proprio classico atteggiamento maschile: l’invidia reciproca, anzi «la sotterranea competizione maschile». Della competizione maschile, a questo punto del libro, dovrebbe essere chiaro che non può importarmi di meno: quello di cui m’importa, e tanto, è far capire che danno fanno le persone che, con un seguito maggiore del mio, usano a vanvera concetti che invece andrebbero maneggiati con cura. Tra i tanti effetti negativi, oltre a quelli che sto per ricordare, c’è evidentemente anche quello di rendere incapaci molti e molte di distinguere tra una critica sensata e una competizione “a chi ce l’ha più lungo”.
La maggior parte degli esempi che riporto sono concentrati in un arco di tempo non vicino ma neanche remoto; mi è sembrato il giusto distacco per non riaprire inutilmente dibattiti su cose già accadute, ma dalle quali credo sia opportuno trarre esempi proprio per non perderne il senso. Avrei potuto sceglierne altri, il loro numero non è certo esiguo, si tratta solo di una mia scelta in un mare di possibilità diverse. Come esempi, però, valgono per il passato che non è stato documentato e per altri episodi successivi analoghi; temo proprio che per nessuno di quelli che elencherò sia una questione di moda o di opportunità una tantum. Tutti i testi cui faccio riferimento sono facilmente reperibili in rete nel momento in cui sto scrivendo, l’ottobre del 2018. Saranno divisi per tipo, in modo da inquadrare meglio quelle figure di grande importanza sociale dalle quali sarebbe lecito aspettarsi una consapevolezza migliore dei meccanismi sessisti e del linguaggio da adoperare per evitare la loro forza discriminatoria. Di nuovo e per l’ennesima volta: non si tratta di censurare né di vietare le libere opinioni, né di sollecitare l’instaurazione un rigidissimo codice di correctness. Si tratta di assumersi la responsabilità delle proprie parole, vedendone chiaramente l’origine storica e gli effetti sociali e politici.

Politici – Quelli che dovrebbero dare l’esempio

Cominciamo proprio con esempi che vengono dal mondo della politica. Ha fatto scalpore, qualche mese fa, la dichiarazione di un senatore della Repubblica che riportava come ovvi e come dati reali tutta una serie di pregiudizi sul maschile – sugli uomini, sul loro comportamento sessuale, sui meccanismi del loro desiderio: sono veri e propri sessismi insegnati da una cultura patriarcale, spacciandoli per la natura maschile. Si tratta del senatore Vincenzo D’Anna che, ai microfoni di una radio, nel settembre 2017, commentava un recente caso di stupro. I giornali riportavano come titolo alle sue dichiarazioni soprattutto questa sua frase: «La donna è fonte di desiderio, è un istinto primordiale». Malgrado il senatore abbia da curriculum una formazione scientifica solida, usava concetti come “idea della preda”, “istinto”, “ormoni” proprio nell’uso e nelle accezioni tipiche del maschilismo più becero; continuava fantasticando del funzionamento delle relazioni tra generi e sulla natura degli stupri in modi che la pratica scientifica e sociale – e l’esperienza di decenni riguardo le questioni di genere da parte, per esempio, di chi lavora nei centri antiviolenza – hanno smentito chiaramente. È ormai più che noto che l’uomo eterosessuale faccia violenza alle donne eterosessuali, come alle persone di altri generi e orientamenti sessuali, per una mera questione di potere, che gli è stata insegnata tramite un contesto culturale patriarcale e sessista, la cui esistenza è indubbia da altrettanti decenni; e non per meccanismi ormonali o nervosi leggendari. Eppure tutto ciò al senatore sembra non essere mai arrivato all’orecchio.
In più, il fatto che parole del genere vengano da un uomo politico le aggrava: invece di assumersi la responsabilità del suo compito sociale, egli mostra pubblicamente che chi fa politica di mestiere attribuisce alle vittime di un reato parte della responsabilità dello stesso, concedendo anche che esistano zone e orari non precisati di luoghi non precisati nei quali, evidentemente, la legge è sospesa, visto che starebbe alle donne usare «un poco di buonsenso, un poco di cautela». Un senatore della Repubblica sta cioè ammettendo che la politica ha fallito nel far rispettare la legge – c’è ben più che sessismo, in una dichiarazione del genere.
Gli uomini eterosessuali non sono per natura come li ha descritti D’Anna, ma lo diventano grazie ad assurde e violente convinzioni sociali, stereotipi sessisti, ignoranze. Stereotipi e ignoranze che si mostrano anche in casi meno attribuibili a una sola persona della politica, come nel caso, diventato celebre, degli ombrelli tenuti da donne a riparare dei politici presenti su un palco. La notizia è del luglio 2017: a Sulmona, per la manifestazione “Fonderia Abruzzo: laboratorio di idee nuove e visioni per il futuro” salgono sul palco il governatore della regione Luciano D’Alfonso, l’allora ministro alla coesione territoriale Claudio De Vincenti, il rettore dell’Università di Teramo Luciano D’Amico e il presidente della regione Emilia Romagna Stefano Bonaccini, insieme ad altri. La pioggia li sorprende e gli organizzatori cercano sul momento chi possa aiutare a tenere gli ombrelli sulla testa degli uomini seduti sul palco. Sono sette donne. La foto che immortala la situazione – donne in piedi a tenere l’ombrello a uomini seduti che parlano – gira immediatamente sul web, raccogliendo facili commenti ironici e veri e propri insulti.
Quello che ha stupito, di tutta la storia sollevata dalla foto, è stata l’incapacità diffusa di valutare il valore sessista di quell’immagine. Si può tranquillamente credere che nessuno dei presenti volesse intenzionalmente fare del sessismo, come anche che non ci sia stata alcuna complicità da parte delle donne immortalate nella loro posa da ombrelline. Quindi lo scambio di commenti e di sarcasmo a questo proposito è stato del tutto inutile e fuorviante. Ciò di cui non si è parlato a sufficienza è che la sensibilità verso il veicolare immagini di sessismo è evidentemente troppo bassa. Quella foto, come tante altre immagini in un universo mediatico che di immagini abusa, avrà una storia del tutto indipendente dall’evento che l’ha originata, e sarà una storia di sessismo, perché sessismo è quello che si vede nell’immagine. Chi organizza eventi non può più far finta di non sapere questa banale verità di fatto: le scuse o le spiegazioni non contano assolutamente nulla. Quello che si è visto sono state donne in piedi a reggere l’ombrello a sei uomini seduti, e tanto basta. Con la competenza che hanno in genere i politici su queste questioni, D’Alfonso ha dichiarato che «commenti sulla parità di genere sono fuori luogo». L’allora presidente della Camera, Laura Boldrini, aveva centrato il punto, sostenendo dal suo profilo Facebook che «non sarebbe stato meno stridente se al posto delle ragazze ci fossero stati dei ragazzi»; perché la questione non è il sesso ma, come abbiamo già spiegato sopra, i ruoli di potere. Che sono quelli ben immortalati nell’immagine di quella giornata, incarnati da donne al servizio di uomini.
Per quanto riguarda questi argomenti, l’Abruzzo evidentemente non è una regione fortunata, visto che poco tempo prima nel dicembre 2015, la Quinta Commissione regionale aveva approvato l’incredibile testo di una risoluzione intitolata Teoria del gender. Il testo è pubblico, firmato dai consiglieri Gatti, Mariani, Iampieri, Monaco, Olivieri, Di Dalmazio, Sospiri, Berardinetti, Di Nicola, Monticelli e D’Ignazio, e chiunque può leggerlo in rete. Nelle premesse, attraverso una logica fallace già smascherata da decenni, si lega il concetto di famiglia come «nucleo naturale e fondamentale della società» – parole presenti sostanzialmente nella nostra Costituzione come pure nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo – al concetto del tutto discutibile e discusso di “famiglia naturale”. Si fa così un uso illogico e indebito della parola “naturale”, che permetterebbe di decidere quale famiglia sia naturale per legge e quale no. Purtroppo per chi ha steso questo documento, come l’antropologia prova a insegnare da mezzo secolo almeno, l’espressione “famiglia naturale” è un ossimoro: in natura non esiste nulla di simile alla costruzione sociale e storica che solo gli esseri umani chiamano famiglia. L’unica cosa che andrebbe premessa è un minimo di competenza in certi argomenti; quindi, continuando a leggere, non si capisce da quale fonte è stato estratto il «compito della famiglia» lì formulato, né il dovere delle istituzioni di garantire i finanziamenti pubblici per lo svolgimento di quel compito. Andando avanti, sulla base di queste fantasiose e piuttosto pregiudizievoli premesse, il presidente della Giunta regionale si impegna a impedire la diffusione della cosiddetta “teoria del gender”. Ora, detto che l’invenzione della suddetta teoria è stata da tempo raccontata nei dettagli da Sara Garbagnoli in un articolo del 2014 sulla rivista «AG», se un’istituzione come una Giunta regionale si impegna in una sciocchezza del genere, le ipotesi possono essere soltanto due: 1) nessuno nella Giunta è stato in grado di informarsi adeguatamente sul contenuto della risoluzione, ponendo all’attenzione della Giunta stessa le corrette informazioni sull’argomento; 2) la Giunta è ben conscia delle circostanze in cui la cosiddetta “teoria del gender” è nata e, in piena malafede, ne condivide gli scopi politici e informativi – e questi sì che sono del tutto contrari ai principi costituzionali e del diritto internazionale.
Molto sinceramente, non saprei dire quale delle due ipotesi sia la più auspicabile. In entrambi i casi, volontariamente o meno, una Giunta regionale italiana ha adottato una risoluzione sessista, nata da premesse sessiste, rendendo legge una discriminazione di fatto.
Possiamo discutere a lungo se Beppe Grillo sia o meno un uomo politico, e quanto lo sia, e da quanto lo sia, e tante altre cose sul suo conto. I fatti sono noti: parla, agisce e viene identificato come un uomo politico, perciò ai nostri occhi effettivamente lo è. Tra l’altro, potremmo scegliere tra molte sue espressioni e dichiarazioni sessiste – basterà ricordare il simpatico quiz sulla Boldrini che rilasciò sui social network, oppure il classico epiteto sessista col quale qualificò Rita Levi Montalcini. Mi sta a cuore però una particolare espressione che ha riportato su «Fatto Quotidiano» del 30 settembre 2013 quando, non rispondendo a chi gli faceva domande, Grillo disse testualmente «non sei un giornalista, sei troppo giovane, fatti una ragazza». Questa frase l’ho scelta per la sua frequenza tra uomini e donne; è un modo d’insultare così comune che sfiora il cliché, il proverbio. La frase “fatti una ragazza” è pronunciata da un uomo verso un altro uomo con l’atteggiamento paternalista di chi ne sa di più, di chi non considera l’interlocutore alla s...

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