Vita nello spazio
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Vita nello spazio

Sull'esperienza affettiva dell'architettura

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Vita nello spazio

Sull'esperienza affettiva dell'architettura

About this book

Sin dalla fine del XIX secolo, il termine spazio ricorre costantemente nella letteratura architettonica: tuttavia, a fronte di questa centralità, la riflessione teorica in merito appare oggi inadeguata, minata da una vaghezza che la rende inapplicabile come strumento per la pratica del progetto. Nelle scienze umane, negli ultimi venti anni si è assistito a uno spatial turn che ha investito trasversalmente la geografia umana, l'antropologia e la filosofia, con ramificazioni nelle scienze cognitive. Le ricadute di questa evoluzione culturale sull'architettura sono state occasionali e asistematiche: questo volume si pone dunque l'obiettivo di declinare tali saperi verso il progetto architettonico, tramite la descrizione di un modello di spazio che tenga conto della complessità e ricchezza dell'esperienza che il soggetto fa dell'ambiente. Al centro dell'indagine viene posta la relazione dinamica tra percezione, movimento ed emozione, basata sulla corporeità del soggetto e sulla sua risposta preriflessiva.

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Information

1.
Introduzione
Architecture is so generally regarded as an art of space, meaning actual, practical space, and building is so certainly the making of something that defines and arranges spatial units, that everybody talks about architecture as “spatial creation” without asking what is created, or how space is involved. The concepts of arrangement in space and creation of space are constantly interchanged; and the primary illusion seems to have given way to a primary actuality. Nothing is more haphazard than the employment of the words: illusion, reality, creation, construction, arrangement, expression, form, and space, in the writings of modern architects.
(Langer, 1953, p. 93)
Il disagio avvertito dalla filosofa Susanne Langer rispetto al linguaggio usato dagli architetti non sembra, nemmeno a sessantacinque anni di distanza, essere qualcosa rispetto al quale possiamo rimanere immuni. Per gli architetti, urbanisti, paesaggisti, designer e tutti coloro che si occupano di progettare la trasformazione dell’ambiente lo spazio è una questione centrale: eppure si stenta a fare chiarezza, a fornire una descrizione accurata, condivisibile, che esuli dal dominio del poetico e dell’ineffabile. Come ben sottolineato nell’esergo, non si comprende se lo spazio sia causa o effetto dell’architettura – o se le nozioni di causa ed effetto abbiano in questo contesto alcun senso.
Parlare oggi di spazio in architettura può sembrare superfluo, considerando quanto questo tema sia stato al centro del dibattito architettonico per gran parte del Novecento. Si potrebbe quasi dire che sullo spazio gli architetti hanno già detto tutto quanto ci fosse da dire: eppure, quasi paradossalmente, è difficile trovare un modello teorico soddisfacente, che spieghi in maniera articolata e convincente di che cosa parliamo quando parliamo di spazio.
I tentativi di leggere l’architettura attraverso la categoria critica dello spazio certamente non sono mancati: Sigfried Giedion, sul finire degli anni Trenta, registra nel suo Spazio, tempo ed architettura la rilevanza che questi termini avevano acquisito nel dibattito scientifico di inizio secolo, percolata poi nel mondo dell’architettura. Nel 1948 Bruno Zevi importa il concetto in Italia tramite la rutilante teoria spaziale illustrata in Saper vedere l’architettura, libro il cui impatto sulla cultura architettonica nel nostro Paese è stato tanto vasto quanto controverso. Dopo un periodo di disinteresse, un revival di studi negli anni Ottanta riapre la questione con maggiore distanza critica, con i volumi di Cornelis van de Ven Space in Architecture (1980), dedicato alle avanguardie moderne e alla loro interpretazione di questo concetto chiave, o Jürgen Joedicke con Raum und Form in der Architektur (1985), una pregevole indagine sulle qualità spaziali di alcuni grandi monumenti della storia, fondata sulla tradizione estetica tedesca.
Eppure, nonostante le migliori intenzioni, intorno all’idea di spazio sembrano sempre addensarsi alcuni equivoci fondamentali: l’idea che lo spazio sia una cosa, oppure l’invaso di una cosa costruitagli intorno, oppure un vuoto; che lo spazio abbia una qualche affinità con alcuni stili costruttivi e meno con altri; che lo spazio sia appannaggio esclusivo del mondo dell’architettura; che lo spazio sia un fattore oggettivo e, infine, che possa essere direttamente progettato. Tutte queste tesi, solo di rado espresse con chiarezza e in genere annegate in un mare di considerazioni ideologiche o marginali, non fanno altro che aggiungere confusione alla confusione già ravvisata dalla Langer. Lo scopo di questo libro, dunque, è tentare di fare chiarezza intorno ad alcune questioni relative allo spazio (non soltanto) dell’architettura.
Un ulteriore aspetto di non poco conto che contribuisce all’intrinseca debolezza del discorso sullo spazio condotto nella cultura architettonica è il perenne ritardo culturale di cui questa soffre. La grande “moda” dello spazio nella teoria architettonica fra le due guerre altro non è stata che lo scoppio ritardato di un ampio dibattito svoltosi tra la fisica, le scienze naturali, la filosofia, la psichiatria e l’arte a cavallo tra Ottocento e Novecento; all’emergere del fervore degli architetti intorno allo spazio, questa “moda” era in buona parte già stata superata da altre priorità. La teoria dell’architettura dello scorso secolo ben dimostra la ridotta reattività di questa disciplina rispetto ai sommovimenti culturali, fatto dovuto al suo essere alimentata, al di fuori della sua specificità tecnica del progettare e costruire, da un sapere derivato più che primario. Non è questo un fatto nuovo né particolarmente da stigmatizzare; sappiamo però bene che, nella storia della cultura, i grandi mutamenti che hanno avuto origine proprio nella teoria dell’architettura rappresentano casi del tutto eccezionali.
Quello di cui la cultura architettonica non sembra essersi peraltro accorta è di essere stata superata, nel suo presunto primato sulla teoria dello spazio, da molte altre discipline, investite negli ultimi venti anni da una profonda trasformazione cui ci si riferisce spesso come spatial turn. Di spazio si occupano oggi profusamente le scienze della mente, scienze naturali come la fisica e l’ecologia nonché molte branche delle scienze umane tra cui l’antropologia, la geografia culturale, la sociologia, l’archeologia e la storia dell’arte. Tutte, in varia misura, influenzate dal pensiero filosofico, in particolare dalla “riscoperta” della fenomenologia di Edmund Husserl e Maurice Merleau-Ponty.
A onore del vero, anche nella teoria dell’architettura contemporanea alcuni importanti studi hanno riportato l’asse dell’attenzione verso la questione dello spazio. Dalla metà degli anni Novanta autori come Juhani Pallasmaa, Alberto Pérez-Gómez e Harry Francis Mallgrave hanno variamente declinato il tema spaziale, attraverso una rivendicazione della centralità della percezione, sulla scorta di una rilettura di Merleau-Ponty. In anni più recenti, questi e altri autori hanno incluso nel discorso il tema delle atmosfere, giunto nel campo dell’architettura attraverso il lavoro del filosofo Gernot Böhme. Eppure, in entrambi i casi, l’interesse si concentra su aspetti specifici della dinamica del soggetto, perdendo di vista un più ampio discorso sulla natura dello spazio. Inoltre, molti di questi ragionamenti appaiono inquinati da un pregiudizio ideologico relativo alla superiorità di alcuni modi di fare architettura rispetto ad altri, ancora una volta implicando che lo spazio è prerogativa di alcuni stili o modelli formali.
Solo due testi recenti direttamente dedicati all’architettura, ed entrambi improntati a un metodo fenomenologico, hanno delineato un quadro strutturato della dinamica dell’esperienza spaziale del soggetto: il primo, di Dalibor Vesely, Architecture in the age of divided representation (2004); il secondo, Architektur und Atmosphäre dello stesso Böhme (2006). Ciò che in questi lavori appare convincente, sebbene con inclinazioni molto diverse, è la capacità di cogliere lo spazio come struttura fondante dell’esperienza dell’ambiente più che come fenomeno che emerge solo in alcune architetture: non si tratta quindi di formulare giudizi sull’architettura e la città attraverso una chiave di lettura spaziale, bensì di proporre un diverso modo di osservazione.
Proprio in virtù dei fondamenti fenomenologici di questi due lavori si chiarisce che lo spazio non si dà come qualità dell’ambiente, quanto come incontro tra la manifestazione contingente dell’ambiente e un soggetto che lo esperisce attraverso la sua corporeità. La presenza spaziale del soggetto è, sin dai primordi della fenomenologia, considerata condizione centrale per la comprensione del mondo: anche in questo libro viene posta tale premessa, e la vita nello spazio cui si riferisce il titolo non sono le avventure di verdi polipoidi intergalattici senzienti, bensì quella che ciascuno di noi conduce quotidianamente.
Il tentativo che vogliamo fare qui è di descrivere l’architettura non tanto come sistema di oggetti fisici tecnicamente e culturalmente connotati, quanto nei termini degli effetti che questi, facenti parte di un più ampio orizzonte, producono sul soggetto. Assumendo la prospettiva del soggetto, dunque, cerchiamo di descrivere come ci si sente quando si incontra l’architettura: scelta che significa sì allontanarsi dalla missione primaria della disciplina – progettare e costruire le cause di questi effetti – ma consente altresì di mettere a fuoco con maggiore chiarezza la natura di questi effetti e come l’ambiente (progettato e non) li genera.
È dunque il soggetto il protagonista della vicenda narrata nelle pagine che seguono. Soggetto inteso come articolazione di sfumature: non universale, né singolare; soggetto fondato su una radice evolutiva profonda, sulla quale si innestano differenze culturali importanti; dotato di capacità innate e altre acquisite nel tempo, tramite l’addestramento e l’accumulazione di esperienza pregressa; soggetto, soprattutto, inteso nella pienezza della sua corporeità vissuta. Non intendiamo infatti una mente disincarnata che deambula per l’ambiente, né un grezzo coacervo di stimoli sensoriali elaborati in forma computazionale, bensì un soggetto influenzato affettivamente da quanto gli accade intorno: incontri, sorprese, risposte emotive ricche che non gli consentono di rimanere indifferente allo spazio che abita. È questo forse il maggiore dei limiti della teoria dello spazio in architettura: il considerare, di norma, lo spazio come entità separata rispetto al soggetto, la cui presenza è di fatto l’innesco per l’emergere dell’esperienza.
La difficoltà di un metodo fondato sulla centralità del soggetto si ravvisa proprio nella qualità ineffabile dell’esperienza vissuta in prima persona, per definizione non trasmissibile né verbalizzabile. Tuttavia, un secolo di tradizione fenomenologica, dalla epoché husserliana al concetto di mente incarnata, ha “sdoganato” la validità di una pratica basata sull’osservazione diretta dell’esperienza, non più bollata come inaffidabile flusso di sensazioni, bensì evidenza primaria della realtà che il soggetto incontra nel mondo. Alla non misurabilità di questa risposta, dunque, occorre contrapporre una pratica di attento ascolto e osservazione del proprio sentirsi, del registrare la risposta corporea a quanto l’ambiente e l’architettura che questo contiene ci propongono. Come hanno dimostrato Varela, Thompson e Rosch in uno dei più influenti testi dell’ultimo scorcio del Novecento (1991), la validità e riproducibilità dell’esperienza in prima persona, benché esulante dal metodo scientifico classico, è corroborata da un’ampia gamma di pratiche di osservazione corporea perfezionate in qualche millennio di storia, e oggi al centro del dibattito epistemologico.
In sintesi, questo libro si propone di descrivere lo spazio per come lo viviamo, sia nella nostra quotidianità sia in alcune condizioni di eccezionalità. Parla di architettura, di città e di paesaggio ma non solo, perché lo spazio per come viene qui inteso non appartiene solo al mondo antropico o alla galassia degli oggetti progettati. Soprattutto, mette al centro il soggetto, ribadendo di continuo una stessa domanda, presa in prestito da Eugène Minkowski (1933): come mi sento io, qui, ora? Per dare risposta a questa domanda, si avvale di nozioni derivate da molti rami del sapere, dalla fenomenologia all’estetica intesa come aisthesis – teoria della percezione, dalle neuroscienze all’antropologia e alla geografia, dalla filosofia della mente alla psicologia ecologica, includendo, chiaramente, anche l’architettura e gli studi sul paesaggio e la città. Le questioni affrontate sono molte, e alcune vengono soltanto sfiorate, per privilegiare una ricognizione generale di molte problematiche che vuole essere introduttiva ad un campo di studi di notevole ampiezza. È proprio per questo suo carattere che il testo può essere rivolto a una molteplicità di lettori, comprendente tutti coloro che, a vario titolo, dagli architetti agli urbanisti, dai paesaggisti agli artisti, progettano e realizzano la trasformazione dell’ambiente.
Per questo stesso motivo la struttura del volume è semplice, divisa in capitoli brevi: la prima parte pone alcune questioni generali sullo spazio; la seconda descrive le principali caratteristiche del soggetto, legate alla corporeità, alle dinamiche percettive, al movimento e all’affettività; l’ultima parte è invece dedicata alle manifestazioni spaziali di alcune famiglie particolari di ambienti. Lo spazio è una questione complessa e ricca di ramificazioni, e questo breve lavoro non ha la pretesa di esaurirle tutte; allo stesso tempo, avrà raggiunto il suo scopo se riuscirà a far entrare un filo di luce nella disordinata soffitta che è, oggi, la teoria dello spazio in architettura.
2.
Di che cosa parliamo quando parliamo di spazio?
L’architettura è l’arte di costruire lo spazio: affermazione tanto ovvia quanto, in realtà, poco chiara. Che lo spazio sia per gli architetti – e per chi si occupa di progetto in senso ampio, come designer, urbanisti, ecc. – un tema rilevante lo si sa, ma lo si dà in larga misura anche per scontato, tanto che, paradossalmente, al giorno d’oggi gli architetti sullo spazio ragionano relativamente poco. Sia chiaro: di spazio, in architettura, si parla sempre, ma a guardare da vicino sembra che nessuno chiarisca mai esattamente di che cosa si tratti. Come se si desse per scontato che lo spazio funzioni in qualche modo, altrettanto ovvio sapere come funzioni, nonché, con una buona approssimazione, quali siano le tecniche per crearlo e trasformarlo....

Table of contents

  1. 1. Introduzione
  2. 2. Di che cosa parliamo quando parliamo di spazio?
  3. 3. Lo spazio oltre le cose
  4. 4. Il corpo vissuto
  5. 5. La cognizione dell’ambiente
  6. 7. Gesti e rituali
  7. 8. L’incontro tra i soggetti
  8. 9. Lo spazio del sentimento
  9. 10. Forme del tempo
  10. 11. La città affettiva
  11. 12. Dell’interno architettonico
  12. 13. Archeologia delle emozioni
  13. 14. Il primato del sentimento
  14. Crediti delle illustrazioni
  15. Bibliografia
  16. Ringraziamenti