Estetica del brutto
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Estetica del brutto

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Un'estetica del brutto? E perché no?». Con queste parole ha inizio l'opera fondamentale del filosofo tedesco Karl Rosenkranz. Se il bello, nella prospettiva del "maestro" Hegel, appare come una manifestazione sensibile dell'idea e della sua libertà, il brutto si presenta come ciò che nega o limita tale libertà attraverso l'asimmetria, l'assenza di forma, la deformità e lo sfiguramento. Il brutto come dimensione intermedia tra bello e comico che trova il suo compimento nella figura del satanico. Rosenkranz opera così una straordinaria fenomenologia del diabolico, dove alla riprovazione etica si sovrappone un gusto descrittivo per tutto ciò che, pur esteticamente ripugnante, è tuttavia meritevole di attenzione estetica. L'intuizione di questo saggio non risiede solamente nell'indagare gli aspetti "brutti" dell'arte che caratterizzano gran parte della nostra contemporaneità, ma anche nella messa in discussione del destino stesso dell'estetica: dopo di lui, estetico e bello non possono più coincidere con la medesima armonia, e l'estetica stessa, oltre a non presentarsi come teoria del bello o delle belle arti, apre un inquietante sguardo verso ambigui e multiformi aspetti del reale.

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Information

Introduzione
Grandi conoscitori del cuore umano si sono sprofondati negli abissi pieni d’orrore del male, hanno descritto le spaventose figure che venivano loro incontro da quella notte. Grandi poeti, come Dante, hanno messo ancor più in evidenza tali figure; pittori come Orcagna, Michelangelo, Rubens, Cornelius ce le hanno poste sensibilmente davanti agli occhi e musicisti, come Spohr, ci hanno fatto ascoltare i suo­ni atroci della perdizione nei quali il malvagio grida e urla il dissidio del suo spirito.
L’inferno non è solo etico e religioso, è anche inferno estetico. Noi siamo immersi nel male e nel peccato, ma anche nel brutto. Il terrore dell’informe e della deformità, della volgarità e dell’atrocità ci circondano in innumerevoli figure, dai pigmei fino a quelle deformità gigantesche da cui la malvagità infernale ci guarda digrignando i denti. È in quest’inferno del bello che qui vogliamo discendere. È impossibi­le far­lo senza contemporaneamente introdurci nell’inferno del male, nell’inferno reale, perché il brutto più brutto non è quel che in natura ci ripugna – paludi, alberi contorti, salamandre e rospi, mostri marini che ci fissano con occhi spalancati, e pachidermi massicci, ratti e scimmie – è l’egoismo che manifesta la sua follia nei gesti perfidi e frivoli, nelle rughe della passione, nello sguardo torvo dell’occhio e nel crimine.
Questo inferno lo conosciamo abbastanza. Ognuno partecipa al suo supplizio. Sentimento, occhio e orecchio ne vengono colpiti nel modo più vario. Chi ha un’organizzazione più fragile, una conformazione più delicata spesso deve soffrirne immensamente; la rozzezza e la volgarità, l’informe e il deforme spaventano il senso più nobile con mille trasformazioni larvali. Un fatto, tuttavia, può essere noto a sufficienza, eppure non essere ancora riconosciuto a dovere nel suo pieno significato, in tutta la sua estensione. È il caso del brutto. La teoria delle belle arti, la legislazione del buon gusto, la scienza dell’estetica da un secolo a questa parte sono state ampiamente elaborate dai popoli civili d’Europa: solo l’elaborazione del concetto di brutto, mal­grado la si sia sfiorata spesso, è rimasta assai arretrata. Si troverà normale che ormai anche il lato d’ombra della figura luminosa del bello diventi un momento della scienza estetica, come in patologia la malattia, nell’etica il male. Non, come si è detto, che l’inestetico non sia già noto a sufficienza nelle sue manifestazioni particolari. Come potrebbe essere possibile questo, dal momento che la natura, la vita e l’arte ce lo rammentano ogni istante? Ma non si è ancora tentata un’esposizione più compiuta della sua connessione e una più esplicita conoscenza della sua organizzazione.
Certamente alla filosofia tedesca spetta l’onore di aver avuto per prima il coraggio di riconoscere il brutto come il negativo dell’idea estetica, come un momento integrativo dell’estetica, e anche di aver riconosciuto che, attraverso il brutto, il bello passa nel comico5. Non si può più rinnegare questa scoperta, che ha acquisito alla negazione del bello i suoi diritti. Soltanto che la trattazione del concetto di brutto è rimasta ferma, finora, in parte a una generalità abbozzata, poco approfondita, in parte a una concezione troppo unilateralmente spiritualistica. Essa era tesa, in modo troppo esclusivo, a spiegare alcune figure di Shakespeare e Goethe, di Byron e del genere Callot-Hof­fmann6.
Estetica del brutto suonerà, a taluno, un po’ come “ferro ligneo”, perché il brutto è il contrario del bello. Solo che il brutto è inseparabile dal concetto di bello: quest’ultimo lo contiene costantemente nel suo sviluppo come quell’errore in sé in cui si può cadere con un troppo o un poco, spesso esigui. Nel descrivere le determinazioni positive del bello, ogni estetica è costretta a toccare, in qualche modo, anche quelle negative del brutto. Perlomeno ci si imbatte nel monito che, se non si procede secondo le prescrizioni indicate, il bello non ci sarà e al suo posto verrà prodotto invece il brutto. L’estetica del brutto deve descriverne l’origine, le possibilità, le modalità, e in tal modo può diventare utile anche all’artista. Per quest’ultimo, naturalmente, sarà sem­pre più formativo rappresentare la bellezza senza manchevolezze, che non applicare la sua forza al brutto. Pensare a una figura divina eleva e dà piacere infinitamente di più che immaginare una grottesca smorfia diabolica. Ma non sempre l’artista può evitare il brutto; spesso anzi ne ha bisogno come punto di passaggio nella manifestazione dell’idea, e come elemento di spicco. Per di più, l’artista che produce il comico non può assolutamente fare a meno del brutto. Qui però possiamo prendere in considerazione, tra le arti, solo quelle che operano come libero fine a se stesse e come fine teoretico per i sensi dell’occhio e dell’udito. Le altre arti, dedicate al servizio dei sensi pratici del tatto, del gusto e dell’olfatto, restano escluse. Il signor Rumohr nel suo Geist der Kochkunst, Anthus nelle sue interessanti Vorlesungen über die Eßkunst e Vaerst nella sua arguta opera sulla gastronomia7, di valore durevole soprattutto dal punto di vista etnografico, hanno portato a un alto livello quest’estetica sibaritica. Leggendo questi lavori ci si può convincere che le leggi generali valide per il bello e per il brutto sono le stesse anche per l’estetica della buona tavola, per molti la più importante di tutte. Che una scienza come la nostra esiga una com­pleta serietà d’intenti, e nello stesso tempo non la si possa trattare con pedanteria, a meno di non voler assumere per metro la fragile eleganza dell’estetica da tavolino da tè ed evitare con affettazione il cinico e l’abominevole, è cosa che si comprende da sé: in questo caso infatti verrebbe meno la cosa stessa. L’estetica del brutto obbliga a occuparsi di concetti la cui discussione, o anche solo menzione, può essere considerata una mancanza verso le buone maniere. Chi prende in ma­no una patologia e terapia delle malattie si mette anche il cuore in pace e sa già di imbattersi nel ripugnante: e così qui.
Non è difficile capire che il brutto, in quanto concetto relativo, è comprensibile solo in rapporto a un altro concetto. Questo altro concetto è quello del bello: il brutto c’è solo in quanto c’è il bello, che ne costituisce il presupposto positivo. Se non ci fosse il bello, il brutto non ci sarebbe affatto, perché esiste solo come negazione di quello. Il bello è l’idea divina originaria e il brutto, sua negazione, ha, appunto in quanto tale, un’esistenza solo secondaria. Non nel senso che il bello, in quanto è il bello, possa essere contemporaneamente brutto, ma nel senso che le stesse determinazioni che costituiscono la necessità del bello si convertono nel suo contrario.
Questa intima connessione del bello con il brutto in quanto sua autodistruzione è anche la base della possibilità che il brutto, a sua volta, si neghi: che, in quanto esiste come negazione del bello, risolva poi di nuovo la sua contraddizione al bello tornando in unità con esso. In tale processo il bello si rivela come la forza che torna a sottomettere al suo dominio la ribellione del brutto. In questa conciliazione nasce un’infinita serenità, che suscita in noi il sorriso, il riso. Il brutto si libera in questo movimento della sua natura ibrida, egoistica; riconosce la sua impotenza e diventa comico. Il comico include sempre in sé un momento negativo verso il puro, semplice ideale; una tale negazione viene ridotta in esso ad apparenza, a nulla. L’ideale positivo viene riconosciuto nel comico perché, e in quanto, la sua manifestazione negativa si volatilizza.
Il modo di considerare il brutto è quindi delimitato con precisione dalla sua natura. Il bello è la condizione positiva della sua esistenza e il comico è la forma in cui esso, al cospetto del bello, torna a liberarsi del suo carattere solo negativo. Il semplice bello sta in relazione negativa per eccellenza verso il brutto: è bello solo nella misura in cui non è brutto, e il brutto è brutto solo nella misura in cui non è bello. Non che il bello, per essere bello, abbia bisogno del brutto. È bello anche senza il rilievo a contrasto che il brutto gli offre, ma il brutto è il pericolo che lo minaccia internamente, la contraddizione che per sua natura ha in se stesso. Le cose vanno diversamente con il brutto. Dal punto di v...

Table of contents

  1. Presentazione di Elio Franzini
  2. Estetica del Brutto di Karl Rosenkranz
  3. Prefazione
  4. Introduzione