Dracula
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Fantasmi

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Nato col cinema e la psicoanalisi, il consumismo di massa e le prime ondate migratorie verso l'Europa colonialista, il Dracula (1897) di Bram Stoker è un romanzo stranamente sospeso fra l'arcaico e il moderno: la storia di un mostro antico su cui si condensano ansie e timori già tutti contemporanei. Il vampiro si trasforma qui per la prima volta in icona del nostro tempo, abbandona i castelli in rovina per insinuarsi negli spazi metropolitani della Londra globalizzata e infiltrarsi nel cuore delle sue istituzioni: la famiglia borghese, il mondo delle professioni, le cittadelle del potere medico, politico e finanziario. Mutando pelle, il non-morto diventa l'alieno, il virus che infetta il corpo dell'Occidente moderno.

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Capitolo IV
Imposture




Dal vivo: voci, grafie, scritture automatiche


L’incursione di Dracula nel manicomio di Purfleet lascia un altro segno oltre al contagio di Mina: i manoscritti originali delle testimonianze e i cilindri del fonografo vengono dati alle fiamme dal vampiro e ridotti a un cumulo di ceneri bianche (p. 265). Al gruppo restano le copie dattiloscritte, ma l’episodio degli originali distrutti prepara il colpo di scena finale, quella nota conclusiva che smentisce quanto annunciato in esordio dall’anonimo editore e ci informa che abbiamo fra le mani un testo inautentico, nient’altro che un mucchio di materiali riprodotti meccanicamente senza alcun originale a garantirne la genuinità (p. 351). Dracula è un fake, una copia contraffatta che si è finta vera. E l’autenticità ostentata dai suoi sofisticatissimi media per registrare la realtà o dalle testimonianze in presa diretta serviva solo a mettere alla prova il confine, sottilissimo, tra verità e simulazione, originale e copia. La mossa di Stoker è spiazzante, e non solo perché sovverte un topos ben consolidato del gotico, quell’espediente del manoscritto originale ‘ritrovato’ di cui si erano serviti scrittori come Horace Walpole (in The Castle of Otranto) o Wilkie Collins (in The Moonstone, 1868) allo scopo di autenticare le loro narrazioni. A rimescolare ancora una volta le carte in Dracula è piuttosto lo statuto di questo fake, un prodotto tecnologico, copia fedelissima dell’originale come si presume debbano esserlo una fotografia, una registrazione sonora, o, appunto, un dattiloscritto a stampa, tutti prodigi di quell’era mediale così avanzata da sancire la supremazia del gruppo sull’arcaico vampiro. Il topos dell’originale ‘perduto’ solleva quindi un altro ordine di problemi, aprendo alla complessa questione della riproducibilità tecnica e dei suoi effetti sulle nozioni di originalità e autenticità, messe in crisi da una neonata produzione in serie che rischiava di incrinare il primato degli originali, sottraendo loro quell’anima o aura, come la chiamerà Walter Benjamin, che li rendeva unici, singolari, legati a un ‘qui’ e a un’‘ora’ irripetibili.
La nota finale di Dracula ci invita dunque a ritornare sui nostri passi e ripercorrere il testo sulle tracce di un altro tema, la cultura della copia mediale, che sollevava all’epoca profonde inquietudini. Si tratta peraltro di turbamenti non molto diversi da quelli che oggi accompagnano la cosiddetta ‘svolta digitale’, l’ultima rivoluzione tecnologica che consente ormai di produrre immagini elettroniche completamente sganciate da qualunque originale, obbligandoci a ripensare, bel al di là del concetto di autenticità, le stesse frontiere fra mondi animati e inanimati. Anche le odierne immagini generate al computer, dalla grafica animata all’attore virtuale, possiedono dopotutto la natura vampirica di “cose” quasi-vive, di multipli senza originale e senz’anima che riattivano nel nostro tempo una mentalità magica e stranamente arcaica, sorprendentemente affine all’intreccio fra duplicazione tecnologica e creature undead di cui Dracula ha saputo cogliere tutta la portata di mito moderno.
Fra le pieghe del romanzo riemerge non a caso proprio un abbozzo di genealogia dei media, quasi che anche Stoker ricerchi le matrici della sua cultura mediatizzata e guardi indietro per comprenderne gli snodi e i passaggi cruciali, a cominciare proprio dalla scrittura, il medium antico, senza dubbio più tradizionale, pensato per trascrivere l’esperienza vissuta e conservarne traccia grafica su un supporto materiale. È il processo nel quale vediamo coinvolti, fino all’ossessione, i personaggi del romanzo, intenti compulsivamente a scrivere, scrivere, scrivere, spesso meditando sulla natura del loro gesto o invocando il bisogno di “registrare” una vita altrimenti così inafferrabile da assomigliare a un fantasma. Traumatizzato nel castello di Dracula, Harker cita Shakespeare e le famose ‘tavolette’ di cera, i supporti materiali su cui Amleto (Hamlet, I, vv., 107-8) sente l’urgenza d’incidere le parole udite dal fantasma di suo padre, che gli ingiunge di ricordarsi di lui: «My tablets! Quick, my tablets!/ ‘Tis meet that I put it down» (p. 37; “Le tavolette, presto, le mie tavolette! È bene che io registri questo”, p. 50). Non è solo una generica spettralità ad accomunare il padre di Amleto e Dracula, che secondo alcuni evoca in Harker un analogo fantasma paterno. Dracula è infatti anche il fantasma della voce, della miriade di voci, fugaci ed evanescenti, che vibrano nelle pagine di un testo considerato non a caso anche come la celebrazione della potenza del sonoro, per essenza inafferrabile come lo è la materia della vita. Harker, come suggerisce il suo cognome che deriva da ‘to hark’ – udire, ascoltare – si pone all’ascolto, ma il desiderio spasmodico dei media è di catturare queste voci, intrappolarle in una grafia che ne restituisca la presenza e la conservi per il ricordo e il riuso futuro. La scrittura, dal segno scolpito sulle tombe di cui parla Swales (p. 63) al tracciato sulla pagina, è in primo luogo un’archiviazione dell’esperienza vissuta, una tecnologia della memoria.
È sempre Harker, seduto nel castello a un vecchio tavolino di quercia su cui «in old times possibly some fair lady sat to pen […] her ill-spelt love-letter» (p. 37; “le dame un tempo redigevano con ortografia incerta le loro lettere d’amore”, p. 49), a rievocare un altro passaggio cruciale nella storia dei media, il momento in cui, per ricordare un’esperienza, si avverte l’esigenza di trasmetterla in modo immediato. È l’utopia di ‘scrivere l’istante’ – writing to the moment la definì Richardson – che il Settecento aveva affidato al romanzo epistolare, ossia a una narrazione, spesso redatta per l’appunto da donne, come accade in Pamela (1740) di Samuel Richardson (1689-1761), composta solo da un incrociarsi di lettere scritte di getto, magari ancora macchiate di lacrime come quella di Lucy (p. 56), e poi inviate al destinatario lontano. Per quel suo peculiare raccordo fra l’occhio, la mano e il foglio di carta, il gesto di scrivere diventava così parte integrante della vicenda. Un gesto messo in scena nel tentativo di incapsulare – in divenire – il vissuto, anche emotivo e corporeo: ‘sto scrivendo, registrando…’, ci ripetono continuamente i narratori di Dracula. È evidente che il romanzo epistolare, ideato al tempo del sistema postale, sognava già l’abolizione delle distanze ottenuta più tardi grazie al medium del telegrafo, la parola che vola fulminea per l’appunto ‘a distanza’ (tele), dando l’impressione di una perfetta sincronicità tra vivere, scrivere, comunicare. La scrittura all’impronta della forma epistolare ispira ancora, del resto, il tempo presente dei verbi scelto dai narratori di Dracula, un tempo aggiornato alla meraviglia tecnica della stenografia, il suono imprigionato ‘dal vivo’ in un simbolo grafico. «It is nineteenth century up-to-date with a vengeance» (p. 37; “È la vendetta attuale del XIX secolo”, p. 49), osserva Harker a proposito di questo ammodernamento che oggi chiameremmo ‘rimediazione’ tecnologica: il medium più nuovo (la stenografia) cannibalizza quello precedente (l’istante della calligrafia epistolare), lo mette a morte e contemporaneamente lo trasforma, adattandolo al mutato orizzonte comunicativo.
Dracula ci fa capire che nel 1890 il writing to the moment ha ormai incorporato una pluralità di discorsi, linguaggi, supporti, tecniche di scrittura proprie della comunicazione di massa; non più solo lettere, ma documenti, articoli di stampa, voci registrate, la foto Kodak che sbuca dagli incartamenti di Harker, il ticchettio della macchina da scrivere che batte il testo in diretta. Quando Mina confessa a Van Helsing di aver messo in ordine «all things that have been, […] not up to this moment, […] but up to this morning» (tutte le “cose successe […] non fino a questo momento […] ma fino a questa mattina”), il professore le risponde «But why not up to now?» (p. 219; “E perché non fino a ora?”, p. 299). Come a suggerire che il romanzo epistolare rinnovato deve essere in presa diretta: multimediale, ipertestuale e condiviso, un po’ come i social media di oggi, la variante elettronica degli scambi postali di un tempo che fu. L’insieme di grafie depositate in Dracula – fotografia, telegrafia, fonografia, stenografia, dattilografia – racconta allora, per sommi capi, la progressiva evoluzione della ‘scrittura’ verso la realizzazione dell’immenso progetto, culminato in età borghese, di garantire all’umanità l’archiviazione totale del vissuto, la trasparenza rappresentativa e la comunicazione istantanea: basta un click fotografico o un microfono perché la vita, depositata sempre più fedelmente nei duplicati tecnologici, sia trasferita immediatamente su supporto e tele-trasmessa in ‘tempo reale’, come si dice oggi, a una massa sempre più estesa di fruitori e destinatari.
Ma il risultato, naturalmente, non è affatto la ‘vita’ pura e semplice. Nelle grafie e nei supporti ideati dalla scienza moderna, la vita giace infatti imbalsamata come i corpi nelle cripte – un’immagine che già Platone aveva evocato a proposito della scrittura. E quella vita resusciterà con una prontezza tanto più vivace – e inquietante – quanto più la copia sarà fedele all’originale svanito. A questa dimensione potenzialmente sovrannaturale dei media, che Dracula esalta in tutti i suoi aspetti, i contemporanei di Stoker, testimoni e/o artefici della rivoluzione tecnologica sin dal suo nascere, erano straordinariamente sensibili. Lo stesso inventore del fonografo, Edison, affermava con orgoglio che la voce, colta sul vivo e realisticamente dalla sua prodigiosa macchina parlante, sarebbe sopravvissuta al corpo che l’aveva prodotta, continuando a risuonare per l’eternità con un rauco stridio meccanico, lo stesso «harsh, metallic whisper» (p. 45; “sussurrare metallico e duro”, p. 62) che Harker nota con sgomento nella voce del vampiro.
Dracula che giace con gli occhi spalancati nella cripta del castello, attorniato da altre quarantanove casse tutte uguali, prefigura già l’universo delle copie che ritroveremo nei dattiloscritti di Mina, insinuando l’idea che ogni iscrizione o trascrizione è solo una simulazione della vita, un fantasma che resta lì in attesa, né vivo né morto, undead. A smentire le contrapposizioni tra vetusti vampiri e nuove tecnologie, emerge insomma la dimensione gotica – e vampirica – latente nei media di captazione e registrazione. Essa dimostra che, a dispetto del vantato razionalismo, la modernità non ha per nulla cancellato il sovrannaturale di un tempo, ma lo ha semplicemente ricreato – attraverso la sua fede nella tecnica – in forme ancora più inquietanti, re-incantando il mondo. “Perturbante” è il termine – aggettivo e sostantivo – che Freud inventerà per qualificare questa fascinazione – e percezione – angosciata, un sintomo del disagio per la riemersione alla luce della modernità di un passato che si voleva superato per sempre e di cui ci si scopre invece impregnati. L’epoca di Stoker è d’altronde costellata da effetti perturbanti e sensibilità perturbate. Di un misterioso fonografo da cui proveniva la voce vivida, perché registrata, di una morta, aveva per esempio già scritto nel 1889 Conan Doyle nel racconto The Japanned Box. E ancora Joyce, in Ulysses, proporrà la stramba idea di mettere un grammofono in ogni tomba per dialogare con i morti, come a proseguire in viva voce il lavoro della memoria. Tutto l’immaginario vittoriano delle tecnologie è popolato di caratteri grafici che prendono vita dalla pagina, fotografie che si rifiutano di star ferme o telegrafi che, come in Wireless (1902) di Joseph Rudyard Kipling (1865-1936), inviano messaggi dai trapassati, evocando scenari magici che vanno ben oltre la letteratura gotica o fantastica.
Questa è infatti l’epoca in cui le neonate tecnologie della comunicazione danno supporto alle tesi occulte e spiritiche difese in Dracula da Van Helsing: gli scienziati della Society for Psychical Research si servono delle fotografie per catturare i volti dei fantasmi. L’alfabeto Morse del telegrafo batte colpi come gli spiriti ai tavolini delle sedute medianiche, invocati da corpi umani in trance che prendono, guarda caso, il nome di medium, mediatori della comunicazione con l’aldilà. Non sorprende che in questi riti un po’ esoterici anche le macchine per scrivere si trasformino in oggetti magici, messi spesso al servizio d’invisibili ghost wr...

Table of contents

  1. Premessa
  2. Capitolo I - Nell’archivio di Dracula
  3. Capitolo II - Contaminazioni
  4. Capitolo III - Corpi estranei
  5. Capitolo IV - Imposture