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Filosofia della commedia di Dante - I Inferno
La luce moderna e contemporanea del nostro più grande Poeta
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Filosofia della commedia di Dante - I Inferno
La luce moderna e contemporanea del nostro più grande Poeta
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Il pensiero poetico di Dante, pur radicato nell'antichità e nel Medioevo, raggiunge le vette delle più alte problematiche contemporanee: attraverso grandi canti e personaggi, Dante ci parla di quella "strada deviata dell'Occidente" che soltanto nel secolo XXI è dato comprendere; il Poeta ci trascina di fronte a una "apoteosi del nulla" che ha preso corpo nel secolo XX, nella possibilità di un naufragio dell'avventura umana.
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Information
Canto XXXIV
Il Male assoluto, il capovolgimento.
L’etica kantiana e le stelle
L’ultimo canto dell’Inferno, che riflette il primo della Cantica, sprofonda in maniera coerente nel senso medioevale del Poema. E usiamo il verbo sprofondare a maggior ragione, visto che l’antefatto sia rappresentato dalla “caduta dell’angelo ribelle”, Lucifero, il più bello degli angeli che per primo tradì, per invidia: e tutto il canto è incentrato sulla sua figura, di cui abbiamo avuto già sentore nel vento che, nonostante la ghiacciata, si percepiva a metà del canto precedente. Ma in esso confluiscono una serie di motivi squisitamente medioevali che, peraltro, se sublimano nel modo migliore il senso e lo spirito di quell’epoca, riescono poi ad arrivare in maniera sorprendente alla nostra sensibilità, e insieme ai significati più profondi della nostra modernità, anche al di là del secondo millennio cristiano.
Lucifero è il “Male assoluto”, ma insieme anche il “brutto assoluto”, e infine semplicemente il Nulla, il non-essere, ovvero la minaccia del “non essere”. L’essere, in Dante, è l’amore; ma questo è anche il bello: ciò che lascia corrispondere, nella nostra esperienza di vita, l’esperienza etica con l’esperienza estetica. E in questo canto più che mai percepiremo, rinnovando la lezione di Kant e di Schiller, come etica ed estetica coincidano. In tal modo Dante ci lascia la sua compiuta “interpretazione dell’Occidente” che, trattando qui dei peccatori più gravi che sono i traditori dei benefattori – la Giudecca è infatti l’ultima parte di Cocito – fa riferimento diretto a Cesare e Cristo come dramatis personae che rappresentano la possibilità del Bene nella storia. Per Dante, Cesarismo e Cristianesimo sono evidentemente l’identità, intesa in senso positivo per l’uomo e per la storia umana, dunque lo stesso senso dell’essere, quel “mare dell’essere”, che incontreremo come visione assoluta nel Paradiso. Ad esso si contrappone il “non essere” che, come nel pensiero di Plotino, concepisce il male come ciò che “non è”.
Ma l’esperienza dantesca del Male assoluto, se affonda le sue radici nella filosofia antica e nel “teatro filosofico” di Seneca (e indirettamente da Plotino), più che mai anticipa il male radicale tematizzato in tutta l’esperienza moderna e contemporanea, che coinvolge non soltanto Kierkegaard, ma Leopardi, Dostoevskij, Strindberg, fino al contemporaneo autore svedese Lars Norén i cui “Demoni”, seppure nel loro universo piccolo borghese, non hanno nulla da invidiare al narratore russo, né al suo forse anche più grande collega Lev Tolstoj, con la sua “Potenza delle tenebre” e con le sue finali ossessioni “diaboliche”. È evidente, in ultima analisi, come nell’epoca di ateismo in cui già da secoli viviamo, lo stesso concetto teologico di “diavolo” si sia sempre più laicizzato e, nella letteratura come nella poesia e filosofia, stia ad esprimere proprio quello che in riferimento a Plotino abbiamo visto configurarsi come “non-essere”.
In questa maniera, e passando costantemente per questa “onto-teologia cristiana” che diviene anche laica, possiamo e dobbiamo oggi veramente reinterpretare questa nostra grande Commedia che, lasciata lì dov’è, corre il rischio di non sedimentarsi né intendersi in maniera adeguata, di rimanere semplicemente la “poesia del tomismo” – anche se Bruno Nardi, il più grande filosofo dantesco del XX secolo, si è sforzato per tutta la vita di dimostrare che non è così – e di apparire ancora oggi irrimediabilmente e semplicemente come un’opera cristiana, ancorché grandiosamente “il più gran libro scritto da un cristiano”, come rilevato più volte da Vittorio Sermonti.
Ma Dante pensa ben al di là della dottrina cristiana, e intuisce già qualcosa, il “Male assoluto”, che soltanto con Leopardi potrà stigmatizzarsi nella sua vera essenza: ovvero il nichilismo dell’Occidente:
Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male. Che ciascuna cosa esista è un male. Ciascuna cosa esiste per fin di male; l’esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell’universo è il male; l’ordine e lo stato, le leggi, l’andamento naturale dell’universo non sono altro che male, né diretti verso altro che al male. Non v’è altro bene che il non essere. Non v’ha altro di buono che quel che non è.
L’inferno è il Nulla: l’Inferno è proprio questa “costruzione ordinata al male”, con le sue leggi, la sua città, il suo ordine gerarchico, tutto il suo vario andamento rigorosamente finalizzato al Male, fino a Lucifero, simbolo di quel male che “rappresenta” il non essere, la possibilità che l’essere “non sia”. E questa è la stessa possibilità leopardiana di concepire il non essente come l’unico “bene”, l’unica possibilità positiva. Così Dante per primo intuisce il nichilismo, anche se lo personifica nella figura anticristiana di Lucifero, ma che certo rappresenta uno dei più grandi “alibi” della storia culturale di ogni tempo.
Per questo motivo pensiamo che Lucifero, simbolo del Male come del non-essere, in questa allegoria profondamente medioevale, in realtà si configuri alla stessa maniera del suo opposto, il Dio Cristiano, nell’ambito della poesia e dell’impianto teatrale dantesco, come poi sarà in Shakespeare e in tutti gli elisabettiani: questo è l’alibi, il più grande “alibi” di Amleto (quando afferma di non voler uccidere il Re che sta pregando, perché in tal caso questi andrebbe in Paradiso). Shakespeare, in maniera simile e contraria, utilizza il Cristianesimo “pro domo sua”. È questa la medesima questione che ci si para dinannzi nel momento in cui affrontiamo la Commedia e tutte le sue implicazioni teologiche ancorché storiche: Dante sceglie Cesare e Cristo (su Cesare si esprime all’esatto contrario di Shakespeare, come rilevato bene anche da Harold Bloom, dato che l’Inglese mostra una predilezione per Bruto, che vedremo qui invece nella seconda bocca di Lucifero) come rappresentanti del Bene: sono loro i primi “benefattori” dell’Occidente, e quindi rappresentano il vero “senso”, in quanto “significato positivo”, religioso e politico della nostra società. Ma in realtà proprio qui, e soltanto in questo finale, si comprende un elemento della Commedia, che certo abbiamo avuto già modo di incontrare in varie situazioni, ma che Lucifero viene a rappresentare integralmente: la fondamentale perversione di tutta la Commedia, il suo essere costruita sopra la possibilità più forte e più alta di ogni perversione.
La sua stessa perfezione metodologica diviene alla fine l’attestato di questa continua e anche metodologica perversione, che di fatto ha animato tutto l’Inferno, e che in certi episodi si è fatta avanti in maniera più esplicita che mai. La Commedia è il più perverso di tutti i poemi.
La Commedia è la più forte “critica della storia occidentale”; con essa Dante si è profondamente ribellato anche al dogmatismo del Cristianesimo – laddove ancora oggi la Commedia si vede interpretata in tal modo, anche da coloro che credono senza remore nel Dio assoluto che “punisce i cattivi e premia i buoni” – pur avendo sublimato il Cristianesimo nella maniera in cui abbiamo visto. Ma proprio in questo modo la Commedia arriva fino a noi, criticando l’ateismo dell’epoca in cui viviamo, ma nello stesso tempo offrendoci una riflessione sui massimi problemi della nostra esistenza nel secolo XXI.
Dante ci ammonisce, e lo fa nella maniera più dura e severa, che se non usciremo da questo corso infernale della politica, e quindi della storia a noi contemporanea, il mondo non potrà sperare...
Table of contents
- MIMESIS / filosofie del teatro
- Prefazione
- Il testo orale e la partitura della Commedia
- Volume primo
- Interpretazione e commento dell’InfernoIl regno della potenza
- Introduzione all’Inferno
- Canto I
- Canto II
- Canto III
- Canto IV
- Canto V
- Canto VI
- Canto VII
- Canto VIII
- Canto IX
- Canto X
- Canto XI
- Canto XII
- Canto XIII
- Canto XIV
- Canto XV
- Canto XVI
- Canto XVII
- Canto XVIII
- Canto XIX
- Canto XX
- Canto XXI
- Canto XXII
- Canto XXIII
- Canto XXIV
- Canto XXV
- Canto XXVI
- Canto XXVII
- Canto XXVIII
- Canto XXIX
- Canto XXX
- Canto XXXI
- Canto XXXII
- Canto XXXIII
- Canto XXXIV
- Filosofia della commedia di Dante
- Mimesis Filosofie del teatro