L'occhio del regista. 25 lezioni dei maestri del cinema contemporaneo
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L'occhio del regista. 25 lezioni dei maestri del cinema contemporaneo

Laurent Tirard, Tirard L.

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L'occhio del regista. 25 lezioni dei maestri del cinema contemporaneo

Laurent Tirard, Tirard L.

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Quello del regista è uno dei mestieri più complessi e affascinanti del mondo dell'arte, pericolosamente sospeso tra la cura del dettaglio e la visione d'insieme, tra la libertà della creazione individuale e le limitazioni del lavoro collettivo. Un mestiere in cui non esistono regole scritte, e per comprendere il quale non si può dunque prescindere dall'insegnamento dei grandi maestri. In questo volume Laurent Tirard, critico cinematografico e regista lui stesso, ha raccolto le confessioni, le rivelazioni, i consigli pratici di venticinque tra i più grandi registi contemporanei, offrendo al lettore altrettante «lezioni di cinema». L'approccio alla sceneggiatura, il rapporto con gli attori, il posizionamento della macchina da presa, il montaggio: ogni regista racconta le sue predilezioni e i motivi delle proprie scelte artistiche, svelando con insospettabile candore tutti i segreti che si nascondono dietro la creazione di un grande film. Riproposto in una nuova edizione ampliata, L'occhio del regista è una guida indispensabile per chi vuole addentrarsi, da neofita o da semplice curioso, nel mondo della regia cinematografica.

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Information

Publisher
minimum fax
Year
2012
ISBN
9788875214555

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JEAN-LUC GODARD
Parigi, 1930

Da adolescente credevo che Jean-Luc Godard incarnasse tutto quanto c’era di sbagliato nel cinema francese. Adoravo i film hollywoodiani per le loro bellissime riprese, le star affascinanti e le storie divertenti. E poi c’era Godard, che realizzava film alla sua maniera, esattamente all’opposto. Mi ci è voluto del tempo per capire come mai tanti parlassero di lui con ammirazione.
Per ironia, è stato mentre studiavo alla New York University che infine ho cominciato a comprendere come Godard e gli altri registi della Nouvelle Vague avessero rivoluzionato il cinema, aprendo la strada a un approccio del tutto nuovo nella realizzazione dei film. Per quanto sia vero che i registi francesi contemporanei hanno dovuto combattere da allora in poi per svincolarsi dalla Nouvelle Vague, il suo impatto sul cinema è stato incommensurabile. Fino all’ultimo respiro di Godard, o Il bandito delle 11, o Il disprezzo sono di per sé lezioni per qualunque aspirante regista.
Ma questo accadeva quarant’anni fa. Oggi pochissime persone vanno a vedere i film di Jean-Luc Godard e, se lo fanno, di rado li capiscono. Ciononostante non ho quasi mai incontrato una persona che aderisse così perfettamente all’idea che ho di un vero genio. L’intervista (che ho realizzato con il caporedattore di Studio Christophe D’Yvoire) sarebbe dovuta durare un’ora, ma ne sono occorse tre per quanto Godard aveva da dire. Devo confessare, però, che ci sono stati molti momenti della conversazione in cui ho pensato tra me e me: «Accidenti, tutto questo è affascinante, ma di cosa diavolo sta parlando?»
Mi è stato chiesto spesso di insegnare cinema, e di solito ho rifiutato perché il modo in cui in genere lo si fa – cioè proiettando film e poi discutendone in classe – per me è spiacevole e anche sconcertante. Il cinema va discusso mentre lo si guarda, bisogna parlare di cose concrete, di un’immagine che si ha davanti agli occhi proprio in quel momento. Durante molte delle lezioni di cinema a cui ho assistito, credo che gli studenti non guardassero niente: qualcuno gli diceva che cosa avevano appena visto, e questo era tutto ciò che sapevano.
Nel 1990, comunque, ho siglato un accordo con la FEMIS, la Scuola Nazionale Francese di Cinema, per allestire al suo interno un mio studio di produzione. L’idea era creare qualcosa che esiste già nelle facoltà di biologia, per esempio: una specie di laboratorio in vivo, un luogo in cui gli studenti possono osservare come le cose vengono fatte davvero. Avrei mostrato loro ogni fase della lavorazione, dalla stesura della sceneggiatura fino ai rapporti con i produttori, l’allestimento, il montaggio, tutto.
Sarebbe stato un metodo di apprendimento esclusivamente pratico. Prendiamo medicina, per esempio: non accade che si mostri agli studenti di medicina un tizio con un’otite, poi si mandi il tizio a casa e si dica agli studenti: «Avete appena visto una persona con un’otite; ora vi racconterò come curarlo». Sarebbe ridicolo. Bisogna eseguire l’intero trattamento sul paziente in presenza degli studenti, altrimenti è inutile. Bene, credo che sia lo stesso per il cinema, ed era ciò che volevo fare, mi sembrava un modo meno teorico – e meno terrorista – di insegnare, rispetto alla norma. Ma la realtà dei fatti è che penso di non essere stato ben accetto, nemmeno dagli studenti. L’intero progetto pian piano è fallito, e la scuola nemmeno mi richiamava più quando li pregavo di telefonarmi. Mi sentivo come il regista André De Toth quando era sotto contratto con la Warner Bros: diceva sempre che quando sei licenziato nessuno ti avvisa mai; semplicemente, una mattina ti presenti allo studio e scopri che la serratura della porta è stata sostituita.

Amare il cinema è già imparare a fare film

La Nouvelle Vague[11] era una corrente particolare sotto molti aspetti, prima di tutto per il fatto che noi eravamo figli del «museo», intendendo per «museo» la Cinémathèque.[12] Pittori e musicisti hanno sempre imparato la loro arte nelle accademie, dove il metodo di insegnamento è molto preciso, con tecniche studiate in maniera approfondita, come per esempio il solfeggio. Ma per il cinema non erano mai esistiti metodi e scuole così evidentemente specializzati. Quindi, quando abbiamo scoperto la Cinémathèque, che in sostanza era un museo del cinema, abbiamo pensato: «Ehi, c’è qualcosa di nuovo, qualcosa di cui nessuno ci ha mai detto niente». Voglio dire, mia madre mi aveva parlato di Picasso, Beethoven e Dostoevskij, ma non mi aveva mai detto niente di Ejzenštejn o di Griffith. Pensate a che cosa può voler dire non aver mai sentito parlare di Omero o di Platone, e poi entrare in una biblioteca e imbattersi nei loro libri... vi domandereste: «Perché diavolo nessuno mi ha mai detto niente di queste opere?» Ecco, così ci sentivamo noi, e credo che lo stupore sia stato una delle nostre motivazioni principali, perché improvvisamente avevamo scoperto un mondo nuovo. O almeno, credevamo di averlo scoperto: oggi in realtà penso che il cinema fosse solo un qualcosa di effimero e che stesse già cominciando a scomparire.
Andare alla Cinémathèque era già in parte fare film, perché amavamo tutto – due buone scene in un film ci erano sufficienti per definirlo eccellente – ed eravamo immersi nel cinema. Raymond Chandler diceva sempre: «Quando si scrive un romanzo, lo si scrive tutto il giorno, non solo mentre si è seduti alla macchina da scrivere. Si scrive fumando una sigaretta, pranzando, facendo una telefonata». E lo stesso vale per il cinema. Credo di aver fatto film già prima di cominciare davvero a realizzarli. E forse ho imparato di più guardandoli che girandoli.
Ma, di nuovo, che cosa significa «imparare»? Il pittore Eugène Delacroix spesso cominciava con l’intenzione di dipingere un fiore, poi all’improvviso si ritrovava a dipingere leoni, cavalieri furiosi e donne violentate. Non sapeva come o perché accadesse, diceva spesso. Ma poi, quando alla fine guardava il risultato, si rendeva conto di aver effettivamente dipinto un fiore. Credo che sia questo il modo di imparare. Vedo molti film in cui, arrivati alla fine, ci si accorge che l’inizio non fa più parte del tutto, è stato dimenticato, messo da parte come se non valesse più niente. Mi domando come possa un regista imparare qualcosa in questo modo.

Volete fare un film? Prendete una videocamera

Il consiglio che oggi darei a chiunque volesse diventare regista è piuttosto semplice: fare un film. Negli anni Sessanta non era così facile perché non esisteva nemmeno il super8, qualunque cosa si volesse girare bisognava affittare una 16mm, nella maggior parte dei casi muta. Ma oggi non c’è niente di più semplice che comprare o prendere in prestito una piccola videocamera: c’è l’immagine, c’è il sonoro, e si può proiettare il film su qualunque televisore. Perciò, quando un aspirante regista viene a chiedermi consigli la risposta è sempre la stessa: «Prendi una videocamera, gira qualcosa e mostralo a qualcuno. Chiunque. Un amico, un vicino di casa, il panettiere giù in strada, non ha importanza. Mostra al tuo pubblico ciò che hai girato e osserva la sua reazione. Se sembra trovarlo interessante, allora gira qualcos’altro, per esempio fa’ un film che parli di una tua giornata-tipo. Ma cerca una maniera interessante di raccontarla: se la descrizione della tua giornata consiste in “mi sono alzato, mi sono rasato, ho preso il caffè, ho fatto una telefonata...” e noi effettivamente ti vediamo sullo schermo mentre ti alzi, ti radi, prendi il caffè e fai una telefonata, ti renderai conto in fretta che non è affatto interessante. Allora devi riflettere e capire che cos’altro c’è nella tua giornata, in che modo puoi mostrarla per renderla interessante. E poi devi sperimentarlo, e forse non funzionerà, allora devi pensare a qualcos’altro. Può anche darsi che alla fine ti renderai conto di non desiderare affatto realizzare un film sulla tua giornata-tipo, e allora fa’ un film su una cosa diversa. Ma domandati perché: domandati sempre perché. Se vuoi girare un film sulla tua ragazza, allora gira un film sulla tua ragazza, però fallo sul serio: va’ nei musei e guarda come i grandi pittori hanno dipinto le donne che amavano; leggi libri e vedi come gli scrittori parlano delle donne che amano; e a quel punto gira un film sulla tua ragazza. Puoi fare tutto con una videocamera. Macchine da presa, luci e dolly? Avrai un sacco di tempo, dopo, per preoccuparti di queste cose».

Fare un film per desiderio o per necessità

Credo ci siano due tipi di approccio al cinema. Il primo è quello dei registi che realizzano film «tradizionali», magari anche «convenzionali» ma, almeno, sono coerenti nel farlo. Intendo dire che cominciano da qualcosa di simile a un desiderio, un’idea che li affascina; e poi quell’idea comincia a crescere, a svilupparsi, e loro iniziano a prendere appunti; cominciano a visualizzare le ambientazioni, persino le immagini, poi i personaggi e la storia. E quindi iniziano a preparare il film, proprio come un architetto prepara le planimetrie di una casa, assicurandosi che tutto sia perfetto. Dopodiché arriva il momento di girare, che fondamentalmente consiste nel realizzare, nel modo più preciso e comodo possibile, ciò che è stato progettato sulle «planimetrie». E alla fine c’è il montaggio, l’ultimo momento di semilibertà e di creatività di cui un regista può godere.
Come ho detto questo è un tipo di approccio. Il mio è diverso. Di solito comincia con una sensazione astratta, una sorta di strana attrazione per qualcosa di cui non sono sicuro. E fare il film per me è un modo di scoprire che cosa sia quell’elemento astratto, di verificarlo. È un metodo che comporta un sacco di passi avanti e passi indietro, un sacco di tentativi ed errori, un sacco di cambiamenti dettati dall’istinto; ed è solo quando il film è finito che posso sapere se il mio istinto era giusto o no. Secondo me questo modo di procedere somiglia molto alla pittura moderna, a parte il fatto che nella pittura è sempre possibile cancellare o coprire ciò che si è dipinto per prova ma non ha funzionato. Un film non è sempre così comodo, ed è molto più costoso.
Devo anche spiegare che comincio sempre a lavorare su un film a partire dalla possibilità reale di farlo. Intendo dire che aspetto sempre di avere il via libera da un produttore prima di scrivere anche una sola riga di sceneggiatura. Così, è ovvio, una volta partito il progetto devo partire anche io. È una specie di matrimonio: fatto quel passo non si può più tornare indietro, bisogna svegliarsi la mattina, andare al lavoro per mantenere la famiglia, contenere le spese, fare progetti per il futuro... è una responsabilità che non si può rimandare. In pratica diventa un obbligo, ma un obbligo estremamente sano, credo.

Doveri di un regista

Credo che un regista abbia molti doveri, e questo sia nel senso professionale sia morale del termine. Il primo è quello di esplorare, di essere in un costante stato di ricerca. Un altro è di lasciarsi stupire una volta ogni tanto: io desidero sempre vedere un film che mi commuova terribilmente, del quale non riesca in alcun modo a essere geloso, perché è bellissimo e io amo i film bellissimi. Un film che mi sopraffaccia, che mi costringa a ritardare il mio stesso lavoro, perché ciò che mi dice è: «Questo è meglio di quello che fai tu, quindi cerca di migliorare».
Quando appartenevo alla Nouvelle Vague, trascorrevamo molto tempo a discutere di film altrui, e mi ricordo che vedendo Hiroshima mon amour di Alain Resnais rimanemmo a bocca aperta. Credevamo di aver scoperto tutto del cinema, credevamo di conoscerlo alla perfezione, e d’improvviso ci trovavamo davanti a qualcosa che era stato realizzato senza di noi, senza le nostre conoscenze, e tuttavia ci toccava profondamente. Un po’ come se i sovietici, nel 1917, avessero scoperto che un altro paese aveva conosciuto una rivoluzione comunista valida quanto la loro, o anche di più! Immaginatevi come si sarebbero sentiti...
Quanto al terzo dovere di un regista, credo sia, molto semplicemente, riflettere sul perché fa ciascun film, e non accontentarsi della prima risposta. Io ho cominciato a lavorare nel cinema perché per me era vitale, non c’era altro che potessi fare. Ma quando vedo tanti film di oggi, ho la sensazione che quei registi potrebbero tranquillamente dedicarsi a un altro mestiere. Penso che ritengano di stare facendo ciò che affermano di fare, ma in realtà non sia co...

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