Cronache da un manicomio criminale
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Cronache da un manicomio criminale

Antonio Esposito, Dario Stefano Dell'Aquila

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Cronache da un manicomio criminale

Antonio Esposito, Dario Stefano Dell'Aquila

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Nel 1974 un internato, Aldo Trivini, denunciò con un memoriale redatto in prima persona gli abusi, le violenze, le morti che avvenivano tra le mura del manicomio criminale di Aversa. Questo documento, straordinario nella sua unicità, viene qui pubblicato integralmente per la prima volta. Da esso scaturì un processo che rese nota una terribile realtà. Tra passato e presente, a quarant'anni di distanza, due ricercatori ricostruiscono la vicenda, atroce e attuale, di quelli che oggi sono chiamati Ospedali psichiatrici giudiziari.Dario Stefano Dell'Aquila, giornalista e ricercatore, si occupa di psichiatria e vulnerabilità sociale. Ha scritto in A occhi aperti. Le nuove voci della narrativa italiana raccontano la realtà (Mondadori 2008) e Se non ti importa il colore degli occhi. Inchiesta sui manicomi giudiziari (Filema 2009).Antonio Esposito, giornalista e ricercatore, si occupa di psichiatria e razzismo. Ha curato A distanza d'offesa (2010), Carta straccia. Economia dei diritti sospesi (2011), e Come camaleonti davanti allo specchio. La vita negli spazi fuori luogo (2013), tutti per Ad est dell'equatore.

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Information

Year
2020
ISBN
9788863573404

Cronache da un manicomio criminale di Dario Stefano Dell'Aquila - Antonio Esposito

(I) Introduzione ad una istituzione totale

Vite che sono come se non fossero mai esistite, che sopravvivono solo per il fatto di essersi scontrate con un potere determinato ad annientarle o cancellarle, vite che non ci vengono restituite se non per una serie di casi: sono le infamie di cui ho voluto riunire qui qualche brandello
Michel Foucault1
Ciò che è già evidente nel manicomio civile risulta ancora più chiaro nel manicomio giudiziario dove medicina e giustizia si uniscono in un'unica finalità: la punizione di coloro per la cui cura e tutela medicina e giustizia dovrebbero esistere
Franco Basaglia2
Nel 1974, un giovane internato, Aldo Trivini, denunciò, in un memoriale, le violenze e gli abusi subiti nel manicomio criminale di Aversa. Ne scaturì un processo, che occupò a lungo le pagine di cronaca nera, nel quale venne alla luce un sistema complesso di violenza istituzionale e di piccoli poteri personali. Potremmo, volendo, fermarci in questo punto, per cominciare il racconto. La ricostruzione di questa vicenda va ben oltre un esercizio di testimonianza. Perché, nei fatti, la storia che raccontiamo ha come protagonista, e non solo come sfondo, il manicomio, in una delle sue forme più particolari. Il manicomio criminale, [definizione poi mutata in manicomio giudiziario tra il 1945-1975 e in ospedale psichiatrico giudiziario dal 1975 ai nostri giorni] è una istituzione totale3 dalle origini ambigue, incrocio del discorso penale con quello psichiatrico. Nacque, in Italia, a fine '800, per consentire l'internamento di due specifiche categorie, i detenuti impazziti durante la detenzione (i cosiddetti rei-folli) e i sofferenti psichici autori di reato (i cosiddetti folli-rei). Era considerato uno strumento di modernizzazione del sistema detentivo. La sua istituzione non fu dettata, come è facile immaginare, da esigenze “terapeutiche”. Cesare Lombroso era, del resto, molto chiaro nelle sue argomentazioni, quando chiariva che il manicomio criminale “non è, come si crede, un alleviamento delle pene, perché se toglie di mezzo l'infamia, sostituisce alla reclusione temporanea quella perpetua, che è ben più severa e sicura; e quanto più un delinquente è pazzo tanto più presto e più seriamente ce ne premunisce”4. All'epoca, il codice penale, promulgato nel 1889, non faceva menzione dei manicomi giudiziari. I prosciolti per infermità mentale erano internati nei manicomi civili. La nascita del primo “nucleo” del manicomio giudiziario fu dovuta ad una scelta dell'amministrazione carceraria che, nel 1876, inaugurò una “Sezione per maniaci” nella “Casa penale per invalidi” di Aversa. Successivamente, con l'emanazione, nel 1891, del regolamento generale degli stabilimenti carcerari, venne disposto che i condannati con pena maggiore di un anno, colpiti da alienazione mentale, fossero inviati nei manicomi giudiziari “nei quali si provveda ad un tempo alla repressione e alla cura” 5. Nacquero, così, dopo quello di Aversa, i manicomi di Montelupo Fiorentino (1886), Reggio Emilia (1892), Napoli (1922), Barcellona Pozzo di Gotto (1925), Castiglione delle Stiviere (1939), Pozzuoli (1955).
Per comprendere, però, sino in fondo gli elementi essenziali del manicomio e delle sue dinamiche ancora attuali, è indispensabile soffermarsi su di un altro punto, quello delle misure di sicurezza, definite con il codice penale “fascista”, ancora oggi vigente. Se, infatti, con il codice Zanardelli, il manicomio si poneva “come reparto specializzato del carcere stesso”6 con il nuovo codice assume una dimensione specifica, tutta fondata su questo particolare istituto giuridico. L’istituto delle misure di sicurezza è espressione di un meccanismo definito “doppio binario”. Se l'autore di un reato è “sano di mente” è condannato ad una pena detentiva, proporzionale alla gravità del reato commesso, che ha un termine fissato nel tempo. Se, invece, l'autore di un reato è riconosciuto come “folle”, in virtù di una perizia psichiatrica, ed è ritenuto socialmente pericoloso, finisce per scontare in un manicomio criminale una misura di sicurezza detentiva che non ha un termine fissato nel tempo, perché può essere prorogata. La caratteristica della misura di sicurezza, la cui durata iniziale può essere fissata in 2, 5 o 10 anni, è che può essere prorogata senza limiti, in base alla valutazione effettuata da un magistrato di sorveglianza7. Questo meccanismo, previsto dal codice penale del 1930, è rimasto nella sua sostanza invariato, se si eccettuano alcune modifiche dovute all'intervento della Corte costituzionale. Il folle autore di reato, è tecnicamente “prosciolto” perché non imputabile, ma, in realtà, sconta una pena della quale non conosce la fine. Non può sapere, con certezza, quanto durerà il suo internamento8. Alla scadenza del primo termine, un giudice valuta se persistono le condizioni di pericolosità sociale. Le relazioni che gli psichiatri redigono sullo stato di salute psichica e sul comportamento di un internato sono quindi determinanti, così come è per lui fondamentale dimostrare, in sede di riesame della misura di sicurezza, di avere una concreta possibilità di reinserimento sociale nella vita esterna. E' evidente come questo dispositivo rende un internato “prigioniero” innanzitutto della discrezionalità del medico che firma la sua cartella di osservazione. Il vero dominus della sua vita non è il giudice, ma lo psichiatra che, con una sola parola, può liberarlo o determinare altri anni di manicomio. Come scrive Franco Basaglia
Il manicomio è un campo di concentramento, un campo di eliminazione, un carcere in cui l'internato non conosce né il perché né la durata della condanna, affidato com'è all'arbitrio di giudizi soggettivi che possono variare da psichiatra a psichiatra, da situazione a situazione, da momento a momento, dove il il grado o lo stadio della malattia ha spesso un gioco relativo9
Nel gergo si chiama “ergastolo bianco”, la sorte di quegli internati che, a fronte di reati non gravi, hanno avuto, per decine di anni, la proroga della misura di sicurezza, a causa di un parere medico sfavorevole o, più semplicemente, perché non disponevano di una casa e di un lavoro ad attenderli oltre le mura del manicomio. E, anche se può apparire incredibile, queste disposizioni sono ancora oggi vive nel nostro sistema giuridico. La riforma dell'ordinamento penitenziario del 197510 ha modificato il nome del manicomio giudiziario in quello di “ospedale psichiatrico giudiziario”, senza per questo incidere sul meccanismo di internamento. Il sistema continua a fondarsi sulla nozione di pericolosità sociale, che, come scrive Foucault
La nozione di pericolosità significa che l'individuo deve essere considerato dalla società al livello delle sue possibilità e non dei suoi atti, non al livello delle infrazioni effettive ad una legge anche effettiva, ma delle possibilità di comportamento che esse rappresentano11.
Un sofferente psichico, autore di un reato, è recluso in una istituzione manicomiale, affidata al controllo di agenti di polizia penitenziaria, insieme a centinaia di altre persone come lui, senza ricevere alcun tipo di assistenza specialistica. E non può sapere quando tutto questo terminerà. Si determina un legame inscindibile tra il dispositivo, psichiatrico e giuridico, che conduce alla detenzione e le condizioni materiali che si producono nel manicomio. Non si può comprendere questa storia senza questi elementi di analisi. Perché non raccontiamo solo la vicenda del processo, nato dal memoriale di denuncia di Aldo Trivini, internato nel manicomio criminale di Aversa nel 1974, ma qualcosa di più.
Questa storia si snoda all'interno del manicomio giudiziario più noto in Italia, quello di Aversa, il primo realizzato in questo paese. La scelta della sua collocazione non fu casuale. Nella stessa città era presente un grande manicomio civile, diretto da un esponente di primo piano del positivismo criminologico, Gaspare Virgilio. Fu lui ad ottenere, nel 1876, che fosse aperta una sezione per criminali all'interno del manicomio civile. Sostenne, con successo, che la migliore collocazione per un nuovo manicomio criminale fosse accanto a quello civile12. Fu poi per “gemmazione” che, da quello di Aversa, nacquero altri due manicomi, uno a Napoli e l'altro, femminile, a Pozzuoli. La sua fama è dovuta ad aver “ospitato” controversi protagonisti della cronaca nera. A cominciare da Giovanni Passannante, l'anarchico che attentò, senza esito, alla vita del re Umberto I. Il suo primo direttore, Filippo Saporito, psichiatra, fu autore di periziedi casi celebri alle cronache, come quello di Leonarda Cianciulli, la cosiddetta saponificatrice, o del brigante Giuseppe Musolino13. In tempi relativamente più recenti, vi fu detenuta la contessa Pia Bellentani, moglie di un nobile industriale milanese, internata nel 1948, per aver ucciso il suo amante. Già dal primo dopoguerra il manicomio aveva la fama di essere il più moderno di Europa. Nel periodo in cui la nostra storia si svolge, tra il 1974 e il 1979, nel manicomio era detenuto anche il fondatore della nuova camorra organizzata, Raffaele Cutolo, che evase, uscendo dal portone principale, dopo aver corrotto alcuni agenti. Se, infatti, per tanti il manicomio rappresentava un luogo senza uscita, per gli esponenti della criminalità organizzata, sani e lucidi di mente, il manicomio costituiva un luogo in cui potersi muovere con maggiore libertà e dal quale, all'occorrenza, evadere senza difficoltà.
Per molto tempo la storia dei manicomi giudiziari è stata, esclusivamente, la storia degli psichiatri che li hanno diretti, resi celebri dal potere derivante dalla funzione e dalle perizie effettuate sugli internati famosi. Una storia auto-celebrativa di simposi di freniatria, di sperimentazioni al limite della tortura, di terapie moralizzanti e di paternalismi pseudoscientifici. Quello che è avvenuto, per oltre un secolo, all'interno di queste mura è avvolto in un silenzio che non potrà mai essere davvero infranto. Se si sono date testimonianze sulle orribili condizioni dei ricoverati nei manicomi civili, frammentarie e rare sono quelle sulle condizioni di internamento in un manicomio giudiziario. Unica, nel suo genere, quella che riproponiamo nelle pagine che seguono. Dobbiamo, infatti, arrivare agli anni '70, quando più forte è movimento di critica psichiatrica per trovare la prima articolata testimonianza della vita all'interno di un manicomio giudiziario. Si deve a Maria Luisa Marsigli, una nobildonna, che pubblica, nel 1973, per la casa editrice Feltrinelli, un diario sulla propria esperienza di internamento a Castiglione delle Stiviere, avvenuta tra il 1968 il 1970. La Marsigli è una figura atipica tra quelle che vivono internate nei manicomi criminali. Non è una “folle”, è molto colta, poliglotta e coglie, immediatamente, i tratti repressivi del manicomio dove è finita, in modo inaspettato, nella convinzione di rendere più lieve la sua posizione processuale. La sua è, potremmo dire forzando un po' la mano, una condizione di relativo “privilegio”. Gli stessi psichiatri pur esercitando con arbitrio il proprio potere, hanno nei suoi confronti un atteggiamento diverso di quello che hanno nei confronti delle altre internate. Lei tiene un diario della sua esperienza, come forma si sopravvivenza personale
(…) cerco di convincermi che sono qui come una cronista per scrivere la storia di un manicomio. Altrimenti sono certa che non potrei sopravvivere in mezzo ai pazzi criminali senza diventare pazza io stessa. La pazzia è contagiosa, tanto è vero che sia i medici sia gli infermieri quando commettono gravi infrazioni contro la legge hanno delle attenuanti: il vivere qui può sgretolare il sistema nervoso di chiunque14
Ben diverse le testimonianze contenute nel memoriale di Aldo Trivini (e del processo che ne scaturì). Il racconto dell'ingresso e la permanenza nel manicomio è una testimonianza fondamentale, non mediata da codici culturali di alto profilo o da una viva capacità di interpretazione dei fatti. Un racconto semplice, che descrive la crudele brutalità del quotidiano e che costituisce un caso unico, anche per la storia delle testimonianze provenienti dal carcere.
Qualche dato è necessario per comprendere il contesto nel quale i fatti si svolgono. Nel 1974 sono internati nei manicomi giudiziari 1.239, persone, 144 delle quali donne. Rappresentano il 5% della popolazione allora detenuta in Italia (28.216 detenuti), una piccola percentuale di uomini invisibili15. Meno della metà ha commesso reati “gravi”, larga parte costituiscono parte di una marginalità di disperati, epilettici, “scemi del villaggio”, abbandonati a sé stessi. Si deve ad un evento drammatico (di cui diremo più diffusamente nelle pagine che seguono), la morte di una donna, Antonietta Bernardini, arsa viva nel letto di contenzione del manicomio di Pozzuoli, una inaspettata attenzione pubblica a questi luoghi dimenticati. Attenzione che non riguardò solo i manicomi giudiziari di Aversa e Pozzuoli. Nel 1975 la magistratura apri un'inchiesta su presunti trattamenti di favore nei confronti di alcuni internati nel manicomio di Napoli. Il processo si concluse con l'assoluzione del direttore e degli agenti accusati16.E per alcuni anni il silenzio si rompe. Nel 1976, il direttore del manicomio giudiziario di Reggio Emilia e cinque agenti furono indagati per maltrattamenti nei confronti di alcuni internati. Nel 1977, Soccorso Rosso, Medicina Democratica e Psichiatria democratica sollevarono il caso di Antonio Martinelli, morto al letto di contenzione del manicomio giudiziario di Montelupo Fiorentino17. Sono episodi che non ebbero alcun esito giudiziario, ma che indicano che, dopo anni di silenzio, il tema era divenuto di grande evidenza su più fronti.18. Nel 1979, Franco Basaglia, in un giro di conferenze in Brasile, li definì “vere fosse dei serpenti con persone legate ai letti o chiuse in isolamento per mesi”19.
Ma cosa è successo dopo la testimonianza di Trivini e il processo che ne conseguì lo vedremo nella ultima parte. E' ora il caso di cominciare20.

(II) Processo al manicomio criminale

2.1 Un memoriale in procura
Un grande cortile recintato con rete metallica conteneva un gran numero di questi ex cristiani; a circa 3 metri dalla rete con il muro di cinta percorso alla sua altezza da fili di corrente. Appena mi incamminai per raggiungere l’edificio, un buon numero di questi si attaccarono alla rete, guardandomi come se fossi un nuovo animale, che presto sarebbe stato fra loro.
Aldo Trivini
Il sei dicembre 1974, giunge un corposo memoriale di denuncia alla Pretura di Aversa, in provincia di Caserta. Il memoriale, oltre 60 fogli dattiloscritti, è presentato da Aldo Trivini e denuncia le infernali condizioni di detenzione all'interno del manicomio giudiziario di Aversa. Trivini, che nel manicomio è stato internato tra il 1972 e il 1974, dichiara di essere stato “sottoposto ad ogni genere di maltrattamenti e abusi da parte dei pubblici ufficiali addetti alla custodia” e di voler denunciare “fatti e avvenimenti di cui è stato personalmente vittima o testimone”. Al memoriale sono allegate le testimonianze di altri sei internati, raccolte e trascritte da nastri registrati da Trivini con l'aiuto dei suoi legali.
Il manicomio criminal...

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