Scrivere di musica
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Una guida pratica e intima

Rossano Lo Mele

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Una guida pratica e intima

Rossano Lo Mele

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Nel suo piccolo, anche il critico musicale soffre un castigo di Sisifo. Di fronte al suo reportage, alla sua recensione, al suo profilo ci sarà sempre qualcuno pronto a ricordare quella battuta famosissima, quel motto molto arguto e feroce, forse di Frank Zappa, forse di Elvis Costello, forse di Thelonious Monk. Ma in fondo conta poco chi lo disse per primo, perché quel motto – «scrivere di musica è come ballare di architettura» – funziona sempre. Il critico musicale, soprattutto quello di musica rock e pop al quale Lo Mele si rivolge, deve dunque lasciare rotolare a valle il macigno di Sisifo, e in cima alla collina preoccuparsi solo di ballare bene di architettura.Questa guida pratica e intima vuole appunto fornire un aiuto concreto per danzare con le parole, per scrivere bene di musica. Nasce dall'esperienza profonda e varia del suo autore, direttore di uno storico mensile di musica e cultura, docente di Linguaggi della musica contemporanea, e membro fondatore di un gruppo rock, i Perturbazione, che ha segnato almeno due generazioni di ascoltatori. Senza semplificazioni dannose né fumisterie ancora più dannose, Lo Mele discute e illustra con esempi significativi i vari fronti su cui il giornalista musicale si trova oggi impegnato, mantenendo un occhio attento al contesto tecnologico ed economico profondamente mutato negli ultimi venticinque anni, ma non dimentica mai che chi scrive di musica, anche professionalmente, lo fa prima di tutto per passione.

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Information

Publisher
minimum fax
Year
2020
ISBN
9788833891538

1
Sbarra

LA SCOPERTA

In un cassetto della scrivania ritrovo un vecchio biglietto arancione per un concerto dei R.E.M. La band di Michael Stipe ha da poco pubblicato l’album Green e muove un passo deciso dall’underground verso il grande pubblico, il famoso e famigerato mainstream. I R.E.M. iniziano a contare su un numero consistente di fan anche in Italia e pianificano alcune date promozionali nella tarda primavera del 1989. Il biglietto recita: Milano, PalaTrussardi, 15 giugno 1989. r.e.m. + The Go-Betweens. Dopo faranno Bologna e Perugia. La data di Milano coincide con la fine della scuola, ho comprato il biglietto con un bell’anticipo, sono pronto, ma la varicella non mi permette di andare al concerto coi miei amici. La varicella è una cosa poco rock, lo so, una cosa da poco pure per l’indie rock, che è tutto dire... Rimango in casa alcune settimane, resto isolato. Sono giornate infinite. Non ho molta voglia di guardare la tv, preferisco leggere. Ho sempre letto tanti romanzi e racconti, ma la passione per la musica, e la vergogna per il concerto mancato, mi mette addosso la voglia di conoscere tutto di quel mondo. Mi faccio comprare dai miei diverse riviste musicali, cerco di capire tutto, di carpirne tutti i segreti. Un salto all’edicola in fondo alla strada sembra bastare per accedere a un club esclusivo. La volontà di saperne di più è talmente forte che a furia di leggere e rileggere, un po’ alla volta, comincio a masticare la lingua del giornalismo musicale specializzato. È un mondo criptico, qualcosa che la gran parte dei miei coetanei ignora. Le mie riviste mi differenziano dagli altri, in quella maniera ingenua e commovente in cui si brama l’unicità durante l’adolescenza.
Ma non sono stato completamente sincero: la passione per la musica non nasce di colpo, per una malattia infantile fatta troppo tardi. Sono cresciuto in una casa piena di dischi. I miei genitori si erano sposati e trasferiti dal Sud al Nord, lavoravano in ferrovia, e quando un fratello minore di mia madre vinse anche lui il concorso in ferrovia venne a stare a casa nostra. Portandosi appresso la sua collezione di cantautori italiani e jazz. Quando tornavo da scuola e mio zio era ancora al lavoro mi appostavo a guardare i dorsi dei vinili, studiare i nomi e il mondo che ci stava dietro. Di più: mio zio trascorreva alcune serate ogni settimana al centro jazz, per ascoltare concerti. Io avevo dieci anni, certe notti mi prendeva una paura strana e rimanevo sveglio nel divano letto matrimoniale condiviso con mio fratello. Qualche volta, quando lo zio era ancora fuori, mi alzavo di nascosto e andavo ad ammirare la collezione. La sua musica era lontana da quella che sfondava in classificava e abitava i palinsesti della tv. Era qualcosa di raro. E io ne ero spettatore, fiancheggiatore.
Trascorrono un po’ di anni dal divano letto e, dopo aver cambiato città, casa, stanza e frequentazioni, la passione per la musica esplode. Grazie a un nuovo compagno di classe, che viene da una famiglia borghese, colta. Ha un fratello maggiore che se ne sta sempre in una camera piena di vinili: i 33 giri mi si ripresentano. Contengono musica altra da quella corrente dell’epoca, ma diversa pure da quella dello zio. Passiamo i pomeriggi ad ascoltare i dischi con lui, che, quando ha tempo ma soprattutto voglia, ce li doppia su musicassette della durata di 90 minuti (le c90 che tutti quelli della mia generazione ricordano con affetto). La musica che ascolta viene chiamata per comodità alternativa, underground, indie: Virgin Prunes, Alien Sex Fiend, The Dream Syndicate, The Cure, Crime & The City Solution, R.E.M. appunto. Io voglio essere diverso – alternativo – e costruire un’identità mia. La cosa si può realizzare attraverso la musica.
Le mie giornate diventano un mix di dischi, riviste e concerti visti dal vivo. Con alcuni amici della nostra ristretta compagnia facevo orari tremendi pur di andarci. L’inconveniente era che il giorno dopo c’era scuola e io abitavo in un paese della provincia di Torino, dunque dovevo sempre prendere l’ultimo pullman per tornare a casa e mentre ero al concerto guardavo l’orologio in continuazione, sperando che finisse per tempo. Un caso emblematico di quel periodo, poco prima del concerto dei R.E.M., fu quando io e i miei amici andammo a vedere i Litfiba al Palasport: ci andai senza troppo convinzione, in mancanza di musica straniera nel circondario. Ero un po’ troppo esterofilo naturalmente; i miei amici invece erano più convinti, forse perché riciclavano frasi dei Liftiba per i temi in classe... Il concerto non finì tardi ma dopo di esso era stata annunciata una serata in una discoteca rock della città con i musicisti del gruppo. Noi ovviamente ci presentammo pure a quell’evento, e altrettanto ovviamente di Pelù e Renzulli neanche l’ombra. Erano ormai le due di notte, non c’erano i Litfiba e non c’erano nemmeno più i pullman (a quell’epoca, dalle mie parti l’ultimo «Night Bus» partiva presto). I nostri genitori ci pensavano a dormire ognuno a casa dell’altro, la classica storia che tutti hanno raccontato almeno una volta nella vita e che noi raccontavamo abbastanza spesso. Non sapendo cosa fare, decidemmo di tornare a casa a piedi, dal centro di Torino alla provincia. Circa 15 chilometri, e in una bella notte di gennaio piemontese. Ci incamminammo, e arrivarono le sei del mattino, con i primi bus di nuovo a circolare, ma in direzione contraria. Mia mamma a quell’ora prendeva il pullman per andare al lavoro e cominciare il suo turno in ferrovia, quindi ogni volta che passava un bus io mi nascondevo per precauzione dietro a un albero, rallentando la marcia. Presi dal gelo, sfiniti citofonammo a una nostra amica che ci nascose per un’ora nella sua cantina. Alle sette, senza aver dormito, prendemmo finalmente il bus, ma per andare a scuola. Ovviamente senza libri.
Dalle scalinate di un liceo dell’hinterland torinese guardavamo al rock indipendente degli Stati Uniti che, a differenza del punk e dell’hardcore duro e puro della prima ora, sapeva coniugare all’etica e alla rabbia anche la melodia. Per un soffio ci perdemmo l’esibizione degli Hüsker Dü. Li sentivamo particolarmente vicini, erano tre ragazzi del Nord degli Stati Uniti, figli di un grande freddo reale e metaforico: Minneapolis come una piccola Torino, nella nostra testa d’indolenti pendolari liceali. Non vestivano alla moda, né erano particolarmente aggraziati. Bob Mould, cantante e chitarrista, era un ragazzo chiaramente sovrappeso che solo molti anni dopo avrebbe cominciato ad andare in palestra. Gli Hüsker erano maniaci del controllo, perché tutto ciò che avevano intorno, nell’ambiente, non li soddisfaceva. Non volevano un manager che curasse la loro immagine perché, evidentemente, non ne avevano una. Né la cercavano. L’immagine non importava, bastava la loro opera-mondo: non è un’esagerazione definire in questo modo una produzione così frequente e abbondante per quantità, e così strepitosa per qualità, da contenere al suo interno l’irascibilità elettrica più violenta dei pezzi velocissimi e la malinconia più pura di struggenti ballate quasi acustiche. E poi la lealtà delle relazioni all’interno della band ci sembrava parlare del nostro gruppo di amici (all’epoca, naturalmente, non conoscevamo quante tensioni e rancori vi erano dentro la band; non sapevamo che pure gli Hüsker stavano proiettando un’immagine). Perdemmo quella band fenomenale dal vivo per un niente e per anni subimmo le leggende del concerto mancato: Grant Hart era così fuori da essersi esibito scalzo; il che non sarebbe neanche un problema se non fosse che era il batterista e suonava la grancassa a piedi nudi. Come faceva esattamente? Questo me lo chiedevo soprattutto io (per ragioni che chiarirò tra poco). Ma se perdemmo il concerto, recuperammo la loro musica e quella di band affini.
Scoprimmo una vena d’oro, nascosta dentro la musica americana. L’eco ci arrivava solo attraverso le riviste, le fanzine e i fratelli maggiori – nel 2001 Michael Azerrad avrebbe raccontato tutto nel libro fondamentale che in italiano si chiama America indie,1 ma nell’originale porta un titolo molto più significativo e veritiero, Our Band Could Be Your Life, perché davvero per molti, anche in Italia, quei gruppi potevano essere la vita. Lo erano di certo per noi che non ci riconoscevamo nel flusso di hit estive, playback, Festivalbar e Festival di Sanremo e neppure – come scelta ribelle, diciamo – nel tronfio hair metal. Cercavamo altro, cercavamo, a dirla tutta, gente sfigata come noi ma capace di produrre dischi meravigliosi. Come gli Hüsker, come i Minutemen, come i R.E.M. degli anni Ottanta. Naturalmente il fatto che quella musica interessasse così poche persone era per noi un valore in più, ci sentivamo parte di qualcosa di segreto e importante.
Persi gli Hüsker Dü, scioltisi i Minutemen, diventati troppo famosi i R.E.M. (eravamo pure fieramente snob e settari), non ci restava che un’opportunità per «toccare» quella musica altrimenti così remota, per etica e geografia. Cominciò a girare la voce che si sarebbero esibiti a Torino i Fugazi. La nuova band di Ian MacKaye, già leader dei Minor Threat e fondatore della Dischord Records, un’etichetta di Washington D.C. che pubblicava quasi solo musica di estrazione punk del Nordovest degli Stati Uniti. Una particolarità contrassegnava ogni produzione della Dischord: nel retro di ogni disco veniva indicato – stampato sull’artwork stesso – il costo dell’album. Con tanto di spese di spedizione incluse. Il prezzo veniva stabilito dal produttore, in maniera trasparente. In genere un album costava una dozzina di dollari inclusi lo shipping cost e lo si poteva ordinare da loro attraverso un distributore di fiducia. Immaginate la reazione di un ragazzo davanti a un dato del genere in un’Italia dove, se entravi in un negozio di dischi a comprare un album di Ivano Fossati o di Madonna, ti veniva richiesto di pagare un extra dovuto alla pubblicità televisiva del medesimo prodotto. Appunto si chiamava «ticket tv». I lettori più giovani penseranno a una presa in giro, lo so, infatti era una presa in giro ma assolutamente reale: una casa discografica multinazionale comprava degli spazi televisivi in tv per reclamizzare il prodotto, e il costo di questa campagna pubblicitaria veniva fatto pagare esplicitamente come sovrapprezzo al consumatore. Insomma, per farla breve, un compact disc di Madonna poteva costare anche il triplo di un album della Dischord.
Oltre a questo aspetto direttamente economico i Fugazi ci colpivano per le loro convinzioni: non si drogavano, non bevevano, non fumavano, erano straight edge e antidivi, gente che per cambiare le cose predicava una costante, lucida presenza a se stessa. Una disciplina anche compositiva, visto che la loro musica era sì imparentata col punk, ma senza i manierismi in cui si era ormai impantanato il genere. L’impeto delle loro canzoni era sorretto da strutture quasi matematiche, formidabili nell’aspetto ritmico.
La band controllava pure i costi dei biglietti delle sue esibizioni. In genere mai sopra i cinque dollari. Così, con in mano qualche migliaio di lire, ci recammo in pellegrinaggio al loro concerto. La sala era talmente piena che la gente appoggiata alle mura del locale sembrava sul punto di sfondarle. E il caldo era micidiale. Non c’importava però, guardavamo i Fugazi a qualche metro di distanza come dei messia, portatori di un verbo etico e musicale che qui – nella terra infelice del ticket tv – solo le persone intorno a noi sembravano conoscere. Finimmo in mezzo al pogo e uno di noi perse gli occhiali nella mischia. La speranza folle di recuperarli ci portò a rimanere dentro il locale oltre la fine del concerto. In una sala ormai vuota, ma colma di sudore e bicchieri sbrecciati di plastica per terra, ritrovammo gli occhiali, o meglio quel poco che ne restava. Erano rotti e senza lenti, ovviamente. Ian MacKaye uscì dal camerino, si accorse di noi, si avvicinò per chiederci cosa stesse succedendo. Gli porgemmo increduli la montatura ormai distrutta. E allora, il profeta Ian la prese e fece il miracolo: gli occhiali non tornarono nuovi, ma vennero trasformati in qualcosa di simile a una bicicletta. Non sapevamo bene cosa significasse quell’autoproduzione oculistica, e ciclistica, però ci sembrava bellissima.
La mia formazione nella scrittura musicale è cominciata da autodidatta, predigitale. All’epoca esistevano solo due canali per informarsi: la stampa specializzata e la radio. Pomeriggi interi trascorsi a casa a leggere Rockerilla, Rockstar, Il mucchio selvaggio, Velvet e serate ad ascoltare le trasmissioni indie sulle emittenti locali. Non avevo molti soldi per le novità discografiche, vendute a prezzo pieno, senza ticket tv ma anche senza soglia Fugazi. Fra di noi amici, uno a turno veniva convinto a comprare un disco e gli altri se lo registravano su cassetta. Quando esplosero i Charlatans con il singolo «The Only One I Know», ci presentammo in gruppo, nel negozio, l’acquirente e gli altri, già pronti con le cassette in mano per farcelo doppiare, e fu atroce la scoperta che l’etichetta discografica aveva deciso di escludere dal loro album proprio il singolo che tanto amavamo e aspettavamo. Dopo la scuola era tutto un compilare amorosamente e maniacalmente copertine di audiocassette: ci facevamo anche passare i dischi da fratelli, zii, amici più grandi. In questo modo irrobustivo la mia conoscenza dei classici. La mancanza di grandi risorse economiche è stata per certi versi una fortuna, perché era più facile recuperare dischi di Bob Dylan, Leonard Cohen, King Crimson e Joy Division che dell’ultima novità. Inoltre in questo modo cominciavo a capire da dove arrivavano le cose che poi ritrovavo e leggevo sulle riviste.
Non ho ancora detto, però, che la musica volevo pure farla, oltre che ascoltarla e scriverne. Sempre negli anni del liceo m’iscrissi a una scuola di musica per imparare a suonare la batteria. Nell’ambiente della critica musicale esiste da sempre un detto crudele: chi scrive di musica è un musicista mancato. Non so se sia vero, direi di no. Sono invece sicuro che un’affermazione del genere sollevi lo spirito del musicista e ne solletichi gli istinti vendicativi: «Quel giornalista mi ha stroncato? Proprio lui? Come si permette di giudicarmi uno che di musica non capisce niente, che la musica non l’ha mai fatta?»
Credo che un fatto sia poco contestabile: spesso chi scrive di musica ha avuto una «relazione» con uno strumento, e l’ha abbandonato; ma questo può avvenire indipendentemente dal talento reale: deriva piuttosto dai compagni di viaggio trovati, dal riscontro ottenuto, dal caso... E se da una parte le più grandi firme rock fanno di mestiere «solo» i critici, dall’altro lato possiamo citare molti nomi di critici musicali e musicisti insieme. Come Sasha Frere-Jones dei post-rocker UI: per un lungo periodo ha realizzato dischi con la sua band e nel contempo ha scritto brillanti articoli per testate come il New Yorker e il Village Voice. Musica non dissimile la suonava nei suoi Parts & Labor anche un’altra firma pesante, Cristopher R. Weingarten. Venendo a musicisti-scrittori ancora più noti, è impossibile non menzionare subito Ira Kaplan (Yo La Tengo) e Carrie Brownstein (Sleater-Kinney), due icone della cultura indipendente americana. E ancora, rimanendo sempre negli Stati Uniti, dove il fenomeno è più diffuso anche per ragioni di ampiezza del mercato, voglio ricordare John Darnielle (The Mountain Goats), Mike Doughty (Soul Coughing), Brian Cook (Russian Circles), Travis Morrison (The Dismemberment Plan), Amy Klein (Titus Andronicus), Zac Pennington (Parenthetical Girls) e Stanley Crouch. E aggiungo in coda proprio il già citato Michael Azerrad, critico sommo e musicista di valore.
Io ho cominciato a suonare a 17 anni e da allora non ho mai smesso. Sempre e solo con la mia band, i Perturbazione. Ho avuto forse tenacia, di sicuro fortuna. Perché a quell’età ho incontrato le persone con cui ancora oggi, oltre venticinque anni dopo, faccio questa cosa. A quella fortuna – aver trascorso più della metà della mia vita con quelle persone – se n’è aggiunta un’altra. La musica che abbiamo scritto insieme è andata oltre le nostre aspettative, oltre la sala prove. È uscita nel mondo, incontrando la vita: rifiuti, assi scricchiolanti di teatri, inviti a manifestazioni improbabili, cucine con camerino, applausi, bagni all’aperto, divani letto, bicchieri che sbattono, gente che parla, che urla, che ride, numeri sempre sbagliati, festival pieni di gente. Portandoci a viaggiare e a comporre altra musica in viaggio, a montare, smontare, caricare, fare prove, soundcheck, sconfiggere la goffaggine, imparare a stare sul palco. C’è voluto tempo, tanto. E in tutto quel tempo ho sempre scritto di musica. Quando ho cominciato mi sentivo esattamente come quando ho cominciato a suonare: intemperante, irruento, desideroso di abbattere quello che avevo davanti. Così i miei primi articoli erano tutto un lamento, un «non è possibile che questo disco sia così scopiazzato o banale!» Insomma, stroncavo. Con gusto. Poi è subentrato altro, la voglia di capire meglio e interpretare a fondo, più che di fare liste di buoni e cattivi.
In questo sforzo di comprensione e interpretazione mi ha aiutato l’essere un musicista? Credo di sì, perché chiunque può dare un giudizio, ma senza la conoscenza del concreto lavoro musicale – intendo pure la quotidianità in studio, gli strumenti usati, la maniera in cui vengono suonati, le tecniche di produzione, l’aggiornamento dei software – si rischia di ignorare la fibra più profonda di ciò che si pretende di analizzare. Il pericolo è dunque quello rilevato dal critico Ted Gioia: mettere in secondo piano o tralasciare del tutto l’analisi musicale e dedicarsi alla pura cronaca o alla sola lettura del lifestyle.2 Oggi questo è un fenomeno diffuso e mi sento di concordare con quello che scriveva Bill Werde, nell’abbandonare la direzione del periodico statunitense Billboard nel 2013: «Maybe, just maybe, we should focus on their art» («Forse, dico forse, dovremmo concentrarci sulla loro...

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