Tibi e Tàscia
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Tibi e Tàscia

About this book

Prefazione di Goffredo FofiC'è forse un altro romanzo italiano così fitto di dialoghi, così impastato di un presente diretto, di concreta quotidianità, di infantile (e dunque assoluta) verità? Ritorna Tibi e Tàscia di Saverio Strati, fitto di cose piccole e necessarie, uno dei più significativi romanzi del nostro Novecento e della letteratura che ha raccontato il mondo com'era, in particolare il mondo contadino. Quel che Tibi e Tàscia apprendono dell'esistenza – la natura e il lavoro, la terra e il paese, i simili e i diversi, i servi e i padroni, la fame e la festa, la prepotenza e l'amore, il femminile e il maschile – non è qualcosa che appartiene solo a loro, riguarda anche i loro coetanei e riguarda l'interezza dell'uomo, nello specifico dell'età del gioco e della scoperta. Ben pochi romanzi italiani sono paragonabili a questo, nella sua capacità di aprirci a un paesaggio completo e complesso, e però affrontato con la balda capacità dei bambini di farlo proprio, di acquisirlo ed esperirlo giorno per giorno, nel variare delle stagioni e nella costanza dei confronti. Questo «romanzo dell'infanzia» scritto da un giovane calabrese che ha potuto accedere agli studi (e all'emigrazione come scoperta e come possibilità) difficilmente chi oggi lo scopre potrà dimenticarlo. Questa scoperta sarà per lui qualcosa di più che la scoperta di un buon romanzo, bensì quella di uno dei più bei romanzi sull'infanzia che si conoscano, degno dei più grandi, ma con una sua diversità tutta nostra, tutta italiana.

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Information

IV

Tàscia, dopo quello che le era avvenuto con Tibi, ritornò altre volte alla fontana. Però ad ogni viaggio temeva che Tibi fosse nascosto dietro qualche siepe, pronto a scagliare un sasso contro il bomboletto di lei. Ma non le successe niente, e Tàscia pensò che Tibi aveva avuto paura di lei. Di questo era contenta; ed era anche contenta, perché finalmente aveva finito di riempire il bombolone della madre ed ora poteva andare a giocare con i ragazzi che già erano usciti di scuola ed erano sulla piazzuola a gridare, a correre e a divertirsi in mille modi.
Tàscia non trascurò di prendersi un pezzo di pane, ne diede anche al fratellino che si caricò sulle spalle e via a giocare sulla piazzuola. E come giocava! C’erano di quei ragazzi che avevano paura dell’abilità di Tàscia e spesso non le volevano permettere di giocare.
«Se non gioco io, non gioca nessuno» gridava Tàscia.
A molti altri ragazzi era simpatica e dicevano:
«Tutti dobbiamo giocare insieme, tutti».
E tutti giocavano assieme.
Quel giorno la fortuna di Tàscia era sfacciata. Dopo due ore, la ragazza aveva le tasche della vecchia veste piene di nocciole, ed era più spettinata che mai e calda di gioco; e correva, e gridava e minacciava coi pugni, o con sassi, quelli che tentavano di fare imbrogli.
Il piccolo Ciccio stava al sole caldo e giocava anche lui con del terriccio e dei cocci di piatti, ed era nero di terra.
Ma ecco i tocchi maledetti dell’orologio del municipio.
«Non gridate!» disse Tàscia ai compagni. «Uno, due, tre, quattro!» contò. Divenne subito triste. «Me ne devo andare!» esclamò.
«Oh, meglio, meglio!» gridarono ad una voce i perditori, e saltarono dalla gioia.
Tàscia si caricò Ciccio sulle spalle e se ne andò a casa. Accese il fuoco e sul tripode mise a bollire la pentola coi ceci, per la cena. Ma non le riusciva di stare ferma neanche per un minuto. Si mise a giocare da sola per la casa alle nocciole, tanto i ceci non dovevano essere guardati da nessuno, per cuocersi.
A notte fatta, arrivarono gli altri dalla campagna; e Tàscia sedette al ceppo e stava cheta, ora, e zitta, tutta raccolta in se stessa.
Perché veniva la notte così presto?! Perché veniva così presto, la maledetta notte? Si sentiva così bene quand’era sola!
La madre assaggiò subito i ceci e cominciò come sempre a brontolare.
«Non son cotti, no! Chi sa cosa hai fatto» diceva a Tàscia.
“Perché scende così presto la notte, perché?” si ripeteva Tàscia, e stava a fronte corrugata; ed alle parole della madre pensava che era meglio vivere sola che con gli altri, specialmente con quella madre che mai le voleva un po’ di bene, che sempre contro di lei brontolava e spesso era anche pronta a darle schiaffi. Il padre, invece, spesso le toccava i capelli e le dava anche qualche schiaffetto, come per accarezzarla.
«Non pensate ad altro che a giocare» diceva lui alla figlia. «Questa scapestrata che non pensa ad altro che a giocare» continuava, come parlando a se stesso.
«Tutti gli occhi sono sempre su di me» piagnucolò Tàscia. «Con lui non se la prende mai nessuno» disse, muovendo la testa verso il fratello maggiore.
«Io non sto a giocare come te» le disse Rocco, che aveva quindici anni. Tre più di Tàscia.
«Lui zappa come noi» aggiunse il padre, guardando Tàscia.
«E lui chi lo tiene sulle spalle?» gridò Tàscia, spalancando gli occhi dalla rabbia. «Chi lo tiene tuo figlio sulle spalle? E l’acqua chi la porta a casa? E poi tu te la bevi ad una volta, tu e tua moglie e tuo figlio. E quando ti lavi, ne vuoi il bacile pieno, sempre pieno di acqua lo vuoi, per lavarti la faccia e le manacce sporche che hai. Ma domani non cucino i ceci, così, quando ritornerete dalla campagna, mangerete pane; né vado alla fontana».
«Non ti arrabbiare, Teresa» le disse la madre. «Ché i capelli te li strappo, io... Io non sono dolce come tuo padre, che non ti sa educare e perciò sei così scostumata».
Gianni ridacchiava contento, invece, della risolutezza della figlia.
Tàscia tacque. Chinò la testa e guardava il fuoco.
«Neppure giocare posso!» esclamò dopo un poco.
«Ti hanno impastata col gioco» le disse la madre. «Credo che questa creatura di Dio la lasci crepare di freddo per le strade, figlio mio bello!» fece e baciò Ciccio, che già aveva attaccato al petto. «Credo che neppure un po’ di pane gli dài».
«Sì, di freddo... Sì, di fame» gridò Tàscia, alzando la testa e guardando la madre. «Eppoi, se non sei contenta te lo guardi tu...»
«Non t’arrabbiare!» le disse il padre. Le passò la sua mano nera sulla faccia.
Tàscia scostò la testa, bruscamente.
«E lasciami in pace anche tu!» fece, e respinse la mano del padre.
Gianni disse, come se parlasse ad altri:
«Volete vedere che stasera la figliola non mangerà per farci dispetto?»
«Io mangio, perché ho lavorato» disse Tàscia.
Il padre scoppiò a ridere, divertito.
«Eppoi ti pare che ho mangiato oggi, io?» continuò Tàscia.
«Oh, Dio, questo sarà vero!» intervenne subito la madre. «Ché tu, per giocare, neppure al mangiare badi... Ma per te non mi dispiace; mi dispiace per quest’innocente di Dio che è sempre affamato... Avete visto...

Table of contents

  1. Cover
  2. Sinossi
  3. Profilo biografico dell'autore
  4. Collana
  5. Colophon
  6. Prefazione
  7. Tibi e Tàscia
  8. Nota dell’editore
  9. Parte prima
  10. I
  11. II
  12. III
  13. IV
  14. V
  15. VI
  16. VII
  17. VIII
  18. IX
  19. X
  20. XI
  21. Parte seconda
  22. XII
  23. XIII
  24. XIV
  25. XV
  26. XVI
  27. XVII
  28. XVIII
  29. XIX
  30. XX
  31. XXI
  32. XXII
  33. XXIII
  34. XXIV
  35. Parte terza
  36. XXV
  37. XXVI
  38. XXVII
  39. XXVIII
  40. XXIX
  41. XXX
  42. XXXI
  43. XXXII
  44. XXXIII
  45. XXXIV
  46. XXXV
  47. Parte quarta
  48. XXXVI
  49. XXXVII
  50. XXXVIII
  51. XXXIX
  52. XL
  53. XLI
  54. XLII
  55. XLIII
  56. Note
  57. Nella stessa collana