I maestri della luce
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I maestri della luce

Conversazioni con i più grandi direttori della fotografia

Larry Salvato, Dennis Schaeffer

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I maestri della luce

Conversazioni con i più grandi direttori della fotografia

Larry Salvato, Dennis Schaeffer

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Che cosa sarebbe stato Il padrino senza i chiaroscuri e le luci notturne di Gordon Willis? Che cosa sarebbe stato Apocalypse Now senza le esplosioni di luci e fiamme orchestrate da Vittorio Storaro? Che cosa sarebbe stato l'inferno del Cacciatore di Cimino senza la maestosa concertazione di colori di Vilmos Zsigmond? Che cosa sarebbe stato Toro scatenato senza il superbo bianco e nero di Michael Chapman? Si potrebbe procedere all'infinito: i quindici direttori della fotografia che si raccontano in questo libro hanno infatti determinato come pochi altri l'immaginario filmico di un'autentica età dell'oro, nella quale il cinema d'autore si è imposto a Hollywood e nel mondo intero. Ognuno degli intervistati racconta il proprio mestiere, i mille modi con i quali conferire a ciascun film un aspetto visivo inconfondibile, le loro imprese più difficili, tecnicamente e non solo, i rapporti con i grandi registi con cui hanno lavorato. E ricostruiscono così una delle fasi più creative nella storia del cinema, muovendosi tra la Nouvelle Vague francese e il film d'autore italiano; tra la nuova Hollywood degli Scorsese e dei Coppola e i maestri del cinema di genere.Interviste con Néstor Almendros, John Alonzo, John Bailey, Bill Butler, Michael Chapman, Bill Fraker, Conrad Hall, László Kovács, Owen Roizman, Vittorio Storaro, Mario Tosi, Haskell Wexler, Billy Williams, Gordon Willis, Vilmos Zsigmond.

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Information

Publisher
minimum fax
Year
2019
ISBN
9788833890852

1
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NESTOR ALMENDROS

Comincio dal realismo. Il mio modo di illuminare e di vedere è realistico. Non uso l’immaginazione, ma la ricerca. In pratica, mostro le cose per quello che sono, senza alcuna distorsione.
Nestor Almendros ha un evidente sussulto ogni volta che qualcuno gli chiede come si trova oggi a fare il direttore della fotografia a Hollywood. Ci tiene a precisare che, a Hollywood, non ha mai girato un film. I giorni del cielo è stato girato in Canada, Verso il Sud in Messico, Kramer contro Kramer e Una lama nel buio a New York e Laguna blu alle Fiji. Ma non deve sorprendere più di tanto se si pensa che, nella sua carriera ventennale, ha lavorato in quasi ogni angolo del mondo. E benché non abbia mai girato un film a Hollywood, è uno dei principali direttori della fotografia dell’industria cinematografica americana: delle cinque grandi produzioni statunitensi a cui ha partecipato, tre sono state nominate agli Oscar per la miglior fotografia. E la vittoria è arrivata nel 1978, per la sua raffinatissima fotografia naturalistica ne I giorni del cielo.
Le sue radici cinematografiche sono insolitamente profonde. Nato in Spagna e cresciuto a Cuba, da studente si dedicò al cinema con tutto se stesso: lui e i suoi amici giravano in continuazione cortometraggi in 8 e 16mm. Capirono, comunque, che se volevano ampliare la loro conoscenza della produzione cinematografica dovevano lasciare Cuba. Almendros arrivò a New York, dove studiò al City College e incontrò gli sperimentatori Hans Richter, Maya Deren e i fratelli Mekas. Tornò a Cuba dopo la caduta della dittatura di Batista e venne ingaggiato per girare documentari propagandistici, ma presto si annoiò, anche se è convinto che quel periodo sia stato una buona palestra e abbia influenzato il suo stile. Ma la Francia lo chiamava: la nouvelle vague era all’apice della popolarità. A Parigi gli capitò quasi per caso di girare per Eric Rohmer. In seguito a quella prima collaborazione, curò poi la fotografia dei Sei racconti morali di Rohmer. È stato usato da François Truffaut per otto film e ha anche lavorato con Barbet Schroeder su sei grandi produzioni, oltre a una serie di documentari di vario genere. Se anche Almendros non avesse mai cominciato a girare dei film «americani», la sua reputazione a livello mondiale sarebbe stata comunque garantita. Garbato e arguto conversatore, è un uomo cosmopolita, nonché autore di un libro sulla fotografia. Subissato di offerte di lavoro dopo la sua vittoria agli Oscar, Almendros preferirebbe ritmi di lavoro più comodi, con al massimo due pellicole l’anno. Ma ora che registi francesi e americani se lo contendono, forse non sarà possibile. Come spesso succede nel rapporto tra domanda e offerta, l’offerta risulta limitata perché la qualità che Almendros mette sullo schermo non è facilmente reperibile altrove.
1965 Paris vu par... (citato insieme ad altri)
1967 La collezionista
1968 Killico, il pilota nero
1969 Di più, ancora di più... • La mia notte con Maud • Il ragazzo selvaggio • The Gun Runner
1970 Non drammatizziamo... è solo questione di corna! • Il ginocchio di Claire
1971 Le due inglesi • Sing-Sing
1972 L’amore il pomeriggio • La Vallée
1973 Il vagabondo gentiluomo
1974 Idi Amin Dada • Cockfighter
1975 Adele H., una storia d’amore
1976 La Marchesa von...
1977 L’uomo che amava le donne • La vita davanti a sé • Beaubourg
1978 Il fuorilegge • L’amore fugge • Maîtresse • I giorni del cielo* • Koko, le gorille qui parle • Verso il Sud • La camera verde
1979 Kramer contro Kramer**
1980 L’ultimo metrò Laguna blu**
1982 La scelta di Sophie** Una lama nel buio
1984 Places in the Heart
* Oscar per la miglior fotografia.
** Candidato all’Oscar per la miglior fotografia.
Abbiamo letto un articolo che hai scritto per Film Culture quando eri un giovane assistente alle riprese; eri rimasto colpito dalla fotografia neorealista di G.R. Aldo. Quanto ha influenzato il tuo lavoro?
Enormemente. Devo moltissimo ad Aldo. Credo che lui sia stato davvero un caso eccezionale. Ancora prima di Raul Coutard, Aldo sfruttava l’illuminazione indiretta, usando luci morbide. E penso dipendesse dal fatto che era arrivato al cinema dalla fotografia di scena. Non aveva seguito il percorso canonico per quell’epoca, cioè diventare prima aiuto operatore, poi assistente operatore, operatore alla messa a fuoco, operatore di macchina e, dopo tutta la trafila, molti anni dopo, direttore della fotografia. Era arrivato direttamente dalla fotografia di scena e teatrale, e soltanto perché Visconti l’aveva costretto. Ecco perché la sua luce era così poco convenzionale, per l’epoca. Non aveva percorso la stessa strada degli altri.
Ma è stato un’autentica fonte d’ispirazione. Altri film di quel periodo, come Roma città aperta e Sciuscià, curati da altri direttori della fotografia, avevano un aspetto interessante non tanto perché il direttore aveva scelto così, quanto per mancanza di denaro. Apparivano interessanti senza volerlo. Sono sicuro che se avessero dato a quei direttori della fotografia più soldi e supporto tecnico, avrebbero fatto qualcosa di molto professionale e raffinato. Ma Aldo sapeva che ciò che stava creando era diverso. Visivamente, La terra trema è un film molto moderno e così anche Umberto D. e Senso. Aldo ha curato la fotografia di tutti e tre.
L’operatore che ha girato Roma città aperta sembrava uno che aveva sempre lavorato all’interno di uno studio e che poi, di punto in bianco, si era ritrovato ad arrangiarsi con quello che aveva. Il caso di Aldo, invece, è diverso: lui sapeva già quello che voleva. Che significato ha per te, oggi? Il tuo modo di fare film è legato a una filosofia di fondo?
Gli americani parlano sempre di «filosofia», ma è una parola grossa...
Intendevo da che cosa cominci, qual è il tuo punto di partenza.
Comincio dal realismo. Il mio modo di illuminare e di vedere è realistico. Non uso l’immaginazione, ma la ricerca. Vado in una location, vedo dove cade la luce normalmente e provo a catturarla così com’è, oppure la rinforzo, se non è sufficiente. Questo succede su un set naturale. Su un set artificiale, immagino ci sia il sole fuori dalla casa e allora faccio delle congetture su come la luce dovrebbe filtrare dalle finestre, poi la ricostruisco. La fonte di luce dovrebbe sempre essere giustificata. Di notte, invece, la mia luce proviene semplicemente dalle lampade o da qualunque altra fonte di luce naturale si veda all’interno dell’inquadratura. Il mio metodo è questo. Non l’ho inventato io, ovviamente. Lo facevano già prima di me, ma si usavano luci dirette e lenti di Fresnel. Le luci dirette esistono solo nel mondo del teatro; se si dovessero fare riprese in un teatro o un nightclub, sarebbero giustificate. Ma in una situazione normale, non capita spesso che la gente abbia dei riflettori in casa. Quando dovrebbe esserci la luce del giorno, ancora oggi non c’è niente di meglio, per imitare i raggi del sole, delle lampade ad arco che, sfortunatamente, molte piccole produzioni non possono permettersi. Le ho usate fuori dalla prigione in Verso il Sud, per imitare la luce del sole che entrava dalle finestre e illuminava gli interni.
Come hai conosciuto Eric Rohmer e come hai cominciato a lavorare ai suoi film?
Dopo aver deciso di lasciare Cuba, scelsi di venire in Francia perché mi piacevano molto le pellicole della nouvelle vague. Per tre anni sfruttai la mia precedente professione, cioè insegnare le lingue, e riuscii a cavarmela. Poi, per caso, incontrai Rohmer. Per farla breve, mi trovai sul set mentre stava girando Paris vu par... L’operatore se ne era andato perché aveva litigato con Rohmer e non riuscivano a trovare nessun altro, allora dissi: «Sono un operatore anch’io». Così mi misero alla prova e gli piacquero i giornalieri che videro il giorno dopo. È un po’ come la storia della ballerina di fila che rimpiazza la star dello spettacolo dopo che si è storta la caviglia. O qualcosa del genere.
Barbet Schroeder era il produttore del film?
Sì, e Rohmer il regista. Ho anche curato alcuni degli altri spezzoni.
Allora ne hai girati due o tre, per quella pellicola?
Ufficialmente ho lavorato a due episodi, ma ho curato le riprese di un po’ tutti. Erano in 16mm, con cinepresa a mano. Era il periodo in cui pensavamo che la 16mm fosse l’unica scelta possibile. Avevo molta esperienza con quel tipo di pellicola, un’esperienza che risaliva ai miei giorni a Cuba e al periodo underground a New York. In seguito abbiamo abbandonato la 16mm, perché abbiamo capito di aver fatto confusione: ci eravamo convinti che fosse una questione di millimetri.
Cosa mi dici del primo lungometraggio che hai girato con Rohmer, La collezionista? Barbet Schroeder, che ha prodotto il film, ha detto di avere un ricordo molto nitido delle riprese e che sia tu che lui, in seguito, siete stati influenzati dallo stile di quella pellicola. Puoi spiegarcelo?
Quel film è molto importante per me. Quando mi chiedono qual è il mio film preferito tra quelli a cui ho lavorato, rispondo sempre La collezionista. In quel lungometraggio c’era già tutto quello che ho fatto dopo, anche se in forma embrionale. Ma c’era comunque tutto. È un film che non posso dimenticare. Il primo e il migliore. È una pietra miliare, sia per me che per Schroeder e Rohmer.
Doveva essere girato in 16mm, ma era il periodo in cui stavamo rinunciando a difendere quel tipo di formato. Decidemmo di farlo in 35mm, ma di girarlo come se fosse in 16. Perché ciò che conferisce ai film da 16mm l’aspetto che tanto ci piace non sono le misure, ma il modo in cui vengono girati. E, ovviamente, certe cose vanno sempre di pari passo: se avevi un budget limitato, e quindi pochissime luci, eri costretto a usare set e illuminazione naturali. Se mantieni tutti questi parametri e ne cambi uno solo, cioè passi alla 35mm, allora continui a mantenere lo stesso aspetto ma acquisisci qualità tecniche che renderanno il film più interessante per il pubblico. Così abbiamo girato il film in 35mm, ma con una troupe ridotta all’osso. Barbet Schroeder era il produttore ma allo stesso tempo anche una sorta di capo elettricista, macchinista, supervisore... un po’ di tutto, in realtà. Inoltre, dovevo caricare la macchina e, spesso, regolare la messa a fuoco personalmente. Lo abbiamo girato come fosse un film underground in 16mm, solo che era in 35. Abbiamo usato una tecnica che non prevedeva la luce artificiale: aspettavamo semplicemente quella giusta. Adesso, per esempio, siamo seduti qui, in questa stanza: mi piace questa luce proprio così com’è in questo momento, quindi perché dovrei cambiarla per filmarla? E grazie a questa tecnica, ci siamo accorti che i risultati non solo erano interessanti tanto quanto lo sarebbero stati in 16mm, ma addirittura migliori, perché non venivano deteriorati dalla qualità inferiore della 16mm. Inoltre, la sensibilità e la latitudine di posa della pellicola erano molto superiori, per cui potevamo davvero spingerci oltre.
Avete usato meno luci?
Meno di quante ne usavamo in 16mm. Praticamente non ci servivano. Inoltre, avevamo capito che la maggior parte dei tecnici ci aveva raccontato solo stronzate, e si erano inventati mille modi di utilizzare un’enorme quantità di luci solo per giustificare la loro presenza, i loro stipendi e per sembrare i custodi di chissà quali segreti della cinematografia, quando in realtà, tecnicamente, c’è ben poco da sapere.
Questa è la nouvelle vague?
Sì, ma nei primi film della nouvelle vague – ed è qui che considero Rohmer un grande – non erano consapevoli fino in fondo di tutte queste cose. Erano ancora un po’ ingenui, stavano attraversando una fase di transizione. Ma ritengo che grazie a Rohmer abbiamo fatto un passo avanti.
In generale, pensando ai registi della nouvelle vague con cui hai lavorato, quale credi sia il loro atteggiamento verso la fotografia? Come la gestiscono? Le danno molta importanza?
Danno una grandissima importanza alla fotografia. Ma allo stesso tempo non vogliono che prevalga sul film, come succedeva una volta. Perché in passato il direttore della fotografia era una specie di dittatore. Ci voleva talmente tanto tempo per preparare un’inquadratura che praticamente non ne restava quasi più agli attori per provare o ai registi per girare il film. Poi bisognava montare le luci, ed era un rituale impegnativo. Credo che adesso si lavori più velocemente di prima. E anche questo deriva dalla riduzione dei tempi di lavorazione in Europa.
Ma anche con tempi più brevi, i registi vogliono comunque una buona fotografia?
Oh, certo, ci tengono molto. Il fatto che non lavorino più con un esercito di tecnici non significa che non gli importi della fotografia. Al contrario, non sopportano l’aria patinata e artificiale di certi film, specialmente delle vecchie pellicole francesi. Gli americani non sono mai arrivati a tanto; i film francesi degli anni Cinquanta, in particolare, erano insopportabili, sotto quell’aspetto. Erano talmente finti! Gli attori riuscivano a muoversi a malapena, perché avevano una luce negli occhi che li colpiva in un certo modo, inoltre dovevano stare fermi in quel punto e così erano costretti a recitare come delle mummie. Le luci non erano al servizio degli attori, anzi, proprio il contrario: erano gli attori a essere al servizio delle luci.
Hai fatto diversi film con Truffaut. Potresti descrivere il vostro rapporto professionale? Che cosa date l’uno all’altro? Quanta importanza dà alla fotografia?
Innanzitutto, Truffaut è una delle persone con cui si lavora meglio in assoluto. È convinto, proprio come Jean Renoir, che creare una buona atmosfera durante le riprese faccia bene anche al film. Sul set non c’è mai nervosismo, non c’è gente che urla, la troupe è come una famiglia. Si lavora insieme per creare un film. Tutto va avanti senza intoppi e con la massima collaborazione. Truffaut è un uomo che, nonostante il suo gigantesco talento, riesce sorprendentemente ad ascoltare i propri collaboratori. Se gli dici...

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