1.
Una volta ero Flesherman. Per la verità lo sono ancora. Ma una parte di me sta franando in me stesso. È come se ai piedi della mia identità si fosse spalancato un sottoscala profumato di ruggine, dove ampie sezioni della mia vita scivolano e si cancellano definitivamente. Non è un processo rapido. Tutt’altro. È indolente e penoso. Una caduta rallentata. Uno smottamento che guadagna pochi centimetri al giorno. Lento ma inesorabile.
Ricordo il giorno in cui mia moglie mi trascinò dal medico. Avrei voluto buttarmi sul marciapiedi e rimanere in quella posizione fino alla fine. Ma lei mi teneva per un braccio. Proprio all’altezza del gomito. Mi tirava via continuando a parlare. Non so di preciso cosa dicesse. Parlava. Faceva i logaritmi con l’ugola. Io invece pensavo solo a lasciarmi cadere. A stendermi a terra. A prendere la sua borsa e a farne un piccolo cuscino. Forse sarei riuscito a dormire. In mezzo alla città avrei schiacciato un dolce sonno senza vaneggiamenti.
Camminando avevo davanti agli occhi l’immagine di alcuni rami secchi che svettavano verso il cielo. Un albero inaridito dal freddo. Una stagione che sgomenta tanto è torbida. Cercavo di allontanarli dai miei pensieri. Mi agitavo con le mani. Li scacciavo come fossero un esercito di mosche. E forse erano davvero mosche. Eppure guardandomi intorno non c’erano che alberi primaverili. Gonfi di foglie incoraggianti. Ma quei rami erano sempre qui, a un palmo di naso. Leggermente ondulanti. Come un avvertimento o un rimprovero.
Il dottore se ne stava dietro la sua bella scrivania lucida. Sterminata come la prua di una nave da crociera. Davanti a un computerino portatile sul quale campeggiava l’immagine di una distesa di grano in piena estate. A volte mi pareva che le spighe si muovessero mollemente come spostate da un vento irreale. Si piegavano, tendevano l’esile stelo e poi ritornavano su. Erano magnifiche. Anche lui, il medico, sembrava un essere estivo. Una di quelle persone che vivono realmente solo d’estate. Poco problematico, poco ingombrante. Abbronzato e sorridente, come si vede nelle fotografie scattate durante la villeggiatura. Di un sorriso così insistente che pareva non dovesse chiudersi mai. Neanche durante il sonno. Uno che sorride agli incubi. Questo era quell’uomo giovane che mi stava davanti nel suo bel camice bianco, con i capelli castani, senza fronzoli e gli occhiali leggeri. Quasi una piuma sulla linea del naso.
Mentre parlava, mia moglie lo ascoltava con la bocca chiusa, accennando di sì con la testa. Assentiva. Ma non lo faceva solo per educazione. Lei approvava sul serio. Era d’accordo. Quelle erano proprio le parole che voleva sentire. Che fortificavano le sue intuizioni.
Quando iniziò a chiedermi nome cognome e indirizzo, io rimasi in silenzio. Perché dovevo dirgli nome cognome e indirizzo? Va bene, disse allora il medico, mi dica quello che vuole. Ma io non volevo dire niente. Volevo solo starmene in silenzio. Coltivare la mia bonaccia. Tirare i remi in barca e affondare.
La visita durò più di un’ora. Ogni tanto davo uno sguardo dalla finestra. Si vedevano tetti e antenne. Il cielo era ancora aperto. Erano le cinque di una magnifica primavera. I rami secchi erano scomparsi d’incanto insieme alle mosche e ai loro occhi ipertiroidei. Ogni tanto qualcosa la dicevo. Parlavo del mio lavoro. Dei miei viaggi. Dei casi a cui avevo lavorato. Uno dietro l’altro. Riconoscimenti, cadaveri, assassini, maniaci. Ancora lo chiamano per le perizie, disse a un certo punto mia moglie. Non ne sono sorpreso, rispose il dottore, del resto il suo è uno dei nomi più brillanti della nostra criminologia. Parlava come un libretto di sinossi. Quelli che usano gli studenti svogliati. Non riusciva a completare una frase approfondita. Rimaneva sulla superficie delle cose.
Alla fine della seduta il dottore prese un foglio sul quale era stampigliato in rilievo il suo nome e la sua carica, e scrisse qualcosa. Formule, forse, ricette, farmaci dai nomi fantasiosi. Poi alzò la testa verso di me e disse che si trattava di demenza senile. Una forma lenta, pigra, quasi svogliata, che con questi farmaci – e dicendo così agitò il foglio – saremmo riusciti a rallentare ancora di più. Di solito l’esito è l’Alzheimer, disse alzandosi e mostrandosi per tutta la sua estensione. Aveva le mani bianche e pelose. Ma in questo caso, concluse, il passaggio potrebbe avvenire con molta lentezza o non avvenire affatto. È questione di fortuna. Avrei voluto chiedergli cosa c’entrasse la fortuna, ma rimasi zitto, con le mani incrociate.
Ci accompagnò alla porta e ci salutò. Ci vediamo fra un mese, disse e poi si richiuse nello studio. Nella sala d’attesa c’erano una decina di persone, quasi tutte anziane. La segretaria vedendoci uscire chiamò un nome ad alta voce. Si alzò un vecchio, malfermo, quasi oscillante, accompagnato da una giovane donna. L’uomo teneva un cappellino fa le mani e si guardava intorno. Aveva una faccia illusoria, come uno spettatore incantato da una modesta magia.
Quella sera a casa, dopo cena, mi distesi sul divano mentre mia moglie andò a letto. Sono stanca, disse passandomi di fianco, tu non vieni a dormire? Ma era così piacevole rimanere in soggiorno, con la televisione spenta, un cuscino dietro la testa, gli occhi fissi sul lampadario. La stanza era al buio. I palazzi di fronte sembravano diventare sempre più alti, come quei ragazzini che crescono improvvisamente nel giro di un’estate. Ma non m’incutevano paura. Anzi la cosa mi divertiva. Li vedevo allungarsi, proiettare ombre sempre più lunghe e minacciose. Anche io sto diventando più grande, mi dicevo. L’uomo lampione. L’uomo elefante-lampione.
Da fuori arrivavano le voci soffuse di una coppia in amore. Stavano proprio sotto il mio balcone. Sulla strada. Magari appoggiati alla ringhiera, o al muretto che costeggiava la strada. Sembravano giovani. Erano voci sorridenti e maliziose. Piene di un futuro anteriore che non sarebbe finito mai. Lo capivi da quanta forza ci mettevano a sussurrare, a fare versi, a scomporsi in brevi languori. Mi lanciavano lontano, quelle voci, verso un campo aperto. Una smisurata distesa di grano che ondeggiava a un vento irreale e benefico.
Mi svegliai che era già l’alba. Preparai il caffè e diedi uno sguardo a mia moglie. Dormiva piegata sul lato destro. Con una gamba fuori dal letto, come se dovesse fare un balzo da un momento all’altro. Aveva i capelli scomposti e una smorfia sulla faccia come se fosse appena uscita da un brutto sogno. E forse era proprio così. Sulla strada non c’era traccia degli amanti. Mentre continuavano con le loro astrazioni erotiche, mi ero addormentato. Per la prima volta avevo dormito indossando scarpe e vestiti. Anch’io ero pronto al balzo. Una fuga in piena regola. Verso dove?
Bevvi il caffè sul balcone e accesi una sigaretta. Demenza senile. Senile, era questo l’aggettivo che qualificava la malattia. La demenza dei vecchi. La testa che non regge più, i ragionamenti che svaniscono. Le fisionomie che si sommano e si sottraggono. Che non suggeriscono più niente. Avrei dimenticato che mia moglie era mia moglie, avrei confuso mio figlio con un vecchio compagno di università , uno che mi raccontava le sue avventure di sesso sconsiderato, e io gli avrei chiesto di entrare sempre più nei particolari. Di fare descrizioni più complete. I dettagli, avrei detto, raccontami i dettagli. E lui avrebbe allargato le braccia come a dire: accontentati, è tutto quello che ti posso dire.
2.
Da quella prima visita è passato un anno e io continuo a perdere parti di me. La mia storia si sta assottigliando. Diventa giorno dopo giorno esile, come trasparente. Quasi fossi un ragazzo, proprio uno di quelli che vedi correre sulla spiaggia, senza pena e rimorsi e non un uomo di sessantanove anni, affacciato sul limite del niente.
Certo ho ancora un sistema per riconoscere le cose. Le so valutare. Riesco a trovare il bandolo delle vicende, anche se a volte si confondono. Diventano come una maglia con innumerevoli fili. Allora lascio perdere. Lascio che le storie si uniscano fra di loro, che si mescolino, fino a diventare una specie di mistura inconsistente. Me le vedo sfilare davanti agli occhi, così: incomprensibili. Mi passano davanti e scompaiono. Una specie di lungo corteo da circo, con tanto di clown, elefanti, domatori, trapezisti e magnaccia. Una processione allegra e senza voci, che mi passa davanti al naso, variopinta e gradevole, gira l’angolo e svanisce.
Il giorno dopo la prima visita, mentre mia moglie dormiva con il piede pronto al balzo e io me ne stavo sul balcone a seguire un’alba lugubre e illegale, decisi di non parlare con nessuno della mia malattia. Doveva rimanere fra di noi. Me e mia moglie, forse mio fratello. L’avrei costretta a osservare un silenzio assoluto. Volevo dissolvermi senza commiserazione. Senza visite di parenti e amici, che ti osservano di sottecchi mentre sorseggiano il caffè e sembrano imbastire discorsi semplici, mentre non fanno altro che sbirciare l’orologio e cogliere il momento giusto per filarsela. Riuscivo anche a vederli. Immaginavo gli sguardi, la posizione sulle sedie, le gambe incrociate, il rossetto che rimaneva sui bordi delle tazze, l’infelicità delle conversazioni, la superbia delle loro gole. Non avrei potuto sopportare quella miseria. Mi sarei felicemente lanciato dal balcone prendendo la rincorsa dall’ingresso e coprendo la distanza in un tempo così breve da lasciare tutti con gli occhi appesi. Un bel tuffo e via.
Mia moglie mi trovò ancora sul balcone. Erano già le sette. Ero in quella posizione da parecchio tempo. Ma non sentivo stanchezza. Anzi, tutto quell’indolenzimento mi dava una certa armonia. Mi sentivo più affine al mondo e alla sua bancarotta.
Ma non hai dormito?, mi chiese. Aveva ancora i capelli del sonno e gli occhi gonfi. Ho fatto il caffè, risposi. È ancora caldo. La vidi entrare in cucina, mentre io rimasi a guardare di fronte lo stesso palazzo che stavo osservando da tempo. Già verso le cinque e mezzo alcune luci si erano accese. Intravvedevo delle ombre camminare per quelle stanze. Sagome che si allungavano mollemente fra le camere. Come se fossero loro stessi dei sogni. Propaggini inconsistenti. Il fumus di qualche persecuzione.
Devi smetterla, gridò dalla cucina mostrandomi il posacenere pieno di mozziconi. Ma io non ci pensavo affatto. Semmai il mio piano era di raddoppiare, di triplicare, di riempire la nostra casa di un fumo permanente. Anche negli angoli più oscuri. Un fumo implacabile. Una nebbia densa, che avrebbe nascosto me a me stesso.
Eravamo sposati da quasi trent’anni. Una vita esemplare. Almeno fino a quel momento. Il luminare da una parte, la studiosa dall’altro. Lei continuava ad andare tutte le mattine in università , anche se aveva superato da poco l’età della pensione. Aveva chiesto un prolungamento di un paio di anni e le era stato accordato di buon grado.
Teneva lezioni sull’ermeneutica nietzschiana, alla quale partecipavano ben pochi studenti. Lei li conosceva uno a uno. Li chiamava per nome, gli dava del tu, li portava a casa e continuava la lezione nello studio. Alcune volte avevo partecipato anch’io. Mi sistemavo su una poltroncina rossa. Inserita ad angolo fra due librerie. Ascoltavo con attenzione, e a ogni spiegazione capivo che quella donna conosceva il segreto della semplicità . Riusciva a tirare via dai concetti la loro patina complessa, quella specie di acredine che non ti lascia avvicinare.
Ogni volta mi presentava come la vedette della casa. Signori e signore ecco a voi l’illustre Flesherman. E loro, gli studenti, chi ad allungare la mano, chi a inchinarsi, leggermente imbarazzati.
C’è da dire che la criminologia non è una scienza che porti eccessiva popolarità . A me accadde l’esatto contrario. Dopo che mi fu affidato il caso Nardolini mi ritrovai schiacciato fra giornali e televisioni. Nazionali e internazionali. Rilasciavo dichiarazioni, indicavo soluzioni, parlavo a vanvera. Tiravo le somme. Sempre con la stessa faccia, il sorriso allungato per bene, le mani ferme, i capelli in ordine. Figurarsi quando lo risolsi. Quando compresi che Nardolini era stato ucciso con una fiala di digitalina, somministrata dal suo medico curante e perdipiù a sua insaputa. Evidentemente qualcuno aveva sostituito le fiale. Questo sostenni nella mia perizia. Qualcuno appartenente a qualche grossa organizzazione criminale. Volevano togliere di mezzo il pezzo da novanta. L’uomo più influente del Paese. Nardolini era così potente da coltivare nemici altrettanto potenti. Così mi espressi davanti al giudice istruttore. Ricordo che il giudice assentiva con la testa e tamburellava le dita della mano destra sulla scrivania. Era un uomo impaziente o solamente annoiato.
Da un giorno all’altro la mia faccia rimase fissa su televisioni e giornali per parecchio tempo. Mi guardavo e stentavo a riconoscermi. Sembravo mio fratello che scendeva dalla macchina trafelato, come quando mi portò la notizia della morte di nostra madre. Una faccia che esprimeva l’accelerazione di un dolore. Un lungo funerale negli occhi.
Erano passati quasi venti anni da quella vicenda e ancora mi aff...