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1977: assalto al cielo, che "finalmente cade sulla terra". Mentre "il cielo della politica" è scosso da vicende infime come gli scandali, si impenna l'onda della sovversione sociale. Occupazioni, scontri di piazza, l'assassinio poliziesco di Francesco Lorusso, l'immenso tumulto del 12 marzo a Roma. Irrompe un movimento inedito: una "generazione '77" esonda da fabbriche e scuole, militanti tracimano dalla sinistra extraparlamentare. Si contestano economia e società, Stato, partiti, sindacati, status quo e narrazioni di futuro.
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Information
Come una (possibile?) spiegazione
Pino Casamassima
Aprile, 1975. È in questo mese di questo anno che si spengono gli ultimi, esigui fuochi di un ’68 già tradito il 17 maggio 19722 e il 16 aprile 19733. È in questo mese che sono decine i giovani che passano dalle questure d’Italia. A dimostrazione di un capitolo chiuso, quella di Milano dichiara che molti di loro non appartengono a nessuno dei gruppi della cosiddetta nuova sinistra: sono “cani sciolti”, ex militanti di Lc o di Pot Op, attivisti di collettivi autonomi, come il Nucleo Autonomo di Quarto Oggiaro, e comontisti che teorizzano la lotta sottoproletaria illegale4, le cui parole d’ordine sono “Prendiamoci ciò che ci serve!”, “Distruggiamo ciò che non è nostro!”, “Teppistiziamoci!”5. La nuova cifra è quella del disordine, coerentemente con il rifiuto dell’appartenenza. Prova ne sia che la stessa polizia è disorientata dall’assenza dei servizi d’ordine tradizionali. Le manifestazioni di aprile sono dunque segnate dalla presenza di gruppi che, con parole nuove, marciano distaccandosi da “quella che fu” la nuova sinistra. Coerentemente con tutto ciò, il Movimento Studentesco, Ao ed Lc condannano azioni quali gli assalti alla sede del Psdi di via Mar Jonio e al bar Matricola di Città Studi, oltre l’attentato agli uffici di due parlamentari del Msi. Per Lc si tratta di giovani sbandati che con le loro azioni sconsiderate danneggiano tutta la sinistra. Più “complottistico” l’impianto interpretativo del Ms, che non esclude infiltrazioni di provocatori il cui intento è quello di gettare discredito sulla lotta antifascista6. L’azione contro la sede del Msi di Firenze si traduce in un dramma. La polizia affronta infatti un centinaio di autonomi, alcuni dei quali armati. A rimetterci è Rodolfo Boschi, giovane militante comunista che invitava alla calma7. Tutto ciò dimostra che nel mondo della sinistra extraparlamentare è cresciuta notevolmente in questi ultimi anni un’area alternativa al movimento “ufficiale”, in forte dissenso con tutte quelle organizzazioni che, nonostante le reciproche diffidenze, hanno guidato le lotte in questi ultimi otto anni. Scrive “Rosso”, un mensile dell’area dell’Autonomia, qualche giorno dopo gli scontri di Corso XXII Marzo: “Una nuova generazione di militanti ha preso la testa del movimento. Sono quelli che non hanno fatto il ’68, che hanno appreso la gioia della lotta attraverso le battaglie di questi ultimi anni: sono i compagni per i quali la lotta di appropriazione per il comunismo è una parola d’ordine immediatamente attiva”8. La critica nei confronti del ’68 è una delle caratteristiche più interessanti di questa “nuova generazione di militanti”. Il Sessantotto – scrivono gli studenti romani nel 1977 – agli inizi è riuscito ad armonizzare le tematiche studentesche ed esistenziali con quelle della lotta di classe, ma poi è scivolato verso il marxismo-leninismo, nella sua corrente “anti-revisionista”, maoista, ponendo le basi per la sua disgregazione. Si afferma un “rigido primato della politica”, che comprime violentemente il personale e le problematiche esistenziali. Come conseguenza, il movimento si pone il problema del potere e dei mezzi per conquistarlo. “Centrale divenne per le frazioni dei gruppi extraparlamentari – concludono gli studenti del ’77 – il problema del partito come strumento leninista della conquista del potere” e, “nella misura in cui si riconosceva il ruolo trainante della classe operaia nella società e ci si spostava di conseguenza dallo scontro nelle scuole e in fabbrica al terreno del controllo dello Stato e delle sue istituzioni, era giocoforza riconoscere il ruolo determinante del Pci in quanto espressione politica delle grandissime maggioranze della classe operaia italiana e in quanto erede di una tradizione culturale, quella gramsciana, che rappresenta forse la migliore applicazione delle tesi leniniste alle società occidentali”9. Le giornate d’aprile, lungi dal riaggregare i gruppi nati nel Sessantotto, che di lì a poco daranno vita a Democrazia Proletaria (lo sbocco parlamentare a dieci anni di lotte), sanciscono invece la nascita di un nuovo movimento. Forse non è un caso se, proprio in quei drammatici giorni, muta radicalmente anche l’atteggiamento del Pci verso l’ultrasinistra. Il quotidiano “l’Unità”, per esempio, registra le manifestazioni, gli scontri e i funerali che si susseguono con estrema freddezza, tanto da scatenare le ire di molti commentatori democratici, primo fra tutti Giorgio Bocca10. Il Pci è ormai avviato verso il “compromesso storico”, cioè verso la collaborazione di governo con la Dc. Un programma lanciato dal Segretario del partito, Enrico Berlinguer, nell’autunno del 1973, dopo la tragica conclusione del governo di Unidad Popular in Cile, rovesciato da un colpo di Stato militare ispirato da Washington. Secondo Berlinguer la sinistra non può governare con appena il 50 per cento dei consensi in un paese del blocco occidentale: è necessario coinvolgere le altre forze democratiche del paese, quella socialista e, soprattutto, quella cattolica, che rappresenta la maggioranza degli italiani, per completare il processo democratico avviato nel 1945 senza traumi irreversibili. È un programma che il movimento, con le sue manifestazioni, gli scontri con la polizia, le occupazioni e gli slogan sempre più duri nei confronti del partito di maggioranza relativa, rischia più volte di far naufragare. E così le critiche si fanno sempre più dure, come più violenti gli attacchi, e compaiono le prese di distanza pubbliche, che isolano il movimento. Nel 1975 la rottura, perché il Pci è mobilitato per le Amministrative, un vero e proprio banco di prova per la sua linea politica: occorre parlare ai ceti tradizionalmente lontani dal partito, all’opinione pubblica democratica e anche a quella moderata, delusa dal malgoverno democristiano e colpita duramente dalla crisi economica. Ma ci sono altri motivi. Il Pci sa che nel movimento esistono gruppi molto lontani dalla tradizione comunista, dalla sua visione del mondo, dalla sua storia. Non si tratta di Ao, del Ms, del Manifesto eccetera, cioè della nuova sinistra nata nel 1968, con la quale vi sono sì forti dissensi, ma anche una sostanziale convergenza di idee, e nemmeno delle Br, che sono fuori dal movimento, e che comunque rientrano pur sempre nella tradizione dei gruppi marxisti-leninisti tradizionali, con una struttura interna molto rigida e una schiera di attivisti e simpatizzanti formatisi politicamente nelle sezioni comuniste o in quelle sindacali (oppure nelle parrocchie: il primo “compromesso storico” nasce proprio in seno alla lotta armata), ma di chi non vede nella classe operaia il propulsore di ogni cambiamento, riformista o rivoluzionario che sia. Sono tanti gli studenti che lavorano, i giovani che hanno solo delle occupazioni precarie; ci sono decine di migliaia di disoccupati e di emarginati: tutti questi soggetti difficilmente possono essere inquadrati nelle tradizionali organizzazioni politiche e sindacali presenti stabilmente nei luoghi di produzione dei beni di consumo materiali, la fabbrica, o immateriali, la scuola. E sono proprio questi, gli “esclusi”, da sempre mal visti da Pci, sindacati e nuova sinistra, lontani mille miglia dall’ortodossia marxista-leninista e dal cattolicesimo democratico militante, a costituire l’ossatura del nuovo movimento che tanto preoccupa Berlinguer. Scrive il Nucleo Autonomo di Quarto Oggiaro di Milano, protagonista degli scontri dell’aprile 1975: “Noi non abbiamo miti di fronte ai quali inchinarci!!! Non siamo marxisti, tanto meno leninisti. Siamo delle coscienze rivoluzionarie. Ci sta bene tutto ciò che è realmente radicale. Seppelliamo i cadaveri delle vecchie ideologie!!! (...) Non siamo per la dittatura del proletariato, che poi si riduce sempre a una “dittatura sul proletariato”. Dalla classe operaia, dai quartieri e dalle scuole arriva, proprio in questo momento, l’esigenza e la volontà di organizzarsi in modo “autonomo”: sganciati dai sindacati, dal Pci e dai gruppetti extraparlamentari, i quali rappresentano pur sempre l’ala sinistra del capitale”11. I nuovi gruppi lavorano nei quartieri, lì dove non la classe operaia, non gli studenti, ma il proletariato in generale, compreso quello marginale, vive, anzi sopravvive; zone dove non esistono luoghi di aggregazione alternativi al bar, all’oratorio, alla piazza. “A Quarto Oggiaro le persone sono ridotte a doversi fare un buco di eroina per sopravvivere, perché non ci sono spazi nei quartieri, non ci sono spazi nella città, non c’è spazio nel lavoro, non c’è spazio per niente. La prima espressione è un’espressione di rabbia quindi di violenza. Il semaforo di un incrocio non è importante, però personalmente io lo spacco perché ho una rabbia che non riesco a indirizzare”12.
E affinché la rabbia di migliaia di giovani possa essere indirizzata contro un obiettivo più alto, la distruzione della gabbia del ghetto in cui viene confinata, nascono i Circoli del Proletariato Giovanile, completamente autogestiti, impegnati quotidianamente nella lotta contro il degrado, gli spacciatori di eroina, i fascisti, i caporali del lavoro nero e gli speculatori edilizi. Tra il 1974 ed il 1975 questi Circoli si moltiplicano, soprattutto nei quartieri periferici di Milano, e cominciano a prendere part...
Table of contents
- Nota editoriale
- Al tempo del pronome “noi”
- Avant et après
- Prima parte
- Seconda parte
- Terza parte
- Quarta parte
- Documenti
- Come una (possibile?) spiegazione
- La vita intanto...
- Avant et après
- Nota biografica