Solo un fiume a separarci
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Dispacci dalla frontiera

Francisco Cantú, Fabrizio Coppola

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Solo un fiume a separarci

Dispacci dalla frontiera

Francisco Cantú, Fabrizio Coppola

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Pronipote di immigrati, messicano di origine ma americano di nazionalità, Francisco Cantú si potrebbe considerare un esempio di perfetta integrazione. Laureato in diritto internazionale, borsista Fulbright, traduttore, sembrava avviato a una brillante carriera come giornalista e studioso. Finché un giorno, sfidando le paure e le perplessità della sua famiglia, ha deciso di iscriversi all'Accademia di polizia per diventare una guardia di frontiera, convinto che, per capire fino in fondo il fenomeno dei flussi migratori e le storie di ordinaria e straordinaria umanità che lo sottendono, non bastassero i libri, i manuali o le statistiche, ma fosse necessario vedere le cose in prima persona.Sono proprio gli incontri con i nuovi «dannati della terra» che Cantú racconta in Solo un fiume a separarci: i suoi «dispacci dalla frontiera», pubblicati per la prima volta nel febbraio 2018, mentre l'amministrazione Trump rilanciava con insistenza il progetto di un muro tra Stati Uniti e Messico, hanno suscitato clamore e un dibattito appassionato, che ha portato il libro alle prime posizioni nella classifica dei bestseller.

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PARTE II

Mia madre mi chiamò Francisco in onore del santo di Assisi, il protettore degli animali. La sera, a letto, mi leggeva I fioretti di san Francesco, un’antologia di scritti medievali. Mi leggeva delle sue prediche agli uccelli, della fratellanza nella povertà, e della prima rappresentazione della natività, che san Francesco realizzò con animali vivi all’interno di una grotta nel paesino di montagna di Greccio. Mi leggeva anche la storia di un lupo terrificante che assediava la città di Gubbio e divorava non solo il bestiame ma anche gli uomini che si avventuravano nelle campagne. È scritto che a quel tempo gli abitanti di Gubbio «erano in grande allarme, e di solito giravano armati, come se stessero andando in guerra. Per timore del lupo, non osavano superare le mura cittadine».
San Francesco, che al tempo viveva a Gubbio, annunciò alla popolazione che avrebbe varcato le porte della città per avventurarsi nella tana del lupo. Attraversò le campagne insieme a un gruppetto di cittadini che lo seguiva a distanza per assistere al suo incontro con l’animale. Quando Francesco si avvicinò alla tana, il lupo corse verso di lui con le fauci spalancate e uno sguardo assassino negli occhi, ma il santo fece il segno della croce e il lupo immediatamente chiuse le fauci e si accucciò cheto ai suoi piedi. «Fratello lupo», disse Francesco, «tu hai fatto molto male in questa terra, aggredendo e uccidendo le creature di Dio senza il suo permesso. E non hai ucciso soltanto gli animali, ma hai osato anche divorare molti uomini». Il lupo abbassò il capo in un gesto di consapevolezza. «Gli uomini gridano contro di te», continuò il santo. «Tutti gli abitanti di questa città sono tuoi nemici. Ma io riporterò la pace tra te e loro, fratello lupo».
San Francesco propose un patto: in cambio della promessa di smettere di sbranare le bestie e divorare gli uomini, gli abitanti di Gubbio lo avrebbero nutrito ogni giorno per il resto del tempo che gli rimaneva da trascorrere sulla terra. «Tu non soffrirai più la fame», disse al lupo, «perché è la fame che ti ha condotto a commettere tutto quel male». Il santo distese un braccio e chiese al lupo se intendesse rispettare la promessa. Nel corso dei secoli, il segno di accettazione del patto da parte del lupo è stato rappresentato in numerosi dipinti, illustrazioni, affreschi e statue. L’animale è ritratto con il capo chino in un gesto remissivo, o con una zampa poggiata sul palmo del santo, o ancora eretto sulle zampe posteriori e con il muso poggiato al petto di Francesco, come se volesse leccargli il viso.
Il dentista mi introdusse uno specchietto in bocca, muovendo il capo e orientando lo strumento in diverse angolazioni contro le mie guance. Per diversi minuti mi esaminò e picchiettò i denti, raschiando delicatamente le gengive con un lungo ferro. Poi alzò lo sguardo verso di me. «Sa di soffrire di bruxismo?», mi domandò. Lo guardai. «Come?» «Lei digrigna i denti», disse. «Lo sapeva?» «Ah», risposi, «no, non lo sapevo». «Be’, la situazione sembra grave», aggiunse. Io mi guardai intorno, sentendomi prendere da uno strano panico. «Non ne avevo idea», dissi. «Non c’è niente di cui preoccuparsi», mi rassicurò. «Si tratta di un problema piuttosto comune. Anche se a quanto pare è comparso da poco: nelle sue cartelle cliniche non ho trovato nulla al riguardo».
«Che lavoro fa?», mi chiese il dentista, prendendo la cartella dal ripiano. «Sono un agente della polizia di confine», dissi. «Wow», esclamò. «Dev’essere eccitante. Dov’è di base, qui a Tucson o nel deserto?» Pensai per un attimo a quanto potessi rivelargli – non sapevo dire se si trattasse di una sorta di interrogatorio o se il dentista intendesse soltanto mostrarsi amichevole. «Be’», iniziai, «fino a un paio di settimane fa lavoravo sul campo. Ero di stanza in un comando a qualche ora da qui, nel bel mezzo del nulla. Ma mi è stato appena affidato un incarico presso il quartier generale qui in città. Intelligence di basso livello». «Capisco», disse il dentista. «È molto stressante? Il bruxismo, sa, è collegato allo stress». Quella domanda mi sorprese – nessuno me l’aveva rivolta in modo così diretto. Feci una pausa per riflettere. «Non è stressante», risposi. Il dentista si limitò a mugugnare, prima di aggiungere: «A me sembra stressante, eccome». Pensai ai miei incubi. «Be’», confessai, «il lavoro sul campo a volte è particolarmente intenso. Ma ormai me ne sto davanti a un computer».
Il dentista aggiunse qualche appunto sulla mia scheda. «Quindi, perché ha deciso di lasciare il servizio attivo?», chiese. «Non si annoierà, adesso?» Iniziai a sentirmi infastidito da tutte quelle domande, temendo di apparire codardo o insicuro. «È stata una specie di promozione», risposi. «L’occasione per imparare qualcosa di nuovo. Un altro lato del mestiere, no?» Il dentista mi fissò e scrollò le spalle. «Anch’io lavoravo in ufficio», mi disse. «Non c’è molto da imparare seduti davanti allo schermo di un pc». Alzai gli occhi al cielo e scossi il capo. «Senta», sbottai, alla fine, «non saprei cos’altro dirle. Pensavo che mi avrebbe fatto bene lasciare per un po’ il servizio attivo e trasferirmi in città». «D’accordo, d’accordo», rispose, alzando le mani. «La capisco. Sto solo cercando di assicurarmi che la smetterà di digrignare i denti».
Hayward ci illustrò il nuovo lavoro. Sei di noi, provenienti da diverse centrali sparpagliate nel Settore di Tucson e per la maggior parte con un’anzianità inferiore ai cinque anni, erano stati assegnati alla nuova centrale dell’intelligence. Ci accompagnò in un ufficio dove ci furono consegnati i nuovi tesserini di riconoscimento e ci fu mostrato il funzionamento del sistema computerizzato di ingresso, poi ci portò a fare un giro della sede. «Sembra di essere al comando spaziale della NASA», scherzò Hayward. La stanza pareva un antro, priva di finestre e riempita dal suono dell’aria che filtrava dalle grate del sistema di ventilazione poste sul pavimento. Una miriade di computer con doppio schermo era sistemata attorno a una parete ricoperta di monitor che rimandavano le immagini di alcune telecamere di sorveglianza, una serie di mappe aggiornate in tempo reale e i canali all news delle maggiori emittenti via cavo.
«Qui teniamo traccia di ogni cosa», ci spiegò Hayward. «Tutti voi dovrete compilare un registro dettagliato per ogni turno e consegnare quotidianamente un verbale ai responsabili di Settore in cui riassumerete gli accadimenti significativi avvenuti nell’area. Dovrete rispondere alle chiamate dalle diverse centrali e occuparvi della posta elettronica. Raccoglierete e distribuirete i rapporti di intelligence e le disposizioni di sicurezza, registrerete l’apertura e la chiusura dei checkpoint e dei blocchi stradali, controllerete gli eventi meteorologici maggiori come le tempeste o gli incendi, e via dicendo. Insomma, avete capito. Il nostro compito principale è quello di registrare ogni incidente significativo occorso nelle diverse centrali – sparatorie che hanno coinvolto i nostri agenti, rinvenimento di cadaveri, di grandi quantitativi di droga o di armi, arresti di membri di spicco dei cartelli e roba del genere. Dovrete rispondere alle chiamate dei supervisori delle centrali e annotare l’orario dell’evento, le coordinate GPS e il numero degli agenti coinvolti, per poi scrivere un resoconto dei fatti. Il resto è un gioco da ragazzi. Avrete un sacco di tempi morti, ma da queste parti passano un sacco di pezzi grossi, quindi cercate di sembrare sempre impegnati, assicuratevi di avere sempre gli anfibi lucidati e l’uniforme stirata a dovere e non risparmiate sui “Signore” e sui “Signora”».
Fuori dall’edificio, Hayward fu molto franco con noi, prima di spedirci a casa in anticipo. «Per voi che venite direttamente dal servizio sul campo, per un po’ questo lavoro potrà sembrare noioso da far schifo. È successo anche a me». Poi ci spiegò che preferiva l’azione ma sua moglie voleva che facessero ritorno in Virginia, e per chiedere il trasferimento lui doveva fare carriera. «Sarò sincero con voi, ragazzi», disse. «Sto cercando di andarmene dal Settore di Tucson il più presto possibile. E questa è un’ottima opportunità per me in quanto supervisore – un sacco di possibilità di promozione. Potrebbe addirittura aiutare me e mia moglie ad andare a Washington D.C., un giorno, ed è questo il motivo per cui mi trovo qui, per dirla senza fronzoli. Ma anche per voi si tratta di un’ottima opportunità, un buon trampolino di lancio se volete fare carriera o essere assegnati in maniera definitiva ai servizi di intelligence. E poi, cazzo, farete turni da otto ore per cinque giorni a settimana, e vivrete in città». «E c’è anche l’aria condizionata», intervenne un agente. «Esatto», disse Hayward. «Non c’è nulla di meglio dell’aria condizionata».
Ogni giorno nella sede dell’intelligence del Settore ricevevamo un’email della DEA attraverso un indirizzo di posta condiviso. Il messaggio conteneva foto e stralci di informazioni provenienti dai media americani e messicani relativi alle attività recenti dei cartelli della droga in entrambi i paesi. Quegli estratti includevano immagini di cadaveri che erano stati fatti a pezzi e le cui parti erano state sparpagliate nel deserto, oppure raggruppate alla rinfusa e nascoste o ancora lasciate in bella mostra come per obbedire a un antico e sanguinoso rituale. I volti delle vittime sembravano congelati nell’istante del decesso e si affacciavano dai nostri monitor senza identità né storia, separati dai corpi che avevano abitato e dalle relazioni umane che li avevano sostenuti.
Ogni email era organizzata come un elenco puntato in cui ogni voce offriva poco più del nome del luogo, seguito da una breve descrizione della carneficina che vi si era svolta. Acapulco, stato del Guerrero: due cadaveri smembrati in ventitré parti ritrovati accanto all’ingresso di un bar karaoke, le teste appese a corde di velluto, la pelle dei volti staccata e sistemata sulla sommità di un palo. Nuevo Laredo, stato del Tamaulipas: Quattro cadaveri mutilati lasciati in mostra in un’area del centro molto trafficata, insieme a un messaggio da parte dei narcos: Questo è accaduto perché sono una spia e una femminuccia, ma giuro che non lo farò più. Tepic, stato del Nayarit: due maschi non identificati giustiziati e lasciati di fronte a un negozio di quartiere. Secondo alcuni testimoni, sono stati spellati vivi, prima che gli venisse strappato il cuore dal petto. Città del Messico: il corpo decapitato di un uomo ritrovato a bordo di un pick-up di fronte a una scuola elementare. Il corpo sul sedile del guidatore, la testa sul cruscotto. Zihuatanejo, stato del Guerrero: due cadaveri abbandonati lungo la statale, accompagnati da un messaggio dei narcos: Ecco la vostra spazzatura, per favore inviatene ancora.
Sogno di serrare le mascelle. Non riesco a smettere, non riesco a riaprirle. Stringo sempre più forte finché la pressione si fa insopportabile. Poi, dapprima con lentezza, i molari iniziano a sgretolarsi e a esplodere.
Sogno che si stacca un frammento di un dente. Lo avverto in bocca. Appena reggo la scheggia nel palmo, sento che anche gli altri denti si stanno spezzando. Tengo la bocca chiusa in modo da non perdere i pezzi fino a quando non diventano troppi e devo sputarmeli in mano. Li osservo disperato.
Sogno di serrare i denti, muovendo la mascella a destra e a sinistra. I denti restano impigliati e si spezzano, come se venissero strusciati su una superficie accidentata.
Sogno che ogni volta in cui chiudo la bocca i denti superiori restano incastrati in quelli inferiori. Cerco con estrema cautela di riaprire la mascella, per liberarli lentamente, ma i denti sono ancora bloccati, sfregano l’uno contro l’altro, si crepano e mi si sgretolano in bocca.
Sogno che i molari cadono a pezzi e mi riempiono la bocca come grumi di fango indurito.
Sogno di essere nello studio del dentista. Digrigno i denti nella sala d’attesa, implorando la segretaria di farmi entrare. Lei mi porge un bite, ma non serve a molto. Ondate di pressione mi attraversano le gengive, crepando e spezzando i denti come se fossero disposti lungo una faglia.
Sogno di essere sveglio e di digrignare davvero i denti finché non mi esplodono in bocca. Cerco disperatamente di fermarmi. Cerco disperatamente un aiuto. Questo non è un sogno, mi dico. Gli altri incubi erano diversi – questa è la realtà.
Per il suo libro Amexica: War Along the Borderline, Ed Vulliamy ha intervistato più volte il dottor Hiram Muñoz, il capo del reparto di autoptica forense della sezione omicidi di Tijuana, che ha dedicato la propria vita al tentativo di decifrare il linguaggio nascosto negli omicidi perpetrati dai cartelli:
Ogni diversa mutilazione trasmette un messaggio molto chiaro. Sono diventate una specie di tradizione popolare, ormai. Se la lingua è stata asportata, vuol dire che la vittima aveva parlato troppo: una spia, o chupro. A un uomo che ha cantato, tradendo il suo clan, di solito le dita vengono amputate e poi infilate in bocca. [...] E chi subisce un’evirazione [...] probabilmente è andato a letto con la donna di un altro criminale, o forse l’ha solo guardata nel modo sbagliato. L’amputazione delle braccia indica il furto della merce di cui la vittima era responsabile, mentre quella delle gambe fa riferimento a un tentativo di abbandonare il cartello. La decapitazione è tutt’altra cosa: non è altro che una dimostrazione di forza, un avvertimento per tutti, al pari delle esecuzioni pubbliche nei secoli passati. La differenza sta nel fatto che una volta i cadaveri «sparivano», cioè venivano scaricati nel deserto. Adesso invece le vittime vengono giustiziate e i loro corpi esibiti in modo che tutti vedano, così ogni omicidio si trasforma in un atto di guerra nei confronti della gente.
Mia madre venne a trascorrere qualche giorno a Tucson per consultare un cardiologo raccomandatole da un amico. Quando me ne parlò, ne fui sorpreso. «Cos’ha il tuo cuore che non va?», le domandai. «Niente di grave», mi rispose. «Palpitazioni». Mi rivolse un debole sorriso. «È come se il mio cuore si annoiasse adesso che sono in pensione».
Dopo la visita, preparammo insieme la cena e ci sedemmo in giardino a osservare il sole che tramontava dietro le cime delle montagne ricoperte di lava solidificata. «Nella sala d’attesa del cardiologo ho parlato con il proprietario di un ranch», disse mia madre quando ci fummo seduti a tavola. «Le proprietà di questo tizio si estendono per un bel pezzo lungo il confine. Non crederesti a quello che mi ha raccontato». «Dici?», risposi. «Io temo di sì, invece».
Mi disse che questo tizio le aveva raccontato di un ragazzo che conosceva, che un giorno si era presentato a scuola con una macchina nuova molto costosa. Tutti nella cittadina pensarono che fosse coinvolto nel traffico di droga, ma il proprietario del ranch aveva scoperto che ogni giorno, dopo la scuola, il ragazzo andava da McDonald’s e comprava un sacco di hamburger. E poi li portava in una baracca o in qualche nascondiglio utilizzato dai migranti clandestini, e glieli vendeva al doppio del prezzo. Lo aveva fatto ogni giorno, le aveva detto il tizio, finché non aveva messo via abbastanza denaro per comprarsi quella macchina.
Il proprietario del ranch le aveva anche detto che spesso riceveva telefonate da uomini che volevano acquistare dei terreni per allevare bestiame. Ma quella gente comprava gli appezzamenti senza poi impiantarvi alcuna attività – non sapevano nulla di ranch e di allevamento, le aveva spiegato. Volevano i terreni in modo da poter dare la caccia ai clandestini lungo il confine. Si trasferivano in zona e poi invitavano altri a unirsi a loro, uomini equipaggiati con armi d’assalto, visori notturni e giubbotti antiproiettile. Il tizio aveva detto a mia madre che non sopportava avere a che fare con quegli individui. Che li odiava, anche se li capiva.
Poi il tizio aveva ammesso che era difficile mandare avanti un ranch lungo il confine. Aveva perso il conto delle volte in cui gli erano entrati in casa. Di solito i clandestini prendevano solo cibo e acqua, ma ogni tanto rubavano anche qualche attrezzo e altre cose che avrebbero potuto rivendere.
«La polizia di confine è sempre troppo lontana», aveva detto. «Non sono mai riusciti a fare nulla». Mia madre mi spiegò che a quel punto il tizio si era infuriato. «Ciò che fa il governo è disumano», le aveva detto. «La polizia di confine non impedisce a questa gente di entrare nel territorio americano, li lasciano passare per poi inseguirli – a trenta, quaranta, anche cinquanta miglia a nord del confine. Permettono che gettino scompiglio nei ranch, e poi li lasciano morire nel deserto».
Gli occhi di mia madre diventarono due fessure. «È vero?», mi domandò. «Temo che sia un po’ più complicato di così», risposi. «La definirei un risultato indesiderato». Lei inclinò il capo e mi fissò con uno sguardo scettico. Io le rivolsi un’occhiataccia. «Cosa vuoi che ti dica?», la aggredii. «Che gli agenti spingono deliberatamente i migranti verso la morte? Non sono gli uomini in servizio attivo a scrivere le regole d’ingaggio. Noi ci limitiamo a perlustrare i luoghi che ci vengono indicati». Mia madre scosse il capo come se le mie parole fossero quelle di un fanatico o un difensore del governo. Distolsi lo sguardo. Una colonna di formiche si stava arrampicando su una gamba della mia sedia. «In ogni caso», dissi, «non sono più in servizio attivo». Mia madre distese un braccio e mi sfiorò una mano. «Questo mi fa felice. Ciò che mi interessa più di ogni altra cosa è la tua sicurezza». Alzai lo sguardo e la fissai negli occhi. Sorrideva appena.
«Questo tizio», riprese mia madre, «mi ha raccontato che spesso vede degli uomini sul bordo della strada che chiedono un passaggio per tornare in Messico. Ha detto che fingono di essere feriti oppure si sdraiano nel mezzo della carreggiata per costringere gli automobilisti a fermarsi. E se qualcuno si ferma, quegli uomini saltano nel retro del pick-up e si rifiutano di scendere, fingendo di non capire quando gli dice di andarsene. Ha detto che quegli uomini lo spaventano, che lo fissano con ostilità e che a volte riconosce anche sui loro volti e sulle loro braccia i tatuaggi che si fanno i galeotti». Mia madre scosse il capo. «Mentre lo ascoltavo, non riuscivo a pensare ad altro che a te, che fai quel lavoro nel deserto, costretto ad affrontare gente di quel tipo da solo». Mi fissò. «Non sai quanto sono felice che tu abbia lasciato il servizio attivo», disse. «Sono felice che tu sia al sicuro, adesso».
Guardai oltre il giardino. «Be’», risposi, «perlomeno tu sei felice». Mia madre inclinò il capo. «Ah», disse, «non ti piace il nuovo incarico?» Scrollai le spalle. «Non lo so. Tutti dicono che è stata una mossa azzeccata. E di sicuro è una buona idea passare all’intelligence dopo qualche anno sul campo, contribuire a mettere insieme il quadro generale della situazione. Ma il lavoro sembra più eccitante di quanto non sia in realtà». Fissai il profilo dei rilievi vulcanici in lontananza. «E ha il sapore amaro di una ritirata», aggiunsi, alla fine.
I migranti che sopravvivono al viaggio attraverso l’entr...

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