Dialoghi sul postumano
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Pedagogia, filosofia e scienza

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Pedagogia, filosofia e scienza

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Il volume promuove il dialogo fra settori di studio eterogenei (in particolare pedagogia, fi losofi a, letteratura, sociologia, etologia), al fi ne di proporre una rifl essione transdisciplinare su come le prospettive postumaniste possono contribuire a riarticolare in profondità i differenti campi del sapere, modifi candone logiche, linguaggi, criteri epistemologici, unità di analisi, metodologie di indagine, immaginari. L'obiettivo del testo è di rifl ettere criticamente sull'emersione di un nuovo paradigma culturale che si pone come alternativo sia a quello umanista sia a quello scientista e tecnocratico. Nello specifi co, il volume ambisce a rendere conto della svolta postumanista e postantropocentrica che sta avvenendo tanto in fi losofi a quanto nelle scienze umane e della natura e di come questa svolta possa aiutare a interpretare le metamorfosi che caratterizzano lo scenario contemporaneo.

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Information

PARTE TERZA
LA MATERIALITÀ
DELL’EDUCAZIONE

Capitolo nove
Agency e materialità nella cultura pedagogica diffusa.

Immagini dalla formazione
di Alessandro Ferrante



Introduzione


L’ipotesi da cui muove il saggio è che nella cultura pedagogica la materialità29 sia una dimensione tendenzialmente trascurata, se non addirittura residuale e misconosciuta (Barone, 2014; Ferrante, 2016). I modelli formativi più diffusi, infatti, si radicano fermamente in una tradizione – quella umanista e antropocentrica – che considera l’umano separato e al di sopra del contesto materiale che lo ospita (Sørensen, 2009; Ferrante, 2014) e induce a sottostimare il contributo attivo di oggetti, macchine, spazi, tecnologie, forze naturali nella definizione dei processi didattico-educativi (Fenwick, Edwards e Sawchuk, 2011). Modificare questa visione del rapporto tra umano e materialità e recuperare le “masse mancanti e neglette” dei non-umani (Latour, 2006; Landri e Viteritti, 2016), implica in primo luogo la necessità di rielaborare criticamente gli assunti di natura antropocentrica presenti perlopiù implicitamente nei modi di pensare e di fare educazione in una pluralità di situazioni formative.
A partire da queste premesse, il contributo intende problematizzare la relazione tra immaginario pedagogico30 e materialità avvalendosi della decostruzione critica di un’immagine realizzata durante un percorso formativo con un gruppo di insegnanti, condotto con un approccio ispirato alla Clinica della Formazione. Tale immagine rappresenta soltanto un pretesto, un espediente per articolare una riflessione di più ampia portata. Essa, però, è in qualche modo emblematica di una cultura pedagogica che risulta ancora piuttosto comune nel milieu educativo contemporaneo.

La Clinica della Formazione


Dato che l’immagine è stata prodotta in un contesto formativo di tipo clinico, prima di procedere con l’analisi si ritiene utile illustrare brevemente l’approccio di Clinica della Formazione.
La Clinica della Formazione è stata ideata da Riccardo Massa e Angelo Franza, insieme a un gruppo di allievi e collaboratori, tra la fine degli anni ottanta e i primi anni novanta. Essa individua l’oggetto della pedagogia nella struttura latente della materialità educativa e dei suoi dispositivi31 e al contempo avanza una proposta teorico-metodologica di ricerca empirica, formazione di “secondo livello” (ossia formazione dei formatori), supervisione e consulenza (Massa, 1990, 1992; Riva, 2000; Marcialis, 2015). In questo senso, è una prospettiva pedagogica capace di offrire una “risposta congiunta agli interrogativi sul piano epistemologico, della ricerca e dell’azione formativa” (Rezzara, 2004, p. 21). L’obiettivo della Clinica della Formazione è di addentrarsi nei “terreni selvaggi dell’educazione” (Massa, 2003) per provare a comprendere ciò che di volta in volta genera gli eventi formativi nel loro accadere specifico e situato, rispettando la complessità che contraddistingue ogni pratica educativa.
Massa sostiene che tanto negli immaginari pedagogici diffusi nella società, quanto nelle esperienze educative effettivamente progettate e realizzate, siano rinvenibili delle dimensioni (contestuali, materiali, cognitive, affettive) che non sono immediatamente evidenti. Dimensioni che molte volte restano latenti, ma che proprio per questo lavorano sotterraneamente producendo degli effetti. I modi in cui gli educatori e gli insegnanti interpretano e maneggiano la materialità educativa, si muovono in essa e sono da questa mossi, rinviano pertanto a delle disposizioni perlopiù inconsapevoli (Massa, 1992; Barone, 1997; Ferrante, 2016; Riva, 2016). Nello spessore e nella densità sociomateriale dell’educazione agiscono delle forze nascoste e sfuggenti, che di solito nella ricerca educativa non sono adeguatamente riconosciute e tematizzate.
Per rendere ragione di queste “zone d’ombra” Massa ha ideato la Clinica della Formazione. Quest’ultima, come ha scritto Cristina Palmieri, compone “evidenze e latenze, mettendo in luce sostrati e intrecci di pratiche e di vissuti ma anche di modelli, di norme, di accorgimenti organizzativi che alimentano azioni, pensieri, comunicazioni e discorsi che quotidianamente si danno nei contesti educativi” (Palmieri, 2014, p. 17). Praticare la Clinica della Formazione significa allora metaforicamente chinarsi – da qui appunto la scelta del termine “clinica” – sull’educazione per osservarla attentamente e in profondità, cercando di intercettarne, nominarne, elaborarne gli aspetti coscienti, evidenti e manifesti, così come quelli inconsci, sommersi e impensati.
A tale scopo, durante i percorsi di Clinica della Formazione, indipendentemente dal fatto che siano finalizzati alla ricerca, alla formazione o a entrambe, viene chiesto ai partecipanti – solitamente dei piccoli gruppi composti di volta in volta da docenti, formatori, educatori, operatori socio-sanitari – di produrre del materiale (ad esempio testi scritti, immagini, disegni, artefatti) avente come focus privilegiato l’esperienza educativa sperimentata in prima persona. Ciò serve ai singoli individui e ai gruppi come ancoraggio concreto per interrogarsi – supervisionati da uno o più clinici – sulle dimensioni esplicite e implicite che innervano e orientano il modo in cui la formazione è rappresentata e gestita nel contesto specifico in cui lavorano.
La proceduralità clinica ha consentito nel tempo di accumulare una notevole quantità di scritti, documenti, disegni, artefatti provenienti da numerosi attori sociali e da molteplici agenzie di formazione. Si sono dunque cominciate a notare delle regolarità: situazioni, parole, racconti, immagini, che ciclicamente si ripetono, sia pur con alcune variazioni, più o meno consistenti. È proprio su una di queste immagini ricorrenti che ci si intende soffermare. Essa è il frutto di un’attività in cui è stato chiesto a degli insegnanti di rappresentare su un foglio con un disegno la propria idea di formazione32.

L’insostenibile passività della materia


L’immagine in questione raffigura delle mani umane che modellano un vaso che si può supporre sia di creta o di argilla. Il significato del disegno è abbastanza intuitivo. È ragionevole ipotizzare che le mani del vasaio possano rappresentare un educatore-demiurgo che cerca di fissare indelebilmente nel vaso – elemento che con ogni probabilità simboleggia l’educando – la forma che desidera che questo oggetto-soggetto assuma. L’educazione in quest’opera è dipinta come una forza che dall’esterno imprime una forma predeterminata a una materia informe, passiva, malleabile. Il progetto del vasaio (quindi il progetto educativo) si svela progressivamente nel corso dell’azione di modellamento (cioè dell’azione pedagogica) che lo inscrive nel vaso (vale a dire nell’educando). Dal disegno emerge inoltre che l’educazione coincide con un rapporto duale: poiché non c’è uno sfondo (se non le parti bianche del foglio), né sono presenti altri “attori” sulla “scena”, tutto si gioca tra insegnante e allievo, tra mani del vasaio e vaso.
Analogamente a diversi disegni che provengono da ricerche e percorsi clinici eterogenei, l’immagine rimanda alla figura dell’artigiano (Barone, 2014). In queste rappresentazioni di educazione e del ruolo dell’insegnante si afferma l’idea che il lavoro educativo sia fondamentalmente artigianale e che consti in un’attività che sovente si avvale di mezzi semplici e poveri oppure, come in questo caso, fa affidamento unicamente su un’abilità corporea, su un saper fare incarnato, che non necessita di ulteriori supporti materiali. Tale carenza di strumentazione è compensata dalla creatività dell’insegnante, ossia da una particolare disposizione che permette di conferire una forma originale a un materiale grezzo. In questa metafora riecheggia dunque “un modello pedagogico riconducibile all’idea di formazione come attività plasmante e creativa […] nella quale è forse sottesa la fantasia di poter modellare un allievo d’argilla” (Barone, 2014, p. 56). In questo immaginario “ingenuo” e di senso comune la formazione appare come una pratica di con-formazione orientata a un “dover essere”: la “forma” che deve assumere l’educando è già presente sin dal principio nella mente dell’educatore e viene realizzata attraverso un’azione volta a plasmare l’altro. L’allievo è una materia che acquisisce una certa forma solo per merito dell’opera del maestro. Il suo contributo sembra perciò quello di essere ricettivo, disciplinato, di lasciarsi costituire secondo le norme e i criteri estetici dell’educatore-vasaio.
L’immagine, per certi versi, svilisce l’allievo nella sua autonomia e dignità personale, in quanto lo riduce a un oggetto non-umano su cui il maestro esercita un potere pressoché illimitato. L’educando è assimilato suo malgrado a una cosa, a una materia alquanto inoperosa e ubbidiente, completamente succube al volere dell’educatore. Credo che oggi per molti professionisti dell’educazione questo modo di concepire la relazione educativa sia eticamente inaccettabile33. Per la retorica pedagogica contemporanea, infatti, l’educando dovrebbe rivestire un ruolo decisamente più intraprendente e propositivo. L’autore dell’opera, insomma, avrebbe dovuto collocare anche l’educando nel versante attivo della materia, cioè quello umano, di cui fa già parte l’educatore. Di conseguenza, l’elemento dissonante e perturbante dell’immagine, ciò che la rende potenzialmente scabrosa, non è in sé e per sé che la materia non-umana sia passiva, ma che all’educando sia negata la posizione privilegiata che, in quanto umano, gli spetterebbe di diritto.
Perché allora l’immagine ritrae l’educando come un’umile cosa? Ovviamente non è possibile saperlo con certezza, però si possono formulare delle ipotesi interpret...

Table of contents

  1. introduzione
  2. Capitolo uno Postumano e pratiche di contaminazione: saperi, soggetti, materialità
  3. PARTE PRIMA SAPERI IBRIDI
  4. PARTE SECONDA PROCESSI DI SOGGETTIVAZIONE E ALTERITÀ
  5. PARTE TERZA LA MATERIALITÀ DELL’EDUCAZIONE