Le pietre e il popolo
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Le pietre e il popolo

Tomaso Montanari

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Le pietre e il popolo

Tomaso Montanari

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Perché il valore civico dei monumenti è stato negato in favore del loro potenziale turistico, e quindi economico? Perché la «valorizzazione» del patrimonio culturale ci ha indotti a trasformare le nostre città storiche in «luna park» gestiti da avidi usufruttari?Lo storico dell'arte Tommaso Montanari ci accompagna in una visita critica del nostro paese: da una Venezia i cui palazzi diventano gli showroom dei nuovi sedicenti «mecenati» a una Firenze dove si affittano gli Uffizi per le sfilate di moda e si traforano gli affreschi di Vasari alla ricerca di un Leonardo inesistente, da una Napoli dove si progettano megaeventi mentre le chiese crollano e le biblioteche vengono razziate all'Aquila che giace ancora in rovina mentre i cittadini continuano a vivere nelle new town, scopriamo che l'idea di comunità è stata corrotta da una nuova politica che ci vuole non cittadini partecipi, ma consumatori passivi. Con una nuova introduzione dell'autore torna in libreria Le pietre e il popolo, non solo un durissimo pamphlet contro la retorica del Bello che copre lo sfruttamento delle città d'arte ma anche un manuale di resistenza capace di ricordarci che la funzione civile del patrimonio storico e artistico è uno dei principi fondanti della nostra democrazia, e che l'Italia può risorgere solo se si pensa come una «Repubblica basata sul lavoro e sulla conoscenza».

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Information

CITTÀ SENZA CITTADINI

O patria mia, vedo le mura e gli archi
E le colonne e i simulacri e l’erme
Torri degli avi nostri,
Ma la gloria non vedo.

Giacomo Leopardi, «All’Italia»

Eclissi di Siena

C’è un motivo per cominciare da Siena. Qui nel 1309 si deliberò di
fare scrivere uno statuto del Comune, di nuovo in volgare di lettera grossa, bene leggibile et bene formata, in buone carte pecorine [...] el quale statuto sia et stare debia legato ne la Biccherna, acciocché le povare persone et altre persone che non sanno grammatica, et li altri e’ quali vorranno, possano esso vedere et copia inde trarre et avere a loro volontà.[5]
Una delle norme del Costituto, così si chiamava, prescriveva che
intra li studi e solecitudini e’ quali procurare si debiano per coloro e’ quali ànno ad intendere al governamento de la città è quello massimamente che si intenda alla belleza della città, perché la città dev’essere onorevolmente dotata et guernita, tanto per cagione di diletto et alegreza de’ forestieri quanto per onore, prosperità et acrescimento de la città e de’ cittadini di Siena.
Dunque, proprio nei mesi in cui Dante scriveva la Commedia – dove innalzava la lingua figurativa di Cimabue e Giotto accanto a quella di Guinizelli, di Cavalcanti e di lui stesso – a Siena ci si preoccupava di dire che quella lingua di forme e figure era un fatto pubblico: la bellezza della città era legata direttamente all’onore dei cittadini, e doveva essere al centro delle preoccupazioni del governo comunale.
È proprio grazie a questa altissima e antichissima civiltà se oggi Siena è, e appare, come una città in cui le pietre e i cittadini hanno ancora un nesso vitale: la conchiglia della piazza del Campo, la Torre del Mangia, il Duomo sono luoghi che non solo rappresentano, ma in qualche modo alimentano l’identità comune dei senesi, senza alcuna retorica passatista, ma anzi con uno straordinario potere di attualizzare la storia nel senso migliore. Le singole comunità delle contrade, poi, punteggiano di luoghi ad alta densità simbolica tutto il tessuto cittadino: le fontanine dei battesimi contradaioli, gli oratori, le sedi, i musei delle vittorie del Palio sono altrettante vive giunture che connettono la città, e la sua storia, ai cittadini.
Eppure l’episodio più clamoroso di privatizzazione e messa a reddito del patrimonio storico di una città, l’esempio più degradante della trasformazione istantanea di cittadini in clienti, ha avuto luogo proprio sull’acropoli di Siena.
Se abbiamo ancora oggi il Duomo di Siena – con la sua foresta di statue, le sue vetrate, il suo pavimento unico al mondo – non lo dobbiamo alla clemenza del caso, ma al lavoro dell’Opera della Metropolitana, l’istituzione che da quasi ottocentocinquant’anni si occupa della manutenzione del gran corpo della cattedrale, sede dell’arcivescovo metropolita. Oggi, tuttavia, nubi tempestose si affollano sul destino di quella gloriosa istituzione: dove non hanno potuto la Peste Nera, la caduta di Siena e la dominazione medicea sta colpendo il cinico marketing del patrimonio artistico.
Un’interrogazione parlamentare della deputata del Partito Democratico Susanna Cenni ha rivelato che il 29 aprile del 2011 (festa di santa Caterina, la sanguigna patrona di Siena) l’Opera (che è una onlus con un volume d’affari annuo di sei milioni di euro) ha ceduto un ramo d’azienda (quello che si occupa di accoglienza, marketing e – tenetevi forte – iniziative culturali), con ben dodici dipendenti (i quali hanno fatto ricorso, impugnando la cessione), a una società privata con fini di lucro: Opera Laboratori Fiorentini, una controllata di Civita, che è la più grande impresa privata italiana che si occupi di gestione del patrimonio artistico pubblico. La cessione è avvenuta per un prezzo incredibilmente esiguo (42.000 euro) e, contemporaneamente, l’Opera della Metropolitana ha appaltato a Opera Laboratori quelle stesse funzioni. L’interrogante ha chiesto al ministro degli Interni (il quale, attraverso il prefetto di Siena, nomina i vertici dell’Opera) se questa singolare operazione non finisca per modificare occultamente la natura dell’ente, da onlus a normale azienda, rischiando inoltre «di mettere in discussione la centralità degli enti cittadini nella gestione del proprio patrimonio culturale, diminuendo attività e prestigio di una delle più antiche istituzioni italiane ed europee».
E i dubbi sono più che fondati, visto che Opera Laboratori Fiorentini è uno dei pilastri del discutibile sistema del Polo Museale di Firenze così com’è stato costruito da Antonio Pao­lucci (l’ex soprintendente di Firenze, e dimenticabile ministro dei Beni culturali, attuale vicepresidente del Consiglio superiore dei Beni culturali della Repubblica italiana anche se direttore dei Musei Vaticani: e soprattutto presidente del Consiglio scientifico di Civita), e poi ereditato dall’attuale soprintendente fiorentina, Cristina Acidini. Pochi giorni prima dell’interrogazione che ha svelato la clamorosa transazione senese, un cronista del Giornale della Toscana ha annunciato di essere stato assunto come addetto stampa dell’Acidini, specificando che il suo stipendio sarà pagato proprio da Opera Laboratori Fiorentini: così quest’ultima impresa parteciperà a gare (per mostre, gestioni museali e servizi aggiuntivi) in cui dovrà essere selezionata dalla soprintendente a cui paga il portavoce.
Sarà il ministro dell’Interno, e poi forse la magistratura, a dirci se è in corso una mutazione genetica dell’Opera della Metropolitana. Secondo Italia Nostra e i suoi giuristi questa cessione è «palesemente illecita, illegittima e perciò nulla», perché avvenuta in violazione dello statuto dell’Opera della Metropolitana. In sostanza, Italia Nostra dice che quest’ultima istituzione non è un’azienda, non agisce per fini di lucro e deve continuare a operare per l’interesse pubblico: può, al limite, diventare (come è successo) una onlus, ma non già vendere proprie parti a un’azienda. Insomma, sarebbe come se – per rimanere a Siena – il Liceo Piccolomini cedesse alcune delle sue sezioni al CEPU, o se tre reparti dell’Ospedale delle Scotte fossero ceduti a una clinica privata. È per questo che Italia Nostra denuncia il fatto che tali contratti, «realizzando il soddisfacimento di un interesse privato», contrastano «clamorosamente con l’interesse pubblico».
Ma anche se non emergeranno implicazioni fiscali o penali, esiste un colossale problema culturale. L’Opera è un bene comune per eccellenza, chiamato da secoli a fare gli interessi della collettività, cioè a contribuire all’«onore, prosperità et acrescimento de la città e de’ cittadini di Siena», per usare le parole del Costituto trecentesco: come si concilia con questa lunga storia l’idea di appaltare, e addirittura cedere, le sue iniziative culturali a una società privata con fini di lucro?
L’esperienza ventennale della concessione ai privati dei cosiddetti servizi aggiuntivi dei musei italiani «assomiglia ad una soluzione di abdicazione rispetto a competenze centrali da parte degli enti pubblici di gestione» (così, già nel 2009, Stefano Baia Curioni e Laura Forti, economisti della Boc­coni).[6] Il mondo che vive delle concessioni del Ministero dei Beni culturali presenta molti lati oscuri, e non di rado appare un bizzarro ircocervo di clientelismo parastatale d’antan, marketing all’amatriciana, incompetenza e improvvisazione. Di recente, l’amministratore delegato di Opera Laboratori Fiorentini ha dichiarato che gli pare normale assumere i parenti dei dipendenti (magari illustri) del Polo Museale Fiorentino di cui è concessionario: «a parità di condizioni, scegliamo qualcuno di cui ci possiamo fidare».[7] Se il Mibac non fosse una perpetua sede vacante, i tempi sarebbero maturi per un azzeramento generale delle concessioni, e per un’azione di moralizzazione e trasparenza che smantelli i monopoli intorno a cui ruota questa silenziosa e implacabile privatizzazione e «mercatizzazione» della funzione civile del patrimonio italiano.
La più grande holding del settore è proprio Civita, nata nel 1987 – così si legge nel sito – dalla «straordinaria intuizione di coniugare il mondo della cultura con quello dell’imprenditoria». Nell’estate del 2009, cioè nel momento in cui Civita Servizi acquista – è sempre il sito – «la maggioranza del capitale di Opera Laboratori Fiorentini, un’importante Società nel settore culturale che, tra l’altro, gestisce la Galleria degli Uffizi», i vertici dell’Associazione Civita sono così composti: presidente onorario Gianni Letta, presidente Antonio Maccanico, vicepresidente Bernabò Bocca, segretario generale Albino Ruberti, direttore Giovanna Castelli. Alla stessa data, il presidente di Civita Servizi è Luigi Abete.
Cosa vuol dire affidare a una simile piramide di interessi economico-politici e di boiardi del para-Stato la «gestione» degli Uffizi? Cosa vuol dire cedere alla stessa struttura le «attività culturali» dell’Opera del Duomo di Siena?
Vuol dire, per esempio, che quelle attività culturali non obbediranno alle regole della conoscenza, ma a quelle del marketing, e che non si rivolgeranno a cittadini, ma a clienti. Una prova? Pochi mesi dopo la cessione a Civita, nell’estate 2011, nella cosiddetta «cripta» sotto il Duomo è stato esposto il Battesimo di Gesù di Tiziano dei Musei Capitolini di Roma (gestiti da una società sorella di Civita, come vedremo). L’invito diffuso da Civita affermava che «l’eccezionale prestito dell’opera, che si allontana per la prima volta dalla sua tradizionale sede espositiva, è l’occasione per un dialogo tra il capolavoro di Tiziano e le opere permanenti del complesso monumentale del Duomo di Siena».
E, se non ci fosse da piangere, ci sarebbe di che sbellicarsi dalle risa. Un’opera del primo, giorgionesco Tiziano lascia la sua sede per sprofondarsi in un contesto da archeologia medievale, a «dialogare» con gli affreschi duecenteschi attribuiti a Guido da Siena e compagni: il che ha lo stesso valore culturale di «far dialogare» una lacca giapponese con una lavatrice, o una sequoia con una pizza margherita.
Ma è solo l’inizio. Dall’altra parte della piazza del Duomo sorge l’antico ospedale di Siena, Santa Maria della Scala, un monumento di rilievo internazionale. Tanto vasto e articolato (200.000 metri cubi) da avere una dimensione più urbanistica che architettonica, il complesso nasce nel Medioevo come ospizio per i pellegrini che percorrono la Francigena, e si accresce fino a occupare tutta la sommità dell’«acropoli» senese. A Siena arte e cittadinanza sono sempre andate a braccetto, e nel corso dei secoli l’Ospedale della Scala si è rivestito di spettacolari opere d’arte: dagli affreschi quattrocenteschi che coprono il Pellegrinaio (la corsia per i pellegrini), a quelli del Vecchietta e di Domenico Beccafumi, fino alla gigantesca Piscina probatica srotolata sull’abside della grande chiesa interna da Sebastiano Conca. E poi il tesoro, le rarissime corsie ospedaliere medievali, cappelle, oratori, strade coperte, sotterranei strepitosi. Che fare di tutto questo ben di dio? Una volta tanto gli storici dell’arte avevano avuto le idee chiare. Nel 1968 il senese Cesare Brandi scrisse sul Corriere della Sera che bisognava sloggiare gli ultimi apparati sanitari dall’ospedale: «E appunto perché unico al mondo dobbiamo vederlo in funzione, con i suoi letti e i suoi ammalati? Insomma questa indecenza deve finire. Il Pellegrinaio si deve poter vedere: come un museo, perché è un museo». L’idea – poi abbracciata con straordinaria forza da un altro grande storico dell’arte, Giovanni Previtali – era quella di trasformare la Scala nel Museo di Siena per eccellenza. Il progetto prevedeva di portarci la Pinacoteca Nazionale (ancora oggi in ambienti assolutamente inadatti, e ora anzi messa a rischio da un demenziale progetto di smembramento per epoche) e il dipartimento di Storia dell’arte dell’università: mostrando così visibilmente cos’è un museo, e cioè in primo luogo un centro di produzione di conoscenza. È per questo che il Comune di Siena comprò e sistemò al Santa Maria la biblioteca di uno dei più importanti storici dell’arte italiani, Giuliano Briganti. Ed è sempre per questo che lì hanno sede anche il Museo archeologico e un centro d’arte contemporanea.
Ma tutti questi frammenti non sono stati mai connessi tra loro, e il grande progetto di Brandi e Previtali non si è realizzato. Perché, a un certo punto, il virtuoso «sistema Siena» si è involuto in un gorgo di clientelismo provinciale che ha inghiottito anche il Santa Maria. L’enorme quantità di quattrini che il Monte dei Paschi faceva piovere sui buoni e sui cattivi ha portato a una degenerazione in cui non contavano più la qualità del progetto, o la qualità delle persone, ma l’affiliazione e la spartizione. È così che la Scala è divenuto uno scatolone per eventi e mostre (alcune – come quelle su Duccio, o sul primo Rinascimento a Siena – belle e importanti, altre pessime, come Arte, genio, follia del 2009), finendo per trasformarsi in una fondazione controllata dal Comune, e non (come invece avrebbe dovuto) in un istituto di ricerca finanziariamente autosufficiente, e soprattutto separato dalla politica. Ora che il Comune è commissariato, l’università è semifallita, e soprattutto il Monte dei Paschi è sprofondato in un baratro finanziario, l’acropoli di Siena rischia di diventare la simbolica tomba dell’idea di cultura come bene comune.
E la lapide potrebbe scriverla ancora una volta Civita. In un’intervista concessa al Corriere di Siena nell’ottobre 2012, l’economo della Curia di Siena monsignor Giuseppe Acampa ha detto apertamente ciò che molti dicevano in privato, e cioè che nel futuro dell’antico complesso ospedaliero potrebbe esserci una gestione unica con il Museo dell’Opera della Metropolitana, e con il Duomo stesso. Questo vorrebbe dire trasformare la Scala nell’ennesimo luna park di lusso delle «città d’arte»: qualcosa che serve non ai cittadini, ma a dei clienti, o a degli spettatori. Dunque si punterà sui cosiddetti «capolavori» della Pinacoteca (e ci si chiede se il resto finirà in deposito, o in un museo di serie B), sui Grandi Eventi, sulle mostre-format di cassetta, sui ristoranti e sul merchandising. In questo caso non servono un progetto intellettuale, né un comitato scientifico. Basta un progetto di gestione, meglio se legato alle dinamiche del governo (e del sottogoverno) locale.
La proposta di monsignor Acampa va con tutta evidenza in questa seconda direzione. È possibile affermarlo perché l’Opera della Metropolitana, a cui si propone di conferire la gestione della Scala, ha già fatto questa identica scelta cedendo le sue attività culturali a una società privata: scartando così l’ipotesi di fare ricerca e produrre conoscenza, e preferendo fare intrattenimento culturale a fini di lucro, come è apparso evidente nell’ultima ostension...

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